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mercoledì 22 aprile 2015

Sulle vie della storia! Viaggio nel gioiello nascosto di Alba Fucens.

A volte ci si sorprende a pensare a un Dio molto faticoso da cercare, che non si mostra mai, che ti fa percorrere cammini ignoti e ti fa obbedire a una disciplina senza logica apparente.
Poi, altre volte, capisci invece, che nella vita immersa nell'entusiasmo stanno davvero le porte del Paradiso.

È proprio questo entusiasmo che ci mette in pieno contatto con lo Spirito Santo e ci fa pensare alla vita non come un mistero di una povera esistenza ma a un autentico miracolo.
Ho pensato a questo davanti ai resti dell’antica colonia romana di Alba Fucens.
Un ambiente spettacolare: la distesa di ciò che resta di un’antichissima urbe, ai piedi di una montagna severa come il Velino, ciò che rimane di un castello dalle possenti mura si di un’altura a nido d’aquila e una misteriosa chiesa su di un colle vicino.
Le pietre raccontano la vita, secoli di esistenze difficili ma affascinanti e possono aiutare a capire dove camminiamo e in quale direzione siamo diretti.

Mi trovo nel comune di Massa d’Albe, provincia dell’Aquila, cuore della Marsica.

In questo paese distante una manciata di chilometri parte un percorso bellissimo ma infame nella distanza e nell'esposizione al sole cocente o alla neve e pioggia che imperversano per conquistare la vetta di una montagna scorbutica e insolita.

È il bello di chi approfondisce un parco regionale che è tra i più belli d’Italia, quello del Velino Sirente!
Chi scrive ha percorso questo sentiero per sei lunghe ore e non lo dimenticherà mai.

Qui ad Alba Fucens, invece, si arriva anche in auto e proprio davanti al sito archeologico.
Guardo le pietre e mi sento come nel mezzo di un viaggio affascinante all’interno di una prodigiosa macchina del tempo!
Guardare le pietre significa correre vertiginosamente all’indietro e fino al 304 a.C., data fatidica in cui alcuni storici e tra essi il famoso Tito Livio, collocano la nascita ufficiale di questa cittadina, posta nel cuore dell’antico territorio degli Equi.
Era questo un fiero popolo italico, militarmente organizzato che scelse proprio la collina di Alba, per dominare con la vista tutte le vallate intorno.

L’aquilano, cari lettori, ricopriva un ruolo strategico assai al confine fra Sabini, Vestini Peligni ed Equi, appunto.
C'era una sorta di compartecipazione di usi e costumi sia pure nell’ambito di autonomie tribali della civiltà medio italica.

Inoltre le culture settentrionali attraversavano l’Abruzzo, in transito verso l’Adriatico, la Campania Felix e la Magna Grecia.
La nostra terra era stata eletta a ruolo di snodo e crocevia territoriale cui pose fine la sottomissione a Roma.

Gli Equi edificarono delle mura per circa quattro chilometri con massi poligonali di grande dimensione, costruendo all’interno, una città con strade, abitazioni e gallerie sotterranee di difesa.
Il luogo era ritenuto magico.
Gli Equi ben sapevano che nel punto dove si poteva ammirare pienamente l’inizio di un giorno, lì c’era la mano di Dio che soprassedeva a tutte le cose del mondo.
È pacifico che non era un solo Dio a occupare le loro menti.

Ed ecco il motivo per cui, oltre al tempio dedicato ad Apollo, posto su di un colle dove oggi svetta la vecchia chiesa di San Pietro e i resti del convento, a volte depredati da maledetti tombaroli, se ne contano almeno altri due un tempo dedicati a oscure divinità del momento.

I Romani, amici miei, faticarono non poco per conquistare questo sito ben difeso.
Sollevarono più volte le loro spade, impegnarono buona parte del loro potenziale bellico per ridurre allo stato di schiavitù il piccolo ma duro popolo che difendeva strenuamente le loro origini.

Poi, le fiamme dei fuochi distruttivi crepitarono, le fosse comuni furono scavate e riempite, il suolo spianato dai crudeli invasori che ebbero la meglio in una battaglia sanguinosa ed epica.
Alba Fucens divenne una giovane colonia e in pochi anni si dimostrò fedele verso Roma molto più delle altre colonie.

Il popolo fucense brandì le sue armi d’acciaio che non si distrugge, dalle impugnature in legno che la terra non può consumare, difendendo la Caput Mundi dal bieco Annibale della seconda Guerra Punica.
Gli Albensi combatterono contro tutti e tutto: Galli, Sanniti, Umbri, Averni, anche quando erano scomparsi da tempo i due consoli benvoluti che avevano insegnato l’amore per Roma: Lucio Genucio e Servio Cornelio.

Il luogo divenne così ricco e Roma decretò Alba Fucens Grande Municipio!

Questo fin quando terremoti sconquassanti e invasioni barbariche non decretarono l’immatura fine della città.

Ci fu un sussulto di ripresa in epoca medievale quando venne costruito il castello sul colle San Nicola introno al XV secolo.


Ci pensò Carlo D’Angio e le sue teppaglie a distruggere tutto e neanche una momentanea parentesi della potente famiglia degli Orsini, salvò il luogo dall’incuria e dimenticanza, preda di briganti.
Nel 1915 il più furioso dei terremoti rase al suolo tutto.

