mercoledì 28 maggio 2014

Fossa: il paese senza vita!

Un uomo di alta statura mi viene incontro salendo dal fosso sul ciglio della strada interrotta dai crolli causati nell'aprile 2009 dal terribile sisma aquilano.
Negli occhi di tutti gli amanti dell’arte c’è ancora il disastro di Santa Maria di Collemaggio all'Aquila, il cratere all'interno della chiesa delle Anime Sante, i campanili di centinaia di paesi sgretolati.
Il sisma del 2009 ha lasciato tramortita l’Abruzzo.

Il terremoto ha diviso la vita tra un “prima” e un “dopo”, tra identità sbriciolate e facciate polverizzate, tra povera gente infagottata sullo sfondo di tende blu e memorie dei luoghi da porre in salvo.

Questo del 2014 è invece un aprile calmo, canuto di verde e di fiori lungo la vallata dell’Aterno, rimasta disastrata dopo l'evento indimenticabile.
La luce e i paesaggi del giorno rendono ancor più tetro un paese distrutto da una forza inaudita sprigionatasi dalle viscere della terra.

L’uomo è decisamente sorpreso dalla mia Nikon.

Non gli è chiaro cosa ci sia da fotografare in questo borgo ridotto a ghost town, dove i tetti sono crollati, i muri sono a monconi, le case intere imbracate alla ben meglio e gli unici esseri viventi, padroni del territorio, sono cani e gatti randagi.

Poi mi racconta come la vita si sia effettivamente fermata al 9 aprile 2009 in gran parte dei paesi aquilani.

Sull'uscio di casa troviamo la moglie Ernestina.
La donna zoppica e la sua storia è splendida.
Un giorno durante una gita nel bosco inciampò in un tronco sul sentiero e si fece male.
Tutti a dire: “ti devi disinfettare, ti portiamo a valle attaccata alle nostre spalle!”
Ma lei a ripetere che non era successo nulla.
Tornati a casa tutti si accorsero che la gamba era scassata.
Da quel giorno porta il bastone.
La vallata sotto è un paesaggio lunare, un posto magico dove anche i sassi hanno l’anima.

Mi aggiro per il paese e ovunque si respira desolazione e morte.

Pensare che avevo visitato Fossa l’estate precedente la maledetta notte di aprile.

L’avevo trovato delizioso, uno degli abitati più belli dell’aquilano.


Ero andato per scoprire la chiesa di Santa Maria ad Cryptas, splendido monumento di arte cistercense.
Oggi è interdetta al pubblico.

L’antico campanile che gravitava pericolosamente sulla volta a crociera, è stato ingabbiato in una grande struttura metallica, alzato con una gru e messo a terra.
Gli interni del tempio, mirabilmente affrescati nella loro interezza da preziosi dipinti di pittori medioevali, sono stati messi in sicurezza e il soffitto ligneo ha retto all'urto del sisma.
Laddove alcuni affreschi sono stati intaccati, la Sovrintendenza ai Beni Culturali d’Abruzzo, ha già fatto recuperare i frammenti per ricomporre al più presto gli antichi dipinti.

L’edificio è stato costruito nella seconda metà del Duecento con una struttura architettonica semplice ma ben fatta, vista la resistenza al sisma e nella sua unica navata all'interno, toglie il fiato al visitatore per la bellezza delle pitture.


Le opere raccontano nei due cicli, storie del Vecchio Testamento concentrate nella “Genesi” e nel “Giudizio Universale del Cristo Giudice tra gli Angeli”, che riporta terribilmente alla potenza distruttiva del terremoto e gli episodi salienti della vita del Cristo con gli stupendi colori grigi gonfi di tristezza della “Flagellazione” e della “Crocifissione”.
Intaccato, per fortuna lievemente, il ciclo dei mesi del “Calendario”, opera simile a quella dipinta magistralmente, nell'Oratorio del Pellegrino di Bominaco.

Si spera che tornerà presto a regalare ancora i suoi significati allegorici del lavoro dei campi benedetto da Dio.
Nessun danno per il dipinto raffigurante l’Inferno, icona involontaria del baratro che si è aperto nella vita degli aquilani.
I demoni torturanti con San Michele Arcangelo dedito alla pesa delle anime, sono ancora lì.
La “Risurrezione delle anime” raffigurata con i morti che escono dalle proprie tombe, può servire di augurio per una pronta rinascita del territorio.
Questo edificio offrirà ancora, si spera per secoli, una preziosa chiave di lettura della vita e della spiritualità del popolo aquilano e abruzzese in genere.

