venerdì 22 febbraio 2013

Il paese che non c’è: Frunti

Ricordo che quando scoprii i “silenzi di pietra” di Frunti, era un mattino primaverile.

Il Gran Sasso pareva delimitare il mondo conosciuto, i Monti Gemelli scuri e netti e la minuscola lingua di mare azzurrissimo dietro le spalle toglievano il fiato.

Il mondo circostante aveva il senso di una pittura con la profondità di un Corot e la chiarità di un Monet.

Ero insieme a Lucio De Marcellis del Coordinamento Ciclabili teramane, pedalavamo verso Valle Soprano e Faieto, non molti chilometri lontani da Teramo, alla ricerca dei mitici resti.
Mi disse che, per scoprire un borgo abbandonato, non era necessario arrampicarsi fin sui monti della Laga, nella valle del castellano.

Alla fonte vecchia, a circa duecento metri da Valle San Giovanni dovetti fermarmi.
Ero entrato in crisi a causa della salita.

Mancava l’allenamento che aveva il mio buon amico nelle sue gambe atletiche. La fontana, dove un tempo, le donne si approvvigionavano d’acqua con le caratteristiche conche di rame, era in gran parte ricoperta di rovi e non fu possibile dissetarsi.

La sete mi passò quando, dalla cresta, mi si aprì un fantastico colpo d’occhio sui due Corni. Lucio era già avanti con la bici, quando una voce alle spalle mi fece trasalire.

L’uomo era salito dal fosso verso il casolare abbandonato al ciglio della strada e aveva voglia di parlare.

Da queste parti le anime sono poche.

Quando gli chiesi dov’era Frunti, armato di carta topografica, il maledetto cominciò prima a ghignare poi a ridere sguaiato, infine mi disse che avevo i piedi sul “decumano” del paese, la direttrice che correva in senso est ovest nelle città romane.


“Bè - disse continuando a sghignazzare - forse ho esagerato, ma stai calpestando il luogo, dove sono nato”.

Il simpaticone abitava nel paese di Valle San Giovanni e dava l’idea di aver studiato bene le sue origini.
Ci sedemmo su quello che rimaneva di una pietra miliare e per venti e forse più minuti mi regalò una storia bellissima che in parte conoscevo grazie alla lettura degli scritti di uno dei massimi storici ecclesiastici teramani, Don Giulio Di Francesco.

L’uomo si basava, invece, per le sue notizie, sugli studi di Don Bernardino Referza, parroco originario di Cavuccio che curò le anime del paese per circa quarantasei anni, dal 1931 al 1977.

Raccontò vicende che si perdevano nella notte dei tempi, al dicembre del 1153 quando il vescovo di Teramo, Guido II con una bolla papale, annesse alla curia teramana l’abbazia che sorgeva non distante da dove eravamo, nel quadrilatero dei borghi di Varano, Prunti o Frunti, Valle Soprano e San Giovanni.

C’era un grande insediamento di monaci benedettini, proprietari di quasi tutte le terre del contado lavorate dai contadini del posto che ricevevano in cambio parte dei raccolti.

Era insomma un grande centro spirituale in tempi bui in cui la civiltà spesso era calpestata.

Il feudo dei “De Frunto” era parte di un grande paese che si chiamava, secondo gli scritti di Niccola Palma, Solignano, sulla strada per Pagliaroli e la rocca di Padula.
Nel 1286, per un breve periodo, il paese fu annesso alla città di Teramo per via di una sorta di contratto tra il “sindacus” dell’Interamnia e Roberto I di Frunti.

Il primo intendeva ingrandire la città, il secondo donare all’anonimo borgo, i privilegi concessi solo a chi fosse annesso a una grande “civitas”.

Appena lasciato l’improvvisato storico, provai ad avventurarmi in mezzo ai pochi ruderi rimasti, appendice di un mondo fantastico, tra monconi di pietra, erbacce colonizzanti e mura pericolanti avvolte dal mistero e da rovi e caprifichi.

Poi seguendo le orme di Lucio, salii su due ruote, lungo la stradina bianca che collega al tratturo sulla cresta della collina. Era l’antica via per San Giorgio, il “passo dell’asino”.

Fu massacrante.

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