Il cartello all’ingresso della piana dove insistono i ruderi, consiglia un numero telefonico per avere a disposizione una guida.
La donna che arriva subito da una casa vicina è una giovane madre che volontariamente si presta a guidare i turisti lungo un affascinante percorso nella storia.
Apre il portale della chiesa di San Pietro, unica realtà monastica in Abruzzo in cui la navata centrale è separata dalle laterali grazie a colonne antichissime.
La basilica è di epoca Sillana, II secolo a.C., anticamente sotto c’era un Tempio di Apollo
La giovane sembra quasi scusarsi del fatto che, al suo interno, è rimasto ben poco.

I ladri in un paio di incursioni e, poi, i musei di Celano e Chieti per difesa, hanno portato via tanti tesori sotto forma di lapidi, monete, vasi, statue e altri rinvenimenti.

Ciò che resta vale comunque la pena di ammirarlo, tra colonne tortili dell’iconostasi di scuola cosmatesca e un abside di tutto rispetto.

Scendo nel grande anfiteatro di circa cento metri per ottanta.
Un brivido pensare che questo immenso catino ospitava gli spettacoli dei gladiatori.
Si vedono bene i piccoli vani dove erano rinchiuse le pericolose fiere.

Lungo il decumano massimo visito i resti evidenti di un’antica domus romana, tra sprazzi di mosaici e pezzi di colonne.
Lungo vie laterali si intuiscono le pietre di antiche taverne dove si mangiava e faceva festa.
Poi la zona del Mercato, le terme con pezzi che raffigurano mostri marini, i bagni ben divisi tra maschi e femmine e il Sacello di Ercole.

Per informazioni
www.albafucens.info
albafucens@virgilio.it

Per mangiare io ho assaggiato superbe carni locali al "ristorante Anfiteatro" di fronte la chiesa in piazzetta.
Gestione familiare e prezzi modici!


giovedì 16 aprile 2015

Le meraviglie di Rosciolo in valle Porclaneta.

Costanza ha un'età.
Si è curvata sotto il peso degli anni, ma quando il vento scuote un albero vecchio, si dice che cadono giù le foglie ma il tronco rimane fermo.

Le mani della dolce vecchina sono incallite, il cuore però è grande.
Racconta storie da regina.

Da quella bocca antica escono benedizioni miste a ricordi ed emozioni senza tempo.
Narra di un paese, Rosciolo, dove un tempo venivano chiuse le porte d'ingresso la sera per essere riaperte al mattino successivo, incastellati per bene a difesa di malintenzionati.
Erano tempi duri e il borgo era circondato da portici e mura.
Anche oggi è difficile vivere da queste parti.
E' davvero ciarliera Costanza, ascoltarla è un piacere.

Siamo nell'antico abitato, pochi passi da Magliano dei Marsi, cuore dell'aquilano, proprio dove la terra trema e si muove anche a darmi il benvenuto in questa calda mattina di aprile.

La combattiva donna neanche le conta più le scosse, le gambe degli abitanti di Rosciolo non tremano certo di paura,
sanno convivere con le bizze della terra.

Il posto è suggestivo, elevato com'è su di una collina calcarea, in ginocchio ai piedi del re, il monte Velino, a 900 metri di altezza.

Ne conta qualcuno in più la vetusta parrocchiale dedicata a Santa Maria delle Grazie, che si stacca imperiosa, dall'anonima piazzetta, nella parte più elevata del borgo medievale.
Strette vie si dipartono dalla chiesa, tra antichi resti e case imbrunite dal tempo.
E' come essere in viaggio all'interno di una prodigiosa macchina del tempo.

Ci teneva Costanza a portarmi all'interno di questo tempio prima di farmi scoprire il gioiello della Valle Porclaneta per cui ho fatto questi chilometri sull'autostrada Teramo Avezzano.
Si, tutti vengono fin qua alla scoperta di Santa Maria in Valle, antico manufatto sacro dell'XI secolo.

"Anche la nostra Santa Maria delle Grazie merita i tuoi occhi"- dice ridendo la vecchietta terribile.

Un sagrato rettangolare, sopraelevato di qualche gradino in pietra precede la facciata squadrata, contornata a sinistra da una tozza torre campanaria con, a destra, un bel rosone romanico elegante, affiancato da uno più piccolo.

Sull'architrave dell'ingresso principale c'è una bella lunetta con affresco di Madonna con Bimbo che regge il globo, affiancata da San Giovanni Battista e San Pietro, accanto a tre angeli.
Entro e rimango basito.

Sulla bacheca della chiesa campeggia una foto gigante che ritrae Costanza insieme al Papa emerito Benedetto XVI, col parroco del paesino e il segretario particolare di Sua Santità.
Anche il pontefice è arrivato fin qua per scoprire la Maria di Valle Porclaneta e anche lui ha dovuto visitare la chiesa del centro storico.

Scopro che Costanza è di casa in Rai; è apparsa in video, ripresa dalle telecamere di Sveva a Geo e Geo e dal Bevilacqua che conosciamo in Sereno Variabile.

Non ci resta che andare in auto in mezzo alle campagne, oggi solitarie, ma un tempo ricche di case e proprietà della Chiesa, che si estendono sotto la montagna madre.

Andiamo alla scoperta del secolare tempio, patrimonio dell'umanità e Monumento Nazionale.
Nell'aria c'è una luce vivida e il panorama è sontuoso.

La chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta è poco distante dal sentiero impervio che sale sul Velino, a quota 1006 metri.
Costanza è prodiga di notizie!
Mi invita a guardare attentamente la facciata del manufatto dove le falde del tetto ripeterebbero perfezione la sagoma del monte sopra.
Sarà ma io non scorgo questa somiglianza.
L'esterno è anonimo.