D'altronde la storia della nostra bellissima e sfortunata regione è legata a doppio filo alla religione cristiana e al monachesimo occidentale che ha dato un’impronta indelebile alla sobrietà dello stile di vita dei suoi abitanti.

Un tesoro sorprendente incastonato in paesaggi indimenticabili che speriamo possano tornare presto a incantare i turisti di tutto il mondo.

L’antico villaggio di Fossa aveva nobili discendenze storiche.
Risaliva al tempo della Prefettura romana “AVEIA VESTINORUM”, che presto divenne cristiana ed ebbe i suoi primi martiri nel levita Massimo e nella giovane vergine Giusta.

In seguito, Fossa fu sede vescovile, abitazione di Gaudenzio, uomo di fiducia del papa Ilaro nel primo Concilio Romano della storia.

Anche nel medioevo il borgo fu un grande insediamento.

I nuclei degli abitati di pianura, ben presto si asserragliarono alle pendici del monte Circolo nel complesso dell’Ocre, per difendersi dalle incursioni piratesche dei manipoli di manigoldi che imperversavano ovunque.

Nel 1221, dopo la distruzione di Celano, Federico II deportò in questo paese un considerevole numero di soldati fatti prigionieri, raccogliendo l’invito di Gualtiero, allora conte di Ocre, personalità di spicco della corte di Federico.
Fossa poi entrò nella storia francescana nel 1480, quando l’antico monastero benedettino cistercense fu concesso ai frati Minori che vi dimorarono fin quando il terremoto del 2009 non fece crollare tetto e vite.
Il buon martire Cesidio Di Giacomantonio, oggi santo, che ebbe proprio a Fossa i natali, si gira probabilmente nella sua tomba a vedere come oggi sia ridotto il monastero dove da piccolo fece prima il chierichetto, poi il novizio per poi partire missionario consumatosi nel martirio in Cina.

In quella terra lontana, dove si agitavano forze esasperate nel nazionalismo che incitavano all’odio religioso, il giovane frate fu assalito dai famigerati “Boxers”, gli xenofobi inferociti.

Questi lo uccisero barbaramente a colpi di bastoni mentre cercava, nella cappella dell’Eucarestia, di salvare dalla profanazione le particole consacrate.

Il complesso che custodiva gelosamente i santi corpi del Beato Timoteo da Monticchio il contemplativo maestro dei novizi, di Ambrogio da Pizzoli che fu compagno di San Giovanni da Capestrano nella crociata contro i turchi, del Beato Placido da Roio e le reliquie del martire di Cristo Fra Cesidio, forse rimarrà senza storia per sempre.

Per giungere a Fossa: autostrada Teramo Roma, uscita L’Aquila Est direzione L’Aquila S.S. 5 bis per Avezzano

La piccola "La Verna d'Abruzzo"

A pochi chilometri dall’Aquila dove l’Aterno disegna il suo corso più frastagliato, il piccolo centro montano di Fossa regalava attimi di spiritualità a chi desiderava visitare una sorta di “terra delle Beatitudini”, dato l’ingente numero di santi e beati cui la zona ha dato i natali nel corso dei secoli.


Ho usato il verbo al passato remoto non a caso e non per sbaglio.
Dopo il terremoto del 2009 Fossa è un paese fantasma.
Questo borgo piccolissimo sotto il monte Circolo, ai piedi del complesso montano dell’Ocre, con mirabili resti di storia millenaria fra palazzi medioevali e chiese stupende, oggi è abitato da cani e gatti randagi.

Non è più possibile scoprire un gioiello d’arte come Santa Maria ad Criptas, tempio mirabile del XII secolo, vera Cappella degli Scrovegni in Abruzzo con i suoi cicli pittorici ineguagliabili.

La piccola chiesa che si affaccia sulla valle a pochi metri dal centro storico, è chiusa, imbracata nelle mura e inaccessibile perché pericolante.

È rimasto ben poco del possente castello dei Conti d’Ocre, prodigio di architettura difensiva del 1300 e la grande necropoli preromanica che valeva l’appellativo di “Stonenhenge d’abruzzo”.
Tutto chiuso.

Non è più facile scorgere, nel suo contesto ambientale in cui madre natura fu prodiga, lo spettacolare convento francescano arroccato su di un masso roccioso gigantesco.
Un luogo dello spirito da tutti definito “La Verna d’Abruzzo”, in omaggio a uno dei posti più importanti del francescanesimo dove il santo di Assisi ebbe le stimmate.

