mercoledì 23 ottobre 2013

Santo Stefano di Sessanio: Le atmosfere del tempo

(Tratto dal libro Il mio Ararat!)
“Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.”(Galati 5,16)

Giuseppe Copertino ha 83 primavere sulle spalle.
Si definisce un contadino di montagna.
Incontrandoci, ci stende le sue mani ruvide e giganti che ricordano quelle esagerate di Gianni Morandi.
Ha una passione incredibile per la poesia.
Ne ha fatta una anche per i suoi mandorleti.

La valle qui ne è ricca.
Il terreno dell’improvvisato poeta, ne ha circa settanta, piantati dal nonno del nonno.
Un tempo erano una ricchezza, oggi chissà!
Sono gli unici alberi in una piana brulla che ci accompagna fino a Castel Del Monte.

Da queste parti, racconta Giuseppe, c’erano anche delle “nevaie”.
Servivano negli anni ’50, quando non esistevano frigoriferi.
Erano fosse lunghe anche una decina di metri, scavate e delimitate da muretti a secco.
La neve veniva tagliata in piccoli blocchi e portata con i muli fin su il paese per gli usi casalinghi.
In cambio di un bicchierino di liquore alla mandorla, naturalmente, ci vediamo costretti ad ascoltarlo nella declamazione dei suoi versi un po’ infantili ma dettati sicuramente dal cuore.

Nell’avvolgente tepore cromato del più classico tramonto di fine estate il borgo è più bello che mai.

Il terremoto ha cercato di invalidare questa meraviglia, facendo crollare la parte sommitale della torre medicea, ma la ferita non ha leso il fascino di questo posto fuori da ogni tempo.

Le facciate in pietra delle case hanno un riflesso di un rosa intenso.
Gli archi, i viottoli già illuminati dalla fioca luce di antichi lampioni incantano chi, come me, ama le piccole gocce di Medioevo che donano scorci di ineguagliabile stupore.

Le strette vie si aprono improvvisamente su piazze dai balconi in fiore.
Anziani dignitosi e ragazzi dall’espressione timida popolano il piccolo bar con i tavoli fuori.
Le ore passano scandite dal ritmico incedere delle carte da gioco buttate lì.
Un tre di bastoni schiocca secco sul tavolo come lacerante colpo di frusta, insieme ad una corposa bestemmia.

Sembrano interdette le donne vestite di nero che attraversano la piazza per recarsi al rosario.

Accanto, scivola con passo felpato il vecchio prete che corre a dire messa.
Le grida degli anziani nel concitato tressette della sera, non si curano di due forestieri come noi.

Le mani degli uomini sono come fitti pezzi di tronchi anneriti dal tempo.

Gli sguardi si sollevano svogliatamente dalla conta delle figure del gioco e di colpo le voci diventano simili a pietre che si sfregano bisbiglianti.

Dalla finestra, posta a livello della strada acciottolata, si percepisce distintamente il rumore metallico e ripetuto di un mestolo che gira un composto dal cui odore capisco abbia come ingredienti principali mandorle e miele.
Ma in tutte le vie c’è l’abbraccio amorevole dei profumi antichi di una terra povera, fatta da emigranti e venditori ambulanti che percorrevano le vallate con le loro chincaglierie.

Una leggenda poco nota anche agli stessi abitanti di oggi, narra che i paesani di tanti anni fa chiesero al diavolo in persona di costruire il paese in pietra.
Il satanasso li accontentò compiendo l’opera in una notte di fulmini e saette.
In cambio chiese l’anima del primo cristiano che avesse attraversato il borgo.
Dovette accontentarsi di quella di un povero cane affamato e per la rabbia, sprofondò nel fondo degli inferi.

Siamo in provincia dell’Aquila, a non più di una manciata di chilometri da noi.

Questo luogo dalla elegante e ben conservata architettura medioevale è unanimemente riconosciuto come uno dei più bei villaggi d’Italia dove mura, porte, archi, chiese, palazzi e torri deliziano i visitatori anche stranieri.

Un giornale inglese consigliava di lasciar perdere le colline del Chianti fiorentino per investire capitali in questa terrazza montana dove la vita e il suo tempo ha ancora un senso.
Dopo il sisma violento del 2009, l’interesse degli stranieri è scemato ma, chiunque cerca artistiche atmosfere, è nel posto giusto.

Decidiamo di passare la notte in paese, passeggiando e godendo di questo presepe dalla divina scenografia, di questa avventura deliziosa dello spirito.

Dormiremo in locanda.
Mi sembra di essere nato qui.
Un lampo attraversa la mia mente.
Santo Stefano dispensa anche delizie terrene.
È vero che, nella Lettera ai Galati, San Paolo esclama: “Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne”, ma la fame, vi giuro è terribile.

Davanti la porta d’ingresso mi sento quasi mancare all’odore persistente di una zuppa di legumi.
Ricordo che il paese è famoso anche per le sue lenticchie.
Un legume piccolo, di colore marrone scuro, la buccia ruvida ma il sapore delizioso e il profumo avvolgente.
Siamo già a tavola ad arricchire la nostra zuppa, con un prelibato olio che c’inebria.
Ci vengono servite anche delle lumache in guazzetto che non mi aspettavo.
Mi dispiace mangiarle.
Sono animali tenerissimi, simbolo di morte e resurrezione essendo capaci di fermare il proprio cuore all’inizio del letargo e rimetterlo in funzione in tempi propizi.