Piuttosto la mia attenzione è dedicata al tipo di scrittura che si trova sui capitelli e il portale con lunetta, sormontata da un delizioso affresco di Nostra Signora con due angeli ai lati dei primo del secolo XIV.

L'anziana fa fede al suo nome, con "costanza" e dedizione continua a informarmi.

La chiesa sarebbe risalente al VII secolo anche se il primo documento certo è del 1048 dove si legge della donazione del castello di Rosciolo al monastero di Valle Porclaneta.

Poi gira la chiave nella toppa, l'antico portale, pesante, cigola sinistramente fin quando, aprendosi, schiude le sue meraviglie!

Nelle tre navate con abside centrale semicircolare c'è tutta la sapienza creativa dell'arte nel mondo: stili diversi da preromanico a romanico e bizantino; capitelli con animali incredibili, simboli primordiali o templari, figure geometriche, fiori della Vita ... fin quando, addossato a una colonna di pietra, si offe alla mia vista il magnifico ambone del 1150, opera di Roberto e di Nicodemo che già avevano creato altrettanti manufatti in altre chiese abruzzesi, come Santa Maria del Lago a Moscufo nel pescarese.

Qui però gli artisti erano in stato di grazia! Le sculture sono incredibilmente belle e originali: c'è Giona che viene espulso al ventre della balena, Salomè che danza sinuosa, il mitico Sansone dai capelli fluenti che ammazza un leone con un bastone, il tutto in un susseguirsi di angeli e figure sante .

Non finisci di essere rapito da cotanta bellezza che la mia cicerone quasi mi urla di guardare con attenzione all'"Iconostasi", struttura ricca di icone e posta in alto a separazione tra la parte dedicata ai catecumeni battezzati e religiosi dal resto dei fedeli.

Ora gli occhi si sgranano verso un trionfo di draghi, grifoni, tra colonnine eleganti, fregiate da giri di foglie e fiori e parte lignea in quercia del 1240, che soffre l'usura del tempo.

La gioia di essere dentro questo tesoro è grande.

Non avevo mai visto tanta arte tutta insieme.
Tra affreschi del trecento, in fondo troneggia il "Ciborio" quasi ricamato nelle sue sculture, ricco di figure arabeggianti che gli stessi autori dell'ambone hanno regalato all'eternità.

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Rivolgetevi per la visita a Costanza prenotandovi al 3482768926 o 3407947704 o fisso al 0863517691.
Attenzione, c'è la possibilità di dormire nel piccolo ostello con cucina e bagno a lato della chiesa donando un'offerta libera, (sei- otto posti letto!).

Per raggiungere Magliano dei Marsi e Rosciolo nel parco Regionale del Velino Sirente, percorrere l'autostrada A25 direzione L'Aquila Avezzano, uscita Magliano.
Si mangia bene ovunque.
Io ho mangiato ottima carne locale alla brace al Ristorante "Anfiteatro" di fronte ai resti dell'antica città romana di Alba Fucens assolutamente da visitare a circa 18 chilometri, direzione Ovindoli.

mercoledì 18 marzo 2015

La cittadella scomparsa a Teramo!

La pioggia, caduta giù da nuvoloni lunghi come sgombri, ha reso piazza Garibaldi a Teramo quasi inguardabile.
Fiumi d’acqua continuano a scendere da viale Crucioli, cozzando contro il cemento dell’Ipogeo.
È come se, avendo perso la storica fontana, ogni slancio cittadino che parte da questo slargo principale sia sopraffatto, generando un rassegnato e neghittoso fatalismo.

Piccoli fiori spontanei rossastri sono spuntati sopra la terra incolta dello scatolone ferrigno che è la fantascientifica costruzione.
Pare scimmiottare il famoso cubo del Louvre di Parigi.

È la futura sala espositiva di una città che purtroppo ignora cosa significhi la parola “museo”.
Basterebbe guardare le presenze che conta la Pinacoteca o il museo archeologico.

L’Ipogeo deve diventare il fiore all'occhiello di una città che mette al primo posto la cultura, fu detto.
Noi siamo in paziente attesa.

Mi torna in mente l’ormai lontano 2008, quando, nel corso degli scavi che furono compiuti al centro di piazza Garibaldi per la costruzione di questa grande sala espositiva, progetto che ripeto ancora non vede la sua fine e vituperato da gran parte della cittadinanza, tornarono sorprendentemente alla luce le antiche pietre di un edificio che gli esperti individuarono come il castello degli Acquaviva.

Gli storici Muzio Muzi e Niccolò Palma nei loro studi, perché a quei tempi si studiava davvero, l’avevano scritto più volte che esisteva proprio in questo luogo, un castello, edificato da Giosia Acquaviva, duca di Atri, nella prima parte del 1400.

La storia ricorda che avvenne proprio allora l’infeudamento di Teramo alla potente famiglia.
Il nobile aveva individuato nella attuale piazza fuori dalle mura nord occidentali della città, dall'accesso di Porta San Giorgio, il luogo ideale dove far sorgere la sua lussuosa residenza.

I locali interni a uso del duca, pare fossero interamente decorati da tessellati pavimentali e da intonaci pregiati.
Tutto era ulteriormente arricchito da affreschi importanti.
Parliamo di un sito molto ricco nel cuore della zona verde dell’abitato teramano, dove c’era un laghetto, diversi animali tra cui volatili rari e un ampio giardino che conferiva all'insieme una veste da reggia preziosa.
Quella che fu edificata, insomma, era una vera e propria cittadella rinascimentale, una sorta di fortilizio con tanto di fossato pieno di acqua e ingressi multipli.
Era un parco urbano oggi completamente perso.