La strada per salire al convento è ormai interdetta da quella maledetta notte di aprile 2009, per possibili crolli dal fianco della montagna.

Se v’inerpicaste lungo i tornanti sopra il paese, potreste avere l’impressione che la natura abbia lavorato, secoli prima, per poggiare Sant’Angelo in Ocre sul costone a nido d’aquila, sentinella del precipite e angusto vallone brullo e inospitale.

Si scopriva quasi d’improvviso dall'altopiano di Navelli da dove prendevi a salire alle pendici del monte Circolo per raggiungere un tempo che si era fermato nel tempo!

Oggi per fotografarlo sono dovuto salire a piedi la strada che dal piccolo borgo di San Panfilo d’Ocre porta su di una collina adiacente alla montagna.
Un tempo, prima del maledetto sisma, arrivando al convento si veniva rapiti da un senso di pace nel cuore.
Circondati dal cupo verde dei boschi, gli affanni, le ansie, sembravano fermarsi sotto la conca. Si respirava aria mistica.

Il convento sembrava una “stupa”, quei piccoli santuari indiani che contengono reliquie di qualche buddista santo.
I resti santi del Beato Timoteo di Monticchio e di Cesidio da Fossa, custoditi nella piccola chiesa del convento, erano presenze inquietanti ma, nello stesso tempo, consolanti.

Un luogo sacro stupendo, quindi, antica dimora di contemplativi, con affreschi lungo i muri abbandonati al tempo e una misteriosissima parete a precipizio.
Tutto intorno, massi, verde e caverne dove si dice siano vissuti diversi eremiti.

Oggi tutto questo non esiste più!
Il tetto del convento è crollato, le erbacce colonizzano gli antichi e sacri muri.
Il paese sotto, dove le donne usavano ancora portare otri di terracotta o di rame per prendere l’acqua buona di montagna dalla fonte centrale, è un cumulo di case vuote, monconi di pietre e mura imbracate.

Dentro queste mura, dopo aver vissuto l’infanzia a Fossa, si formò alla santità il Beato, oggi santo, Cesidio Giacomantonio, martire dell’Eucarestia che venne ucciso in Cina durante il periodo della Rivoluzione dei Boxer per non aver voluto rinnegare il nostro Dio.
Ricordo che all'ingresso il visitatore era accolto da un artistico Tau di legno.

L’ultima lettera dell’alfabeto ebraico era il segno più caro per San Francesco d’Assisi, il suo sigillo, segno rivelatore di una convinzione spirituale profonda, che solo nella croce di Cristo può esserci salvezza per l’uomo.
Nel convento un frate dalla barba fluente raccontava a chi arrivava, la tradizione che fa risalire la fondazione del monastero ai potenti Conti D’Ocre.

Per giungere a Fossa e San Panfilo d'Ocre: autostrada Teramo Roma, uscita L’Aquila Est direzione L’Aquila S.S. 5 bis per Avezzano

lunedì 26 maggio 2014

Le vacche riflessive sulla strada per Santo Stefano

“Dio ha fatto un mondo per l’uomo viatore, questo nostro; ha fatto un mondo per l’uomo beato, il Paradiso! Ha fatto un mondo per Sé e gli ha dato il nome di Maria”. (Il segreto di Maria,19)

Ci guardano indifferenti, nient’affatto preoccupate, anzi a pensarci bene, sembrano quasi divertite nello scrutare due tizi disastrati da giorni di cammino.
Le vacche, si dice, siano molto riflessive. Ruminando, meditano.
Ma come accade che un pensiero per giunta bislacco, faccia il giro del mondo e sia condiviso da tutti?

Come può una sciocchezza radicarsi nei nostri neuroni e diventare certezza?
Guardo negli occhi uno di questi bestioni.
Non mi pare affatto che stia pensando qualcosa da dietro occhi persi nel vuoto.
Davanti al laghetto carsico, decine e decine di capi di bestiame sono lì, intenti a far toilette.
Siamo arrivati a questo luogo idilliaco, partendo dal sentiero numero dieci che, dall’albergo di Campo Imperatore, ci consentirà dopo una vita di cammino, quasi quattro ore di marcia, di arrivare al borgo di Santo Stefano di Sessanio, uno dei più belli d’Italia.

La cresta sommitale di spettacolari valloni ci ha consentito di aprire ai nostri occhi, l’immenso panorama che abbraccia tutta la catena montuosa del Gran Sasso, la vallata del fiume Aterno, i massicci della Majella e del Sirente.