Le lumache vengono accostate alla luna per la loro abilità nell’apparire e scomparire nel guscio.
“Lo sa - ci dice l’oste - che sono gli unici animali che girano sempre a destra nel costruire la loro casa? Le lumache sono molto amate da Berlusconi”!
E giù a ridere sguaiato per una battuta che troviamo pessima.

“Ma i pochi sinistro giro - continua il maledetto - sono ricercati perché portatori di buona sorte”!
Il pecorino, che conclude una sontuosa cena, regala sensazioni non riportabili su carta.

L’oste, dallo sguardo compiaciuto e dalla pancia prominente, continua con le sue elucubrazioni non richieste.

Si affretta a spiegarci che questo legume ama i terreni calcarei di altura, apprezza con compiacimento la sublimazione della sua cucina, continua a spiegare che gli inverni lunghi e rigidi e le estati brevi e piovose non fanno che del bene alla qualità del legume.

Dopo cena, gonfi per il gran mangiare e storditi dalle chiacchiere dell’uomo e dai bicchieri, ci rituffiamo nel dedalo delle viuzze dove si respira ritmi lenti, in una rarefatta assenza di suoni, rotta solo dal rumore di qualche stoviglia, piccole note da un televisore che colpiscono come un rombo di tuono nel silenzio circostante.
Ci addormentiamo presto per essere svegli di buon mattino.

Dalla finestra della camera, l’alba dona colori tenui all’azzurro.
Guardo contro il cielo i profili lisci e curvilinei dei monti formare una magica geografia di zolle d’erba rarefatta.
Finalmente ho dormito su di un buon materasso.
La schiena ringrazia sentitamente.
La locanda è veramente accogliente.

Posta al centro del paese occupa un meraviglioso edificio che conserva ancora tracce evidenti del lontano dominio dei Piccolomini nel 15°e 16°secolo.

Dopo un buon caffè eccoci di nuovo a passeggio nel borgo antico per arrivare alla torre Medicea, posta nel punto più alto del paese. Rappresenta il monumento primario dell’intera struttura urbana.
Faceva parte di una catena di punti di vigilanza che aveva i suoi avvistamenti più importanti in Calascio e nel castello di Bominaco.

Guardo la torre ferita, ricordo la volta che venni proprio sotto il manufatto insieme agli amici di Bologna.

Allora era intera!
Si presentava in tutta la sua magnificenza.
A proposito di Bominaco, si raccontano storie incredibili sul maniero.
Lo si credeva infestato da un fantasma.
Un’anima maledetta vagava tra le pietre.
Era Pier Maria dei Piccolomini, soldato di ventura, assassinato mentre festeggiava il ritorno dalle battaglie, da un rivale in amore.
Pugnalato, fu gettato in un pozzo.
Pare che fosse tornato in vita per uccidere la donna e il suo amante.
La morte dei due è rimasta un episodio inspiegabile.
Santo Stefano ha l’architettura delle famose “case mura”, caratterizzate da camminamenti coperti e da unità abitative legate tra loro.

Scorgiamo ingressi con singolari archi in pietra e secolari arredi urbani.
Capiamo perché ci troviamo in uno dei paesi più belli d’Italia e perché l’Ente Parco abbia concepito proprio qui, un grande progetto di recupero e tutela in ottica strettamente conservativa di questo ingente patrimonio storico e architettonico.

La “Casa del Capitano” è un edificio gentilizio che visito di lì a poco, posto nella zona in cui si sta realizzando il grosso dei lavori di consolidamento.

Appena fuori del centro, antiche masserie rendono visibili tracce di storia segnata dalla vita e dalla cultura contadina.


Un’esistenza dura legata ad una economia difficile.
Tornando nel cuore del paese ci troviamo davanti al Centro Visite del Parco.

Una gentile ragazza dai capelli fluenti e lo sguardo magnetico, credendoci a digiuno della zona, informa che esistono facili passeggiate che portano alla Rocca di Calascio o impegnative escursioni sui monti della Piana di Campo Imperatore.
Parla di antichi tratturi usati dai pastori e oggi percorribili a cavallo o in mountain Bike.
Mi magnifica le lenticchie, la ricotta, lo zafferano.
Ci consiglia anche il menù! Maccheroni alla pecoraia, ceci in umido, spezzato di agnello e cicerchiata. Peccato rinunciare.
Noi tra qualche ora saremo davanti le pietre bianche della Rocca di Calascio.

Come arrivare a Santo Stefano da Sessanio:
Da Nord: Dall'autostrada A14 seguire la direzione Ancona, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, proseguire in direzione L'Aquila, imboccare l'autostrada A 24, uscire a L'Aquila Est, prendere la SS 17 in direzione di Pescara, svoltare in direzione di Santo Stefano di Sessanio.

Da Sud: Dall'autostrada A14 seguire la direzione Pescara, continuare in direzione Roma, prendere l'autostrada A 25, uscire a Bussi/Popoli, seguire le indicazioni per L'Aquila, continuare sulla SS 5 e poi sulla SS 153 in direzione Navelli, prendere la SS 17 in direzione di L'Aquila e proseguire seguendo indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.

Dalla città de L'Aquila: Percorrere la SS 17 in direzione di Pescara, proseguire fino alle indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.

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