Abbiamo un’insignificante appendice nella villa Comunale in abbandono se si guarda agli alberi e al piccolo stagno, dove galleggiano rifiuti.
Nei locali sotterranei vi erano le carceri, dove erano rinchiusi i numerosi oppositori che non volevano riconoscere il primato degli Acquaviva.
Per molti Teramo, infatti, era una città regia dipendente solo dal Regno di Napoli.

Muzi raccontò anche di sale tortura, dove i biechi sgherri del potente feudatario, carpivano confessioni e costringevano i malcapitati a svelare i nomi di chi tramava contro il potente casato.
Qualche lettore interessato si chiederà se è possibile che di tutto questo non ci sia più traccia alcuna.

E che, anzi a guardare oggi questa piazza, sembra assurdo ciò che è stato scritto dallo scribacchino che leggete.
Eppure è stato così.
Ma, ditemi, come stupirsi, dato che a Teramo e in parte d’Abruzzo, qualsiasi rinvenimento è mucchio di pietre da inciampo che dilatano i tempi per nuove costruzioni?

Fateci caso!
Nonostante il territorio abruzzese sia stato protagonista nell'ultimo quarantennio di rinvenimenti eccezionali per l’archeologia di ogni tempo, le scoperte non hanno quasi mai risonanza fuori dai confini regionali.
Questo accade non solo per scavi che portano alla luce resti di popolazioni italiche della notte dei tempi, ma anche per altre epoche più vicine, a dimostrazione di quanto l’Abruzzo sia stato importante snodo e crocevia territoriale della storia e che questo sia oggi dimenticato completamente.

A Teramo, poi, come ampiamente dimostrato, siamo maestri nel minimizzare le eventuali scoperte, cercando di non renderle visibili e fruibili né ai cittadini, tanto meno ai pochi visitatori che si avventurano dalle nostre parti.



La verità è che siamo incuranti sia delle eventuali vestigia dell’antica Interamnia, sia di un passato più vicino ma comunque da dimenticare.
Alla felicità stupita della scoperta si associa lo sgomento per la consapevolezza che del tempo molti sono incapaci di cogliere con immediatezza la profondità e la ricchezza di un patrimonio archeologico da difendere e far conoscere.
Questo ha portato e porta la politica a una mancata tutela della storia in preda alle inevitabili problematiche derivanti dalle continue trasformazioni del territorio.

In città esistono esempi clamorosi come la dimenticata domus romana di via del Baluardo, la sconosciuta casa mosaicata di Bacco in via dei Mille o il famoso mosaico del Leone tutti inaccessibili ai nostri occhi.
Se ci spostiamo in periferia il parco archeologico della Cona e l’importante Via sacra degli Interamniti è preda di palazzi costruiti o in costruzione.
Perché stupirci?

martedì 3 febbraio 2015

Il mondo sarà salvato dalla bellezza: Santa Maria dello Splendore.

Il silenzio è la prima presenza che si avverte.
Un silenzio antico, uguale ormai da secoli.
E dire che il caos di Giulianova è lì, a pochi passi.

Un silenzio mistico, scheggiato solo a tratti dall'abbaiare di un cane.


Il santuario della Madonna dello Splendore sembra dominare l’immensità dell’Adriatico, in un ambiente fortemente coinvolgente dove la bellezza della natura si fonde con la rasserenante beltà della fede in Dio e nella Madre del Cristo.
Poco importa se il miracolo dell’apparizione della Vergine è una delle miriadi di tradizioni orali tramandate dall'immensa devozione popolare, nessuna delle quali, secondo gli scettici, suffragate da indagini accurate.
Il santuario con l’annesso convento dei frati Minori Cappuccini, è ancora oggi una sorta di finestra che si apre sul mistero divino. Una guida spirituale non solo per la comunità giuliese, ma per tutto l’Abruzzo.

“Il mondo sarà salvato dalla bellezza…”, lo affermava Dostoevskij in un celebre passo de L’idiota.
Che la bellezza possa quanto meno contribuire alla salvezza dell’universo sembra certezza in questi luoghi dello Spirito.

La porta della vecchia chiesa, cigola.
Dall'interno mi assale una zaffata di odori conosciuti e non, l’aroma tranquillizzante dell’incenso, il puzzo inquietante di lisoformio.
Un triangolo con un occhio grande e la scritta: “Dio ti vede”, campeggiano su di una rivista religiosa poggiata sul primo banco.

Potrebbe sembrare un messaggio inquietante, ma al contrario, cosa c’è di più bello e rassicurante che camminare e vivere sotto lo sguardo amorevole di Dio?
Mi tornano alla mente le parole della Bibbia: “anche se tua madre ti dimenticasse, io non ti dimenticherò mai!”.

All'interno del santuario della Madonna dello Splendore, pare ancora di vedere il saio usurato di Padre Serafino, col suo passo incerto, l’impietosa sordità causa di una meningite giovanile, la barba bianca, intento in preghiera.
Vecchio, sordo, malconcio diceva spesso di sé, con un tenerissimo sorriso.
Un giorno, in un incontro con noi appartenenti al Terz’Ordine dei frati minori di Teramo, disse "Vorrei essere una semplice pozzanghera per riflettere il cielo.
Ma non ci riesco.
Troverò prima o poi la strada?"