Attraversando le pendici meridionali del monte Scindarella, abbiamo raggiunto la sella a 1800 metri, per poi scoprire uno dei tanti scempi dell’uomo: l’insediamento turistico Campo Neruda, nella fossa di Paganica.

Negli anni ’70 questa struttura mai terminata, doveva essere di supporto agli impianti sciistici del versante settentrionale del Monte Cristo.
Torniamo a marciare.
Dopo tanto freddo, oggi il caldo pare quasi opprimente, nonostante l’altitudine.
Ecco un altro specchio d’acqua, dopo prati e pendici ondulate, quello di Barisciano, ecco un secondo, di Passaneta.
Le alture prendono contorni talora brulli e steppici.
Pensare che in un inverno in cui ci trovammo da queste parti nel bel mezzo di un gelido vento quasi siberiano, queste ondulazioni erano ricoperte di neve compressa che aderiva come candida corazza alle placche rocciose.

Le asperità sembravano festoni spugnosi foggiati dal vento freddo, tra muraglie bianche.
Oggi il sole, invece, dona una rassicurante tranquillità.
Il monte Mesola davanti a noi custodisce i suggestivi resti di un grande insediamento religioso: Santa Maria di Paganica, del XIII secolo.
Ecco i “cesarini”, urla Massimo.

È questo, mi spiega, il termine usato per indicare gli edifici in stato di rudere.
Si ergono isolati e imponenti su di un costone a 1600 metri di altezza.
Era una grancia dell’abbazia cistercense di Santo Spirito in Ocre, a sua volta dipendente da quella di Santa Maria di Casanova.
I monconi di pietra appaiono quasi come una fortificazione militare, uno dei tanti baluardi difensivi eretti dai Baroni di Carapelle per difendersi dai malefici saraceni.
Arrivando, l’immaginazione fa comparire ai miei occhi, visioni antiche di monaci, pecore, zampogne, spinaci selvatici, villaggi medievali di pietre sfumate dal tempo e dal lavoro millenario dell’uomo.
Era questa una delle vie transumanti per eccellenza per giungere all’Adriatico.
Non il più importante, ma un ramo che si ricollegava a quello principe di San Pio delle Camere che permetteva in una quindicina di giorni di dura marcia, di arrivare a Foggia.
Qui c’era la Dogana della Mena delle Pecore, il casello daziario per il pagamento dell’esoso tributo sul pascolo.

Certo, oggi la transumanza
orizzontale, mi dice Massimo, non esiste più!
È più che mai vero.
Per produrre il famoso Canestrato di Castel del Monte, il classico pecorino realizzato con latte di pecore vaganti nella piana di Campo Imperatore, si utilizzano prati vicini di bassa altitudine.

È un vantaggio enorme perché gli armenti hanno l’indubbio privilegio di vivere liberi al pascolo per l’intero anno, brucando erba e fiori spontanei di cui il Gran Sasso è ricco.
Dovete sapere che sono state censite almeno trecento essenze foraggiere e, per darvi un’idea, nelle Alpi sono poco meno di cinquanta.
Il commercio in questi luoghi era gestito dai Cistercensi, questo potente ordine monastico, nato in Francia nell’XI secolo.
Qui avevano costruito, lungo il percorso, una serie di masserie- ricoveri per le greggi e facevano pagare per far riparare le bestie e i conduttori.
Gli Aragonesi, ho letto in qualche parte, avevano reso obbligatoria la transumanza per chi possedeva più di venti pecore.

Costeggiamo il versante settentrionale della montagna, arrivando alla sella che divide il Mesola dal monte Cecco d’Antonio, utilizzando tracce di sentiero.
Incontriamo anche la “pajare”, il piccolo complesso di capanne in pietra a secco dei pastori, costruzione mutuata dai famosi Trulli pugliesi di Alberobello, nata come
idea circa trecento anni fa.

Incontriamo sul cammino un tizio.
L’uomo porta con se radici di genepì.
Mi guarda con aria poco tranquilla.
Non sa se la figura che gli si para davanti è quella di un guardia boschi in incognito.
Il maledetto sa che quelle piantine che ha sradicato fino alle radici sono specie protetta e che, carpirli dal terreno non può far altro che provocare danni gravissimi agli ambienti in cui vivono con effetti irreversibili sull’intero eco sistema montano. In gergo scientifico si tratta di “Artemisia Petrosa”.
Le infiorescenze sono chiamate anche “capolini”.
Il maledetto ha intenzione di lasciare essiccare al sole il genepì per poi porlo in infusione nell’alcool allo scopo di ottenere il noto liquore digestivo tanto apprezzato per il dopo pasto.
Deve aver capito la mia insofferenza, allunga il passo e in breve scompare ai miei occhi.

