martedì 26 marzo 2013

Il paese di pietra!


Tra le impalcature che imbracano le case strette devastate sin dalle fondamenta dal terribile sisma del 2009, l’anziana donna si muove a fatica.

Ha quasi cento anni la Nina, mese in più, mese in meno, ma anche se da queste parti venisse un cataclisma del tipo paventato dai Maya, lei sarebbe sull’uscio della sua casa ad attenderlo.

Perché è una “pretarola” di quelle che se ne infischiano delle rilevazioni demografiche che indicano un paese che muore.
Lei vive qui e nessuno riuscirà a portarla via, né una frana, né la terra che si muove, né la neve che ogni anno copre i piccoli portali d’ingresso alle abitazioni.
E dire che in questi ultimi tempi tutto si è accanito contro questo splendido abitato.

La montagna è crollata ricoprendo le pitture rupestri, il mondo antico del pretarolo doc Guido Montauti; le viscere delle guglie dei Corni hanno traballato sotto la violenza di una faglia mortale; la pioggia ha fatto venire giù pietre, fango e altro, coprendo una parte dell’incantevole sentiero che porta ai Prati di Tivo.

Ora tutti recitano il “de profundis” e dicono che Pietracamela, arroccata su di una pendice montana, sta morendo.

Secondo i censimenti negli anni ’30 qui si era in circa duemila anime, negli anni ’90 si scese a duecento.

Oggi se veniamo fin quassù fuori stagione e in un giorno feriale, faremmo fatica a scambiar chiacchiere con qualcuno.
Ma la Nina mi spalanca due occhi grandi e, sorridendo, a metà tra un italiano stentato e il difficile dialetto, sussurra che tra qualche giorno è Pasqua e tornano anche i suoi figli.

Più in là la signora Montauti, anima del paese, affaccia la testa fuori dalla piccola chiesa che sta pulendo per la messa del vespro.
Il paese, compreso nella ristretta cerchia dei borghi più belli d’Italia, conta nelle stagioni intermedie più o meno cinquanta abitanti, gli stessi della frazione Intermesoli, ma è un dato che pecca di ottimismo.
Alcuni abitanti stanno a Montorio al Vomano e vengono su nei weekend.

Ma a Natale e Pasqua, come Gesù che nasce e risorge, torna a vivere anche questo piccolo borgo che si riempie di turisti e familiari in festa.

Luogo storico dell’Abruzzo Ultra durante il Regno di Napoli apparteneva nel secolo XII al feudo della Valle Siciliana di proprietà dei Conti di Pagliara.

In seguito passò ai Conti Orsini che furono padroni sotto Angioini e Aragonesi fino a che Carlo V nel 1526 lo consegnò al marchese Mendoza fino all’abolizione della feudalità.

Qui un tempo si lavoravano i metalli, si batteva il rame, si pettinava la lana.
I cardatori del paese erano famosi fino in Toscana e nell’Emilia.
Con la nascita del materasso a molle, l’attività scomparve.
Stessa storia per i famosi “sediai”.
Usavano materie prime locali, legno di faggio e paglia.
La robustezza della sedia che si realizzava, dipendeva dall’abile lavoro d’incastro del legno.
Che dire poi dei “casari”?
Erano anch’essi artigiani di grande specializzazione. Decidevano, con sapienza, quando il latte della munta doveva essere bollito e posto nelle “fuscielle”.
La crisi cominciò a mordere sin dalle ultime battute dell’ottocento.

La pastorizia transumante fu decimata dal progresso verso le zone di mare, da tasse e balzelli vergognosi e la progressiva messa in coltura delle distese pugliesi del Tavoliere.

Un esodo biblico portò i pretaroli verso gli States, l’Argentina, l’Australia.

I più fortunati emigrarono nel Lazio.

L’antica Petra Cimmeria o Cameria, (il toponimo lo ritroviamo nel monte Camarda e a San Pio delle Camere in Aquila), col masso sovrastante a forma di cammello, nel fine anno si appresta a vivere il suo attimo di gloria dopo l’estate ferragostana.

D’inverno, niente caroselli di piste stile Trentino, niente folle agli impianti, volti noti e riti mondani del dopo sci.
Solo turismo familiare e montagna spartana, bella e selvaggia.
Nella stagione fredda il piccolo portale di San Giovanni, il campanile a vela, la meridiana e l’orologio, quasi scompaiono inghiottiti dalla neve.
La chiesa di San Rocco, la casa de “li Signuritte” con le bifore del 400, lo stemma civico cinquecentesco, la piazza Cola da Rienzo cui sembra che il paese abbia dato i natali, il “Sopratore” tra rocce e fienili ristrutturati, la parrocchiale di San Leucio, l’antico vescovo di Alessandria, tutto sembra irreale nel bianco che fiocca.

In estate il piccolo mondo di case vecchie dal sapore decadente, quasi bohémien, attrae torme di escursionisti.
“Lo spirito del paese è che non importa chi sei e da dove arrivi, qui, nessuno è straniero”, dicono gli ospitali abitanti.

Alcuni di essi, “cardaroli” della lana, indossando i “coturni”, spesse calzature fatte di lana frollata, attraversavano da giovani la Val Maone, lungo l’infido passo della Portella, per vendere mercanzia all’Aquila, soprattutto a Natale quando giravano più soldi.

Il paese avrebbe bisogno di maggiore turismo.
Per molti sarebbe utile una pedemontana a collegare le guglie del Gran Sasso all’autostrada per Roma o un trenino a cremagliera che sale appena fuori la galleria tra Aquila e Roma, scavalcando Forca di Valle.
Altri sognano un tunnel a incrociare l’autostrada sopra il santuario dei Passionisti di San Gabriele.
“E’ il terzo borgo più bello d’Italia nonostante lo spopolamento” - chiosano con orgoglio gli anziani rimasti.
Poco più in alto, sopra la nota località turistica dei Prati, muraglie inaccessibili di dolomia raccontano, come libro aperto, oltre trecento milioni di anni.

La mia casa è quassù fra le altere pareti e misteriosi silenzi... la mia casa è quassù fra garrule acque e dolcissimi ricordi. Qui sono io, qui è la mia casa, qui sono le mie montagne. (Antonella Fornari)

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