Il piccolo frate era l’anima di questo paradiso spirituale in terra, il vero miracolo di un uomo malconcio che ha realizzato due musei, altrettante biblioteche e azioni sociali fra cui La Piccola Opera Charitas, inaugurata nel 1962 con pochi soldi, molti debiti, qualche speranza dettata dalla fede incrollabile nella Provvidenza.

E Dio non ha mancato all'appuntamento dato che oggi il centro è un enorme complesso in grado di ospitare e seguire adeguatamente centinaia di ragazzi affetti da gravi patologie psichiche.
Bellissime all'interno della chiesa le decorazioni dell’artista Giuliano Alfonso Tentarelli con scene della vita della Madonna e il Tabernacolo, realizzato nel ‘700 da allievi della scuola di Fra Michele Simone da Petrella che ideò molti degli altari e dei tabernacoli delle chiese dei Cappuccini d’Abruzzo.
L’evento dell’apparizione della Madonna, scrivevo poche righe sopra, un miracolo che affonderebbe le sue radici nel 1557.
Il santuario della Madonna dello Splendore, costruito sul luogo dove la Vergine ha fatto scaturire la Sorgente su una collina a cento metri dal livello del mare, fuori dal centro storico, si colloca tra le sette oasi mariane più importanti d’Italia e si propone con una grande forza evocativa.
E’ il simbolo della freschezza e della vitalità di una città di mare, bella, ricca, suggestiva, turistica.

La storia dell’apparizione lega il territorio giuliese con quello rosetano, in un mistico gemellaggio dato che Bertolino, l’uomo che assistette al prodigio, aveva casa nei pressi di Cologna paese.
Il contadino si trovava lì per trovar legna e mentre riposava sotto una pianta di ulivo, fu abbagliato dalla luce prodigiosa della Madonna.
La Madre di Dio aveva scelto questo posto per sua dimora e chiedeva allo sbalordito villico di far costruire un santuario mariano.
Il povero ometto ebbe il suo daffare per essere credibile davanti al governatore, amministratore feudale di nomina ducale, il quale credeva di avere di fronte una sorta di demente.
La tradizione narra che ci vollero ulteriori prodigi per convincere notabili arciprete, canonici, il preposto dell’Annunziata e il popolo tutto della volontà divina.
Sul luogo indicato dalla Madonna, venne costruito un piccolo Tempio.

La presenza dell’acqua, dono vivo di un immenso amore, continua da circa cinque secoli a vivificare il cammino della vita di tante generazioni
Sotto le vasche di raccolta dell’acqua, è stato realizzato un bassorilievo in marmo, che rappresenta l’acqua, simbolo di vita, che disseta i cervi e le colombe, simboli di pace.

Sul lato del bassorilievo è stata rappresentata una processione di fedeli sulle rive del
Fiume Giordano, e si conclude con il Battesimo di Gesù.
Sopra le vasche, un mosaico policromo illustra in quattro scene il miracolo di
Naam che, bagnatosi nelle acque del fiume Giordano, venne risanato dalla lebbra.
L’acqua che esce a getto continuo, dalle vasche di raccolta, cade in una
piccola piscina ricoperta di mosaici.
Sotto l’arco di travertino, a grandezza naturale, è stata realizzata una statua di
bronzo di San Francesco con le braccia elevate che rende gloria al Creatore
eterno con le parole del Cantico delle Creature:
“Laudato sie, mi’ Signore, per sora acqua, la quale è molto utile et umile et pretiosa et casta”.

martedì 27 gennaio 2015

Cellino Attanasio: Nel feudo degli Acquaviva

Viaggio nella bellezza della normalità di Cellino Attanasio, tra arte, storia e cornici naturali

 Grazie a Eleonora Luciani per le sue foto

La barbetta da fauno dell’uomo di mezza età si sporge dal belvedere su un finimondo di colline simili a un mare reso pazzo da improvvisi cambi di vento.

La distesa di gobbe gialle di stoppie e verde di prati era difficile da rendere più bella.


Eppure dal medioevo l’uomo c’è riuscito, rivestendo il cocuzzolo dell’altura più pronunciata con il borgo incastellato di Cellino Attanasio, arrampicato proprio in cima al colle.

Qui l’armonia delle testimonianze artistiche e monumentali sono immerse nel silenzio della campagna.
Eppure, quando il vento soffia dalla costa rosetana, senti il respiro della terra.
Nell'aria frizzante dell’autunno, le narici percepiscono quasi come voce, l’umore asprigno delle viti che emana dalla bella campagna cellinese.
Questa è la culla ideale per vini, oli, frutta e ortaggi che contribuiscono a sviluppare una cucina tradizionale sapida, gustosa e varia.
Il tizio silenzioso sembra guardare giù verso una delle tante distese dove si muovono lentamente punti bianchi di pecore accompagnate dallo scampanio dei cani pastore.
Il mare vero c’è, quello Adriatico è poco più giù.
Da questa sommità si gode uno spettacolo.
Le colline ammantano Cellino delle tinte di stagione sapientemente dosate da un grande Creatore: gialle in estate, scure in autunno dopo l’aratura, bianche d’inverno per la neve e verdissime in primavera.

Il paese spicca come diadema.
Lo potete immaginare dalle belle foto di Eleonora Luciani, una ragazza che ama la fotografia e il suo paese profondamente anche se dice: “Da noi non succede mai nulla ….”.
Qui diventa lampante come la conservazione di una bella Italia dipenda dalla volontà precisa dei suoi abitanti.