Da secoli questa pianta officinale è servita a fini alimentari, terapeutici, addirittura magici, ma il rispetto che le si deve non l’ha mai ottenuto.
Siamo al fontanile delle Condole.

Questo nome lo si dà a piccole strutture pastorali costruite con tecniche del mondo benedettino e cistercense.

Tra resti di questi antichi ricoveri,
imbocchiamo una carrareccia, dirigendoci verso sud nella piccola valle Traetta e poi al valico del monte Cappellone.
Attraverso la sottostante conca, arriviamo alla chiesa della Madonna del Lago, nei pressi di Santo Stefano da Sessanio.

mercoledì 21 maggio 2014

Bella la vita a Mutignano

Il borgo di Mutignano è adagiato tra colline spartiacque di Atri e di Pineto su di un crinale molto panoramico.
Al visitatore appare come una bella donna distesa, languida e attraente.
 Non seduce particolarmente per la sua architettura ma è piacevole l’atmosfera bucolica del paesaggio.

L’occhio è rapito e spazia tra rigogliosi pergolati di viti fin oltre lo sperone che ospita Silvi Alta.
Più in là si apprezzano i rilievi tondeggianti della Majella e sotto, Città Sant'Angelo fino a Chieti.
Certo, da quando, anni fa, dei malviventi trafugarono la tavola artistica di Papa Silvestro nella parrocchiale, il paese ha di certo un’attrattiva minore.

La copia che campeggia nel presbiterio della chiesa a unica navata, pur dignitosa, non ha chiaramente l’identico fascino.
I turisti salivano fin quassù proprio per vivere intensamente il capolavoro del celebre artista rinascimentale, quell'Andrea De Litio sommo autore di parte del ciclo d’affreschi che impreziosisce l’abside del bellissimo
Duomo di Atri.

Proprio nella città ducale a pochi tornanti dal paesino, le opere del Maestro, tra i maggiori pittori del ‘400 abruzzese, regalano popolarità e prestigio alla nostra provincia con capolavori immortali a cominciare dalla “Strage degli innocenti” e al “Commiato della Madonna degli Apostoli”.

Questa chiesa dedicata a San Silvestro ha una particolarità che intriga: il suo ingresso è posto sotto il campanile come accade spesso nelle moschee arabe.
Dentro è custodito anche un bell'esempio di croce del prolifico artista Nicola da Guardiagrele, uno dei principali maestri orafi del ‘400, scultore fra l’altro, dell’eccelsa croce processionale esposta nel museo della basilica romana di San Giovanni in Laterano.
La custode mi conduce all'interno.
Davanti agli occhi c’è la grande pala a trittico di legno dipinto, suddivisa in vari scomparti.

Al centro si ammira San Silvestro Papa in posa benedicente, con la mano destra in alto e la sinistra impegnata a sorreggere una croce astile.
Ai lati della tavola centrale gli episodi salienti della vita dell’uomo santo: il battesimo di Costantino nel momento in cui abbraccia il Cristianesimo, la guarigione miracolosa dalla lebbra, San Silvestro che discute animosamente con i Rabbini sulle verità della Fede e due singolari miracoli che servono a conferire autorità al pontefice da parte di Dio, il toro ucciso e risuscitato e il dragone reso innocuo dalle mani tese del santo.

Fuori dalla chiesa la piccola piazza alle undici del mattino di colpo si è animata: ragazzini intenti a giocare con una palla, donne con borse della spesa.
Lungo il corso, si trova l’antica chiesa di S. Antonio, oggi auditorium, bellissimo esempio di commistione tra vari stili di epoche diverse, è come di consueto inaccessibile.
E’ sempre chiusa, non c’è verso di entrarvi.

Un simpatico signore dalla pancia prominente afferma di avere le chiavi ma dice che senza ordine del parroco non fa entrare nessuno.

Evidentemente il paese è ancora sotto choc per i furti subiti anni fa dalla Parrocchiale.
Scomparvero a causa di ignoti anche un prezioso calice antico.

Man mano che attraverso l’arteria principale del paese è come essere trasportati in altre epoche, fatte anche di genuinità e semplicità.
Ai lati della via principale c’è una teoria di minuscole rue alcune arricchite da antichi sporti tutti dipinti con opere di pittori.

In alcune aperture verso la valle sottostante s’intravede l’Adriatico rosetano.

