Un fiumicello di scarso interesse per brevità di corso nasce dalla montagna dei Fiori, da Colle Appeso a quota 1350, dopo una discesa rapidissima verso Maltignano, con acque fredde e chiassose, prendendo ad Est si allarga in una valle alluvionale tra creste di colline verdi e coronate da cittadine civettuole e borgate ridenti che lo accompagnano nel tortuoso cammino al mare.
"Su una di queste amene colline, a 200 metri di altezza sul livello del mare siede il nostro Sant’Omero … ".
Inizia così il libro di Franco Zechini che, negli anni ‘70, raccontava con dovizia di particolari la storia di questo borgo della Vibrata che gronda di antichità, vigne lussureggianti, badie affascinanti, gastronomia, cultura, folklore e vicende storiche.
Un’esistenza millenaria testimoniata da ritrovamenti di villaggi di epoca neolitica, di sesterzi romani, sarcofaghi di età bizantina, piccoli idoli in pietra o in bronzo, busti marmorei, resti di colonne antiche, frammenti di epigrafi.
Sant’Omero è stato crocevia di popolazioni, dai Siculi ai Viburni, dagli Umbri agli Etruschi fino ad arrivare ai Romani e poi, dopo la rovinosa caduta dell’Impero, alla lunga dominazione barbara, con Visigoti e Longobardi a turno pronti al saccheggio e alla distruzione.
Eppure questo paese, nonostante il suo fascino, è una meta colpevolmente trascurata della nostra provincia, acquattato com’è nella sua valle verde, circondata da terreni ubertosi che paiono dipinti dal pennello di un esperto artista.
Un luogo che facciamo nostro solo d’estate, quando va in scena il Festival del Teatro comico e quando valenti cuochi cucinano in mille maniere il baccalà proveniente dalla Norvegia, in una delle sagre più quotate d’Abruzzo.
Solo allora, tra grasse risate, linguine al sugo di pesce, fritto di stoccafisso, con tanto di trapestio variopinto, ci ricordiamo di questo antico sito archeologico che, nel corso degli anni, ha regalato preziosi reperti dell’antica Roma.
Basterebbe solo soffermarsi a guardare la luce e i paesaggi circostanti, con i Monti Gemelli scuri e netti in fondo all’orizzonte e una lingua di mare azzurrissima alle spalle da togliere il fiato, come davanti alla profondità di una tela di Monet.
Quanta religiosità, poi, nelle vicende del Vico Stramentario che diede i natali ad uno degli anacoreti più studiati dagli agiografi, quel Sant’Imerio che si nutrì per anni di erbe, acqua, preghiere e atti di carità, prima di diventare vescovo a Cremona.
E quanta umiltà nella storia del beato Migliorato, fraticello che per ore e ore custodiva i porci ringraziando Dio per quel lavoro infame.
È in questo posto magico, isolata nella sua altera bellezza, ai margini del torrente Vibrata, nell’antico vicus romano inteso come borgo, che troviamo forse il più antico esempio di edificio religioso anteriore all’anno Mille: la chiesa di Santa Maria a Vico.
Il primo documento storico che parla del sito è una Bolla Papale di Anastasio IV, risalente al 1153.
Architettonicamente il tempio si presenta con la classica facciata in laterizio, con un portale in pietra che reca l’immagine scolpita dell’Agnello Mistico e sormontato da un bel rosone.
La piccola torre campanaria, costruita nel XIV secolo, forma un corpo unico con l’intero edificio.
Entrando si trovano tre minuscole navate, sette arcate con colonne che terminano in un abside semicircolare.
Le pareti sono affrescate ed è stata recentemente restaurata una tela raffigurante la Madonna con Bimbo che sale in cielo fra le nuvole.
Il pavimento è fatto di lastre di pietra antiche.
L’interno è volutamente in penombra, per aiutare la meditazione di chi si ferma.
Da quattro finestrelle, chiuse da grate in pietra intagliata, entra la poca luce esterna.
Il monumento, che si trova in campagna e in splendida solitudine, è preservato anche grazie alla sapiente cura dei Cultori di Ercole.
Il nome affascinante di questa associazione culturale nasce dal ritrovamento di una lapide incisa, risalente all’incirca all’anno 100 d.C., rinvenuta a fianco della chiesa, a diversi metri di profondità, ora collocata su di un muro interno del tempio.
La scritta sulla pietra decretava il giuramento dei fedelissimi dell’imperatore Traiano Augusto che, in memoria di Claudia Edonia e il figlio Claudio Imerio, già cultori di Ercole, promettevano solennemente che ogni anno in ricordo della nascita di Imerio, si celebrasse un solenne banchetto nel tempio di Ercole.
Il lauto banchetto commemorativo si svolge ancora oggi ogni anno, ai primi di febbraio.
Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
Tutti gli articoli sono condivisi su Facebook nella bacheca di Sergio Scacchia e nella pagina "Il Mio Ararat" e su Google Plus.
Gli articoli sono inoltre pubblicati da Vincenzo Cicconi della PacotVideo , tra l'altro gestore di questo blog, su:
(blog della Città di Teramo - blog di Pensieri Teramani)
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"Su una di queste amene colline, a 200 metri di altezza sul livello del mare siede il nostro Sant’Omero … ".
Inizia così il libro di Franco Zechini che, negli anni ‘70, raccontava con dovizia di particolari la storia di questo borgo della Vibrata che gronda di antichità, vigne lussureggianti, badie affascinanti, gastronomia, cultura, folklore e vicende storiche.
Un’esistenza millenaria testimoniata da ritrovamenti di villaggi di epoca neolitica, di sesterzi romani, sarcofaghi di età bizantina, piccoli idoli in pietra o in bronzo, busti marmorei, resti di colonne antiche, frammenti di epigrafi.
Sant’Omero è stato crocevia di popolazioni, dai Siculi ai Viburni, dagli Umbri agli Etruschi fino ad arrivare ai Romani e poi, dopo la rovinosa caduta dell’Impero, alla lunga dominazione barbara, con Visigoti e Longobardi a turno pronti al saccheggio e alla distruzione.
Eppure questo paese, nonostante il suo fascino, è una meta colpevolmente trascurata della nostra provincia, acquattato com’è nella sua valle verde, circondata da terreni ubertosi che paiono dipinti dal pennello di un esperto artista.
Un luogo che facciamo nostro solo d’estate, quando va in scena il Festival del Teatro comico e quando valenti cuochi cucinano in mille maniere il baccalà proveniente dalla Norvegia, in una delle sagre più quotate d’Abruzzo.
Solo allora, tra grasse risate, linguine al sugo di pesce, fritto di stoccafisso, con tanto di trapestio variopinto, ci ricordiamo di questo antico sito archeologico che, nel corso degli anni, ha regalato preziosi reperti dell’antica Roma.
Basterebbe solo soffermarsi a guardare la luce e i paesaggi circostanti, con i Monti Gemelli scuri e netti in fondo all’orizzonte e una lingua di mare azzurrissima alle spalle da togliere il fiato, come davanti alla profondità di una tela di Monet.
Quanta religiosità, poi, nelle vicende del Vico Stramentario che diede i natali ad uno degli anacoreti più studiati dagli agiografi, quel Sant’Imerio che si nutrì per anni di erbe, acqua, preghiere e atti di carità, prima di diventare vescovo a Cremona.
E quanta umiltà nella storia del beato Migliorato, fraticello che per ore e ore custodiva i porci ringraziando Dio per quel lavoro infame.
È in questo posto magico, isolata nella sua altera bellezza, ai margini del torrente Vibrata, nell’antico vicus romano inteso come borgo, che troviamo forse il più antico esempio di edificio religioso anteriore all’anno Mille: la chiesa di Santa Maria a Vico.
Il primo documento storico che parla del sito è una Bolla Papale di Anastasio IV, risalente al 1153.
Architettonicamente il tempio si presenta con la classica facciata in laterizio, con un portale in pietra che reca l’immagine scolpita dell’Agnello Mistico e sormontato da un bel rosone.
La piccola torre campanaria, costruita nel XIV secolo, forma un corpo unico con l’intero edificio.
Entrando si trovano tre minuscole navate, sette arcate con colonne che terminano in un abside semicircolare.
Le pareti sono affrescate ed è stata recentemente restaurata una tela raffigurante la Madonna con Bimbo che sale in cielo fra le nuvole.
Il pavimento è fatto di lastre di pietra antiche.
L’interno è volutamente in penombra, per aiutare la meditazione di chi si ferma.
Da quattro finestrelle, chiuse da grate in pietra intagliata, entra la poca luce esterna.
Il monumento, che si trova in campagna e in splendida solitudine, è preservato anche grazie alla sapiente cura dei Cultori di Ercole.
Il nome affascinante di questa associazione culturale nasce dal ritrovamento di una lapide incisa, risalente all’incirca all’anno 100 d.C., rinvenuta a fianco della chiesa, a diversi metri di profondità, ora collocata su di un muro interno del tempio.
La scritta sulla pietra decretava il giuramento dei fedelissimi dell’imperatore Traiano Augusto che, in memoria di Claudia Edonia e il figlio Claudio Imerio, già cultori di Ercole, promettevano solennemente che ogni anno in ricordo della nascita di Imerio, si celebrasse un solenne banchetto nel tempio di Ercole.
Il lauto banchetto commemorativo si svolge ancora oggi ogni anno, ai primi di febbraio.
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"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
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