Anche al viaggiatore più distratto non può sfuggire la suggestione di quest’antico villaggio.
Le colline dai rigogliosi pergolati di viti contribuiscono non poco a completare l’immagine della cinta turrita.
La possente torre è l’avamposto di un mondo, dove ogni pietra racconta storie antiche.
Il manufatto cilindrico in laterizio, dai merli guelfi purtroppo non originali che si rincorrono uno dopo l’altro, domina il paesaggio.
Alcuni monconi di mura di una seconda torre sono ciò che resta della fantastica cortina muraria innalzata dopo che l’antico feudo degli Acquaviva fu piegato nel tardo quattrocento, cadendo sotto i colpi di maglio di un assedio senza precedenti.
Matteo di Capua, al servizio degli Aragonesi, combatté contro il duca di Atri, Giosia Acquaviva che aveva osato sfidare i potenti, rifugiandosi, disperato, nel borgo.
Da poco questo notevole esempio di architettura militare medievale è stato oggetto d’interventi per scongiurare problemi di staticità.
Qui ci si sente trasportati in un’altra epoca dove tutto era più semplice, genuino.
Cellino Attanasio, infatti, è discreta, Si arrocca con le sue case sin dall'XI secolo, anche se i numerosi rinvenimenti archeologici raccontano di vite ben più lontane.

La visita al paese potrebbe durare una manciata di minuti date le ridotte dimensioni, però se si opta per una lunga sosta, si viene ripagati eccome!

Si gode dei netti cambiamenti di luce nelle varie ore del giorno, si percorrono vicoli che a ogni angolo aprono scorci su facciate ornate di fiori, donne che cuciono o chiacchierano fuori l’uscio di casa, bimbi che giocano.

Guardando attentamente negli angoli più reconditi si scoprono portoni in pietra locale, alcuni con piccole sculture d’immagini sacre a proteggere la famiglia che vi abita.
Un tempo, agli ingressi, si scolpivano figure apotropaiche e grottesche maschere destinate ad allontanare spiriti maligni.
Lungo i meandri dell’abitato diventa impossibile per il visitatore non amare profondamente quell'incredibile unione di quotidianità e senso comune del bello semplice.
Un luogo pigro, tranquillo ma nello stesso tempo, energico e vivo, un palco di antiche emozioni.
Siamo lontani mille anni luce dal groviglio strombazzante che si scioglie tra le vie di un centro che non contiene vicoli di un paradiso turistico.
È la tranquillità, il valore aggiunto.
In fondo al viale d’ingresso al paese, dedicato a Luigi di Savoia, giace, in attesa di stupire, il monumento più rappresentativo, la chiesa madre dedicata a Santa Maria la Nova.

Risalente al trecento, la parrocchiale fu profondamente modificata nell'ottocento, a causa del disastroso crollo delle volte.
Da guardare con ammirazione c’è il portale quattrocentesco di Matteo Capro, napoletano innamorato dei nostri luoghi tanto da lasciare altre opere pregevoli in paesi di
montagna.
All'interno del tempio, che un tempo era a tre navate e oggi ne conta una in meno, c’è un tesoro diffuso: un cero pasquale datato 1383, con un serpeggiante tralcio di vite tra foglie e pigne, statue di buona fattura, un coro ligneo, un tabernacolo in pietra del tardo quattrocento, un ricco altare barocco.

Un luogo di rigoroso impianto ecclesiastico, elegante e bello.
E poi, nel cuore delle case, superata la piazza dedicata al naturalista Rubini, è doveroso raggiungere lo slargo di S. Antonio, dove si affaccia la chiesa dedicata al santo di Assisi, Francesco, inglobata singolarmente alla struttura di un altro torrione forse più antico dell’attuale cinta.

Mi viene incontro un signore, mentre mi appresto a salire in auto per andare via.
L’uomo con l’elegante cappello, come appartenesse a un altro tempo, mi saluta con rispetto, togliendo il copricapo dalla testa.
È il simbolo di un’Italia dimenticata, il segno di una tradizione fatta di educazione e rispetto che solo il cuore di un’antica provincia può conservare.

venerdì 16 gennaio 2015

" Da pericule, male e lambe, Sant'Andonie ce ne scampe

Per le foto si ringraziano Annunziata Taraschi e Eriko Lorinczi. Grazie all’associazione “Li Sandandonijre”

Guardate i video:
www.youtube.com/watch?v=XwoTugfbSzc
www.youtube.com/watch?v=hLI2PO3il-Y

Da quasi vent’anni la ricorrenza della festa di S.Antonio Abate, anima l’antico borgo di Cermignano, nella valle del Fino. Anche quest’anno tra canti e “cillitt”, gli uccelletti, il dolce tipico con il cuore di marmellata, si consuma un rito ancestrale di profonda devozione.

A Teramo, cani, gatti, uccellini e criceti animeranno la zona antistante l'ex manicomio per ricevere la tradizionale benedizione in occasione della festa di sabato. Prima, ore 11,00, nella chiesa di Sant'Antonio, tanti teramani, accompagnati dai loro amici animali, assisteranno alla messa .


Arrivano alla chetichella.
Prima uno, vestito alla contadina con cappellaccio nero in testa. Qualche minuto, dopo la lunga barba nera, lo sguardo vivo di un altro con tanto di tamburelli.
Mi guarda come se avesse di fronte l’ultimo degli ignoranti, poi informa che si tratta de “li ciuciombrë” altro che tamburelli!