Intorno al paese le colline sono
immerse nel silenzio della campagna.
Mutignano era il borgo felice della vicina Hatria Picena, l’odierna città ducale che aveva il suo sbocco al mare nei pressi della Torre del Cerrano di Pineto.
Il piccolo villaggio, nato per volontà di una colonia di slavi capitati qui dopo essere scampati miracolosamente a una tempesta in mare, ha subito le dominazioni di Goti, Longobardi fino al potentato della famiglia degli Acquaviva, padroni incontrastati di mezza provincia teramana.
Quadretti idilliaci si dipanano davanti agli occhi: la donna intenta all'uncinetto sulla soglia di casa, il vecchio che ci scruta con la testa a metà fuori dall'uscio, le grosse statue un po’ kitch di due innamorati su di un balcone, intenti a guardare verso l’infinito, i tanti muri affrescati da dipinti che paiono scimmiottare la vicina “Casoli Pinta”.
Tutto offre belle sensazioni visive.

Il paese recentemente è stato oggetto di un bel progetto di recupero.
L’olfatto è invece rapito dal persistente profumo delle crostate appena sfornate dal giovane panettiere all'ingresso del corso.
Il ristorante al centro del paese espone il cartello che ricorda la specialità della pasta alla mugnaia.

La fame si fa sentire.
 La passeggiata termina nel parco di Castellaro, minuscolo polmone verde del borgo, lì dove insiste la primitiva parrocchiale dedicata alla Santissima Trinità.
Tornando in macchina, nell'altra parte del paese, un po’ fuori dal’abitato, è interessante buttare uno sguardo ai ruderi di Santa Maria della Consolazione a forma di croce greca del 1408, data testimoniata da una lapide in latino.
Occorrerebbe un intervento della Soprintendenza alle Belle Arti.


Come arrivare
A24/A25/A14 RM-PE uscita Pescara Nord/ proseguire in direzione Montesilvano Marina/ Pineto
da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello/ seguire indicazioni per Castel di Sangro/ Roccaraso/ Sulmona/ A25 direzione Pescara/ A14 uscita Pescara Nord/ proseguire in direzione Montesilvano Marina/ Pineto

 Informazioni = Municipio tel. 085 94971

lunedì 19 maggio 2014

La strada della salvezza è tutta in salita

Davanti ai ventotto gradini in legno di quercia, sono tanti i fedeli che nelle ricorrenze cristiane più importanti chiedono, salendo faticosamente in ginocchio, il perdono dei peccati per raggiungere il Paradiso.

Accade ogni anno a Roma come a Gerusalemme.
Accade anche a Campli.

In questo borgo che al visitatore sembra solo un tranquillo paesino di campagna ai piedi dei monti Gemelli, c’è una delle poche Scale Sante al mondo, dove ottenere l’indulgenza plenaria.
In realtà l’antica “Campulum” è grande nella sua storia millenaria iniziata in epoca preromana, tanto da essere da più di tremila anni, crocevia di popoli e cultura.

Basti pensare ai meravigliosi reperti della necropoli italica di Campovalano, risalenti al primo millennio avanti Cristo, ai grandi pittori che qui hanno lasciato opere indimenticabili come Giacomo da Campli, Cola D’Amatrice, Giovanbattista Boncori e tanti altri, senza dimenticare le architetture dei palazzi, le cui mura narrano antichi splendori e celano capolavori del genio umano.

Sono architetture immortali, come la cattedrale di Santa Maria in Platea, la Porta Angioina, San Paolo, il Convento francescano di San Bernardino, il Palazzo Farnese del ‘500, il convento di Sant’Onofrio, la medioevale casa del farmacista e del dottore, il Museo archeologico e mille altri tesori.

Fu Papa Clemente XIV che attribuì il privilegio della Scala Santa alla città della famiglia dei Farnesi nel lontano 21 gennaio 1772, grazie ad un paziente lavoro diplomatico di un avvocato, Gian Palma Palma, priore della Confraternita delle Sante Stimmate di S. Francesco, alla quale fu attribuito il ruolo di custode del luogo santo.

L’avvocato cercava di accrescere la fama della sua città per far rifiorire gli affari e allontanare il pericolo di un decadimento ormai inevitabile.
I gradini che rendono la strada per la salvezza dell’anima in salita, sono un rito religioso di grande importanza, legato a una tradizione biblica, priva di fondamento storico.

