il 9 agosto prossimo si svolgerà in questo luogo bellissimo, una Fiaccolata Mariana che dal paese arriverà fin sulla chiesina. Sarà un momento di preghiera meraviglioso come accade da anni.
Siete tutti invitati!
In collaborazione con la Pacot Video di Enzo Cicconi, è stato realizzato il dvd che potete vedere a completamento dell'articolo che è tratto dal libro "Il mio Ararat".
L’ascetismo, questa sorta di monachesimo che prevedeva vita eremitica e contemplativa in luoghi improbabili, si sviluppò nel nostro territorio per la presenza di anfratti e ricoveri naturali un po’ovunque.
Volete sapere cosa penso?
Gli eremiti erano uomini in preda ad un amore infinito.
Avevano così tanto da dare e il mondo così poco da chiedere, che si videro costretti a riparare verso rifugi isolati.
L’amore grande, simile a quello che Gesù pensava per ognuno di noi, era così ingestibile, da trasfigurarli.
Sono uomini che hanno vissuto, come afferma Paulo Coelho, grande scrittore brasiliano, unicamente per essere consumati dal loro amore.
Ogni volta che scocca il mezzodì e mi fermo a pregare l’”Angelus”, Massimo mi guarda attonito.
Sono anni che recito l’Ave Maria al mattino, a mezzogiorno, appunto e alla sera.
Qualche volta sono costretto ad abdicare a questo intimo momento a causa del mio lavoro ad uno sportello informazioni dell'Agenzia delle Entrate.
Il ricordo dell’angelo annunziatore, scandisce i tre punti centrali della mia giornata, una sorta di “breviario” popolare che aiuta a santificare il tempo.
La costruzione in pietra della chiesa sorge a oltre mille e cento metri di altezza ai piedi di un’immane bastionata di arenaria, balcone privilegiato su oltre la metà del Parco.
La ricostruzione ultima è del 1617, un bellissimo esempio di architettura ecclesiastica che nel basso Medioevo prediligeva luoghi impervi, isolati, magari su speroni di roccia.
Edificata da un certo Bernardo Paolini dopo aver ricevuto una grazia, è stata restaurata da pochi anni.
Si raggiunge in qualche minuto di cammino sopra l’abitato, su di un percorso ricavato dal taglio della pietra arenaria che sembra un corridoio tortuoso all’interno della roccia stessa.
È proprio a strapiombo come nido di rapaci.
Tutt’intorno, il panorama è splendido, anche se oggi s’intuisce tra le nuvole stagnanti che paiono levarsi direttamente dal bosco intorno al Piano Roseto, parcheggiate alla rinfusa sopra la valle.
In questo luogo sono documentate processioni infinite di pellegrini oranti che, in abiti medioevali, mantelli lisi, bardati di cappelli a larghe tese, con il loro saldo bastone su cui appoggiarsi nella fatica, i poveri fardelli e l’immancabile conchiglia per bere acqua, procedevano nella buona come nella cattiva stagione.
Affermavano così la loro presenza discreta e silenziosa.
Oggi tra questi lastroni accostati, non c’è nessuno.
Alla Madonna della “Tibbia”, la devozione popolare ha attribuito tanti miracoli, soprattutto guarigioni da incidenti sul lavoro, protezione dalle calamità, addirittura guarigioni da malattie della fertilità.
Il costone boscoso dietro il piccolo tempio con l’antica casa dei pellegrini adiacente, ospita oltre a faggi, anche qualche antico carpino dalle piccole foglie simili a ritagli di cuoio.
Era in questa casupola che si ospitavano i viandanti.
Dentro c’era lo stretto necessario: un letto duro, lenzuola vecchie ma pulite, brocca d’acqua e bacinella per una minima igiene personale.
Servizi con acqua calda e pasti, neanche a parlarne.
In epoche antiche al posto di questa piccola casa, c’era una grotta dove si svolgevano riti per propiziare l’allattamento per i bambini.
Le donne partorienti si riunivano in preghiera tutte le sere.
Ricordo che il mio amico Giovanni Corrieri, critico d’arte e storico teramano, mi spiegò una volta che il toponimo “tibbia” non sta per la parte anatomica del piede che si è rotta, ma è una parola che riporta alle origini romane del luogo dove si trova la chiesa.
Da una finestrella buttiamo un’occhiata all’interno dove, con meraviglia, scopriamo un mucchio di funghi secchi, pronti per essere mangiati.
Eviteremo, domani, il sentiero segnato che inizia a destra della chiesa.
Corre ai piedi di una parete verticale, porta in quaranta minuti al crinale erboso della rocca Roseto, un tempo punto di controllo dei pascoli d’alta quota, da dove si raggiunge facilmente, attraverso belle faggete, la porta del Parco, Montorio al Vomano.
Noi vogliamo entrare rapidamente nel Gran Sasso.
Non so se provo fastidio perché Massimo continua a tirar corda e a far suonare le piccole campane o per l’insistente pioggerellina che scende giù, picchiettando inesorabile sui nostri cappucci di tela cerata.
“Chi vuoi che senta suonare, non c’è anima viva!”.
L’ovale di Massimo che sbuca dalla cerata, rappresenta un viso tosto e determinato.
Mi rassicura, viste le condizioni impietose del tempo.
Lo zaino torna a segare le spalle.
Il botto del tuono mi fa trasalire.
Scegliamo di ripararci, visto che la chiesa e la casa del pellegrino sono sbarrate, sotto un masso sporgente, all’inizio del piccolo bosco.
Affondiamo fino alle caviglie nelle foglie dal margine seghettato, rese poltiglia dalla pioggia.
I polpacci sembrano legni modellati da mastro Geppetto.
Sulla corteccia grigia di un albero c’è il segnavia del percorso.
Poi decidiamo di riparare sotto il paese, proprio quando la furia del temporale va attenuandosi.
Il massimo della pioggia l’abbiamo già presa.
(Da Il mio Ararat edizioni La Cassandra)
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