Sfilano davanti ai miei occhi una teoria di attrezzi indecifrabili che dovrebbero cacciar fuori melodie.

Gianfranco Spitilli, conosciuto teramano custode di antiche tradizioni, vestito con l’immancabile saio francescano del santo anacoreta, mi descrive cosa sfila davanti ai miei occhi:
“lu tracaje”, strumento a percussione particolarmente arcaico, presente nelle più lontane culture, la cui origine è strettamente legata alla funzione sonora, un tempo usato come spaventapasseri;
“la checoccë”, zucca essiccata;
l”u ttivule’ttavule”, strumento ritmico ottenuto da una tavola per lavare i panni, sfregata con un pezzo di legno;
“lu battafochë”, tamburo a frizione, formato da una canna di fiume innestata su di una pelle tesa con sotto a fare da cassa di risonanza, una piccola botte.
Infine, come da copione, l’immancabile “ddu bbottë” a due bassi, lo strumento più caratteristico di questa nostra parte dell’Abruzzo.
L’organetto è in ottima compagnia tra chitarre, fisarmonica e campanaccio, elemento insostituibile dei canti di questua di S.Antonio.

Gianfranco mi parla di questo gruppo un po’ particolare: “Li Sandandonijre”. 
Suonano da oltre un quindicennio nei contesti più differenti- mi dice con entusiasmo- festival del folklore, feste di paese, serenate e matrimoni, manifestazioni culturali, rassegne, convegni, sagre.
La formazione musicale va da un minimo di 2 a un massimo di 14 elementi, a seconda delle necessità, dei contesti e delle disponibilità, presentando un repertorio vasto e in continua evoluzione, soprattutto grazie alla frequentazione dei tanti suonatori tradizionali presenti nella zona di Penna S. Andrea”.

Sant'Antonio Abate, il patriarca del monachesimo orientale, egiziano del III secolo, è venerato come non mai in tutto Abruzzo.

La figura del santo asceta richiama a infinite simbologie e fa da sfondo a tanti riti e usanze agresti.


Non potrebbe essere altrimenti per l’abate protettore degli animali, vista l’importanza nel mondo rurale rivestita dalle bestie da soma e da latte, dalle pecore al maiale, i beni più preziosi per le famiglie contadine.
Ancora oggi in piccoli paesi si assiste alla benedizione degli animali radunati davanti la chiesa e si accendono cataste di legno.
Il fuoco ricorda quando il vecchio eremita, secondo la tradizione, discese negli inferi tornandovi indietro col suo bastone ardente per donare al mondo il fuoco purificatore della pace. La fiamma simboleggia il passaggio dall'inverno alla prossima primavera.
Resistono ancora i canti burleschi e irriverenti dei questuanti rievocanti le tentazioni subite dal santo.
Oggi i cantori sembrano aver perso il potere di sorprendere.

L’associazione culturale de “Li Sandandonijre” cerca di non far morire questa bella tradizione.
Un tempo i cantori giravano orgogliosi per le campagne, portando sul dorso di un’asina, assicurata con due corde, un’urna di vetro nella quale era collocata l’effige del santo con la barba fluente e il suo maialino.
Oltre ai canti essi raccontavano i miracoli e le guarigioni del bestiame avvenute in luoghi vicini e altre cose prodigiose che sarebbero state ottenute in virtù di quella immagine sacra.

L’allegra combriccola portava con sé dei piccoli animali, porcellini, papere, o cani che, a loro dire, erano stati oggetto di guarigione prodigiosa.

E che dire dell’usanza, completamente scomparsa, di benedire in piazza davanti alla statua del santo, i cavalli usati dai medici condotti dei paesi vicini?

Questi quadrupedi rivestivano importanza vitale per tutti.
I “cerusici da scavalco” come erano definiti gli antenati dei moderni medici di famiglia, andavano a visitare i malati con il carretto trainato dai cavalli, sia sotto il caldo cocente del sole di agosto o la neve copiosa di gennaio, dall'alba al tramonto.
Con i riti del “S. Antonio” proliferavano anche i “guaritori” che, con il grasso di maiale, curavano l’ergotismo, malattia cutanea molto diffusa tra gli abitanti della campagna conosciuta, appunto, come “lu foche de Sant’Antonio”.

La tradizione, incredibile a dirsi, vive ancora nella società rurale delle nostre campagne, tra modi diversi di intendere l’esistenza contadina tra galline, papere e…parabole satellitari.

Ricordo una stupenda opera di una pittrice della Valle Siciliana nota a tutti, Anita Scipioni.

Nella sua tela in stile naif è raffigurato il “Canto del Sant’Antonio” con una fantasia e una facoltà narrativa meravigliosa.
Il paesaggio invernale tra neve e alberi spogli, si lega mirabilmente all'aggressività allegra e spensierata di un gruppo di sei persone, dove alcuni portano il sacchetto con i doni ricevuti, noci, fichi secchi, nocciole, qualche uova poche salsicce, altri suonano il campanello e il cantante con pantaloni accorciati e camicia sbottonata nonostante il freddo, quasi sbanda in preda all'alcool ingerito nelle varie “visite” fatte ai casolari.

Ecco, parte della nostra storia è tutta in quel dipinto!

lunedì 12 gennaio 2015

L'antica "Campulum"


L’incontro con Campli regala sempre un pizzico di eternità.
Ogni volta che ammiro in piazza Farnese l’antica edificio del Parlamento, tra i più antichi d’Abruzzo, il “gotico sognante” come lo definì Margarita d’Austria, capisco che nulla ha potuto il tempo e l’arroganza dell’uomo.