Fu Gesù, scendendo e salendo dal pretorio di Pilato la grande scalinata di marmo, a consacrare le pietre col sangue santo che colava dalle ferite inferte dai romani.
La tradizione vuole che, anni dopo, la madre di Costantino, Sant’Elena colta da immensa pietà durante un pellegrinaggio in Terra Santa, s’impossessò del marmo sacro, portandolo a Roma e collocandolo in forma di scala, nel palazzo Lateranense.

Quella di Campli è una delle Scale Sante in migliore conservazione esistenti al mondo, ma è sicuramente la meno nota e la meno frequentata.

Eppure, accostandosi con devozione a questo gioiello di fede ci si sente penetrare dall’atmosfera ricca di suggestioni e attese.

Il soffio del vento che giunge dalla piccola vallata circostante, inculca il desiderio di riconciliazione con Dio.
La luce riflessa che gioca sui toni del bianco e del grigio, sembra soffocare i colori brillanti del verde e del torrente Siccagno.
Sul piccolo universo fermo di questo borgo d’arte, cala il silenzio dell’anima che attende il perdono.
I segni della civiltà di colpo arrivano attutiti, persi nelle strette vie del paese.
Nel salire in ginocchio e a capo chino pregando e chiedendo perdono dei misfatti compiuti, una moltitudine di piccoli teneri angeli dalle tele dei lati, accompagnano il cammino penitente delle ginocchia.

I sei dipinti, tre a destra e tre a sinistra che ornano questo piccolo capolavoro di arte religiosa, ci ricordano quanto ha sofferto il Cristo per salvare tutti noi che spesso rifiutiamo il suo estremo dono.
E’ il luogo del perdono, dove le mute pietre sanno comunque raccontare storie e sentimenti, entrando nella parte più intima del peccatore.

Un itinerario dello spirito, in un tempio dalla struttura semplice.

L’ultimo gradino porta davanti al “Sancta Sanctorum”.
Si prega in silenzio al cospetto di un dipinto che raffigura la deposizione del Nazareno, simbolo meraviglioso del dolore che Gesù ha voluto subire per la salvezza di ognuno di noi.
Il piccolo altare dietro la grata sembra essere lì per far poggiare il peso delle miserie, degli squallori umani.
Finalmente si è liberi dai propri peccati.
La seconda scalinata si scende in piedi tra gioiose tele che ricordano la Resurrezione del Cristo.

Una cultura millenaria raccontata da tanti storici.

Serafino Razzi, domenicano, religioso che ben incarnava l’eterna condizione dell’uomo orante “in cammino” verso Dio, nel 1575 intraprese un viaggio verso l’Abruzzo, toccando anche il borgo di Campli.
Il confine fra la “provincia Pretuziana” e la “Marca Fermana”, fra lo stato e il Regno Pontificio di Civitella del Tronto, dovette lasciare in lui un segno se è vero che, profondamente colpito dalla nobiltà che permeava quel piccolo e apparentemente insignificante paesino, esclamò in una sua lettera: “ o Campulum Pretuziano…
capolavoro a cielo aperto!”.

Anni prima, lo studioso Pacifico Massimi, vissuto nel XV secolo, scrisse in un testo latino che … ”sinché esisteranno le ripe di Campli, Castelnuovo e Nocella, io ne sarò sempre amante, mai sarò immemore di ciò che ho ricevuto né mi peserebbe ricambiarlo con il dono di mille vite”.


Il cieco di Adria, Luigi Grotto, pose Campli sopra le rovine della favolosa Castro.

Lo storico Orlando non fu dello stesso parere e sostenne che i fondatori del borgo furono dei fuoriusciti di Campiglio, sulla collina sopra la valle, che gettarono le fondamenta di un quartiere che divenne in seguito “ il Ricetto” forse per la presenza di ebrei.
Giovan Battista Pacichelli invece asserì che il nome Campli derivava da intra – campi e affermò che il borgo fu fondato dai proprietari di un castello vicino.
Origini discusse, tra cui l’ipotesi di un tenimento umbro che parla di un “municipium inter campi” da cui il nome della città.

Quel che è certo che Campli trasuda, in ogni sua pietra, cultura millenaria.
Lo gridano incessantemente i tanti ritrovamenti di ogni epoca e civiltà.
Il territorio camplese ha avuto fin dalla preistoria insediamenti propri, come ci testimoniano i resti risalenti all’età del bronzo, di un villaggio di allevatori e agricoltori del XIV, XIII secolo a.C. e i ritrovamenti nella Necropoli di Campovalano con tombe risalenti al II secolo a.C. I resti raccontano anche di una civiltà romanica evoluta.