La nobildonna varcò, scortata da soldati e servitù, la Porta Angioina per entrare nel borgo e trovò questo palazzo ancor più bello con un’elegante torretta di avvistamento, arcate più profonde, un sontuoso cortile con il pozzo e il piano superiore che oggi non esiste più.
L’incanto del loggiato con gli archi a tutto sesto rapisce ancora, così come attrae l’interno della collegiata di Santa Maria in Platea e il suo campanile a modello delle opere di Antonio da Lodi che realizzò quello bellissimo del Duomo di Teramo.

Serafino Razzi era un domenicano che ben incarnava la condizione dell’uomo “in cammino”, del pellegrino orante proteso verso Dio. Nel 1575 intraprese un viaggio in Abruzzo, e arrivò anche nel borgo farnese.
Il confine fra la “provincia pretuziana” e la “marca Fermana”, lo stato e il Regno Pontificio, dovette lasciare in lui un segno.

Profondamente colpito dalla nobiltà che permeava quel piccolo e apparentemente insignificante paesino, esclamò in una sua lettera:
“O Campulum Pretuziano … capolavoro a cielo aperto”!

Campli era il paese delle torri.
Oggi ne rimangono poco meno della metà:
quella dei Melatino in frazione Nocella, quella del campanile della cattedrale di Santa Maria in Platea, quella fortificata della Porta Angioina, del XIV secolo.

Lo studioso Pacifico Massimi, vissuto nel XV secolo, scrisse, in un testo latino, tradotto, diversi anni fa, dal compianto professor Faranda:
”Sino a quando esisteranno le ripe di Campli, Castelnuovo e Nocella, io ne sarò sempre amante. Mai sarò immemore di ciò che ho ricevuto né mi peserebbe ricambiarlo con il dono di mille vite”.

È storia che il famoso cantore cieco d’Andria, Luigi Grotto, pose Campli, per importanza, ben sopra le rovine della favolosa Castro.
Le viuzze e le mura narrano ovunque di antichi splendori.
Da tremila anni questo territorio è crocevia di popoli e culture.

I fondatori di Campli furono dei fuoriusciti di Campiglio, sulla collina sopra la valle, che gettarono le fondamenta di Capo Campli nel quartiere omonimo.
Questi prese il nome de “ Il Ricetto” forse per la presenza di un nucleo stabile di ebrei.
Qualcuno invece asserisce che Campli derivi da intra – campi e afferma che fu fondata dai proprietari di un castello vicino. Origini discusse, tra cui l’ipotesi di un tenimento umbro che parla di un “municipium inter campi”.
Quel che è certo è che il minuscolo borgo della provincia di Teramo trasuda, in ogni sua pietra, arte e cultura ultra millenaria.

Fin dalla preistoria ci sono stati insediamenti propri, come testimoniano resti risalenti all'età del bronzo, di un villaggio di allevatori e agricoltori del XIV, XIII secolo a.C. venuti alla luce in località Coccioli e i ritrovamenti nella Necropoli di Campovalano con tombe risalenti dall’ XI al II secolo a.C.

Nella zona al margine nord ovest della necropoli, sotto l’altare della chiesa romanica di San Pietro in Campovalano, fu poi rinvenuto un frammento di epigrafe, in lettere capitali con dedica a Giulio Cesare, resti con tutta probabilità di un piedistallo di statua innalzata per disposizione della ex “Lex Rufrena” del 44 a.C. in onore a Cesare divinizzato.
Nella stessa area si registrò la presenza di una necropoli romana, da cui provengono frammenti del ”sarcofago di Aurelio Andronico”, ricco commerciante di marmi del III- IV sec. A.C.

Nella frazione Battaglia ai piedi delle due montagne gemelle, fu riportato alla luce un ripostiglio contenente una quarantina di monete d’argento databili dal 323 al II secolo prima del Cristo.
In epoca romana Campli era attraversata nei suoi vicoli da uomini illustri; la storia ricorda la presenza di Lenate, dottissimo schiavo di Pompeo e Tazio Lucio Rufo che, pur essendo di umili natali, pervenne ai più alti gradi della milizia romana, diventando il pupillo di Augusto.

L’abitato sembra un souvenir da impacchettare, un piccolo prezioso oggetto da custodire, nonostante la distruzione di porte antiche come quelle di Capo Castello o di Viola, di porticati tardo romanico e di uno dei portali più belli in assoluto, quello in pietra arenaria di Ioannella della cattedrale di Santa Maria in Platea.
Lo storico teramano Palma lamentò la scomparsa di questo manufatto intagliato e scolpito “con raro gusto di un esteta”.
Oggi è quantomeno discutibile il colore con cui è stata restaurata la facciata di questo capolavoro.

Se vi recate a Campli non abbiate fretta.
Godetevi i cortili interni e le case antiche come quella storica del Medico con il cortile e il suggestivo pozzo.
Salite in ginocchio i ventotto gradini in legno di quercia di una delle tre Scale Sante esistenti nel mondo cattolico per lucrare indulgenza.

Cercate, infine, la chiesa dedicata alla Madonna della Misericordia, uno dei primi ospedali d’Abruzzo o quella intitolata a San Francesco, nel cuore del paese, simile all'omonima di Teramo, oggi S. Antonio, gioielli degli Ordini Mendicanti di un tempo.