Nella zona al margine nord ovest della necropoli, sotto l’altare della chiesa romanica di San Pietro in Campovalano, fu ritrovato un frammento di epigrafe, in lettere capitali con dedica a Giulio Cesare, resti con tutta probabilità di un piedistallo di statua innalzata per disposizione dell’ex “Lex Rufrena” del 44 a.C. in onore a Cesare divinizzato.

Nella stessa area esisteva una necropoli romana, da cui provengono frammenti del ”sarcofago di Aurelio Andronico”, ricco commerciante di marmi nel IV secolo avanti Cristo.
Nella frazione di Battaglia ai piedi delle due montagne gemelle, fu riportato alla luce un ripostiglio contenente una quarantina di monete d’argento, molto probabilmente tesaurizzate, databili dal 323 al II secolo a.C..

In epoca romana i vicoli di Campli furono attraversati da uomini illustri; la storia ricorda la presenza di Lenate, dottissimo schiavo di Pompeo e Tazio Lucio Rufo che, pur essendo di umili natali, pervenne ai più alti gradi della milizia romana, diventando il pupillo di Augusto.

Nessuna mano scellerata è riuscita, nei secoli, a strappare l’infinito fascino che Campli sa regalare.

È possibile raggiungere Campli tramite l'autostrada Adriatica (A14) uscendo dal casello Val Vibrata o dall'Autostrada (A24), uscendo a San Nicolò a Tordino. Teramo è a 9 chilometri!

domenica 18 maggio 2014

Al settimo cielo!

Tratto dalle pagine de "Il mio Ararat"(La Cassandra edizioni).

Un grazie di cuore all'amico Daniele Machetti per le splendide foto della fioritura di maggio a Campo Imperatore!

“Se vuoi arrivare primo, cammina da solo. Se vuoi camminare lontano, cammina insieme.” (Adagio popolare)

Prima di partire stamane ho meditato il libro più piccolo della Bibbia.
Chi legge il “Cantico dei Cantici” attraversa l’amore a tutti i livelli, in tutte le sue molteplici sfumature, di qualunque sentimento profondo si parli: tra uomo e donna, tra Dio e il suo popolo, tra i fratelli in carne, tra gli esseri viventi e la natura.

Colpisce la dimensione della continua ricerca tra due esseri in un amore inteso di complicità, di ricerca l’uno dell’altro, in un legame desiderato, sognato.
Ho un po’ di nostalgia di mia moglie, tanta di mia figlia.

Forse era più indicato leggere Giobbe, avrei attraversato il dolore in tutte le sue sfumature, ma ascoltato inequivocabilmente la Parola di un Dio misericordioso, pronto a dare l’ultima parola di conforto.

Sto pensando che sono belle le figure femminili della Bibbia. Rut, ad esempio, è la straordinaria donna di un popolo odiato da Israele ma che entra in quello ebraico, per diventare nonna di David e ristabilire pace fra i due popoli.

Gli Ebrei leggono questo libro a Pentecoste, il tempo della mietitura.
Quando Dio si rivolge a una donna nell’Antico Testamento, accadono sconvolgimenti.
Anche il Signore soffre a causa loro.

Un tempo la montagna ha avuto una forza di attrazione malefica, un po’ come quella del deserto, landa di desolazione, la stessa attribuita oggi ai buchi neri dello spazio siderale.
La morte arrivava di sorpresa sotto forma di un morso di vipera, di una slavina improvvisa, di un piede messo disgraziatamente dove non si doveva.
E poi, la montagna era il regno dei briganti.
Pian piano, tutto è mutato.
Le cime sono diventate pilastri, colonne del mondo, merletti di vita sotto un cielo scintillante di luci.
Sagome di aguzze piramidi, guglie di pietra dal profondo romanticismo rosa, pinnacoli di roccia fra altopiani, strapiombi, gole, foreste.
E così il “modus deambulandi” è tornato quello di un tempo.

Questa mattina è caratterizzata dal passaggio continuo di gruppi di volatili.
Sul finire dell’estate c’è una strana agitazione, una frenesia inconsulta da parte degli uccelli che iniziano a migrare, sulla rotta che dal lago di Campotosto li conduce ai paesi caldi dove svernare.
Passano sulle nostre teste come minuscoli aeroplani.

Crediamo, tra gli altri, di aver scoperto dei bianconi, piccoli aquilotti specializzati nel predare bisce e lombrichi, planando inaspettatamente.
Molti di essi sembrano essere però dei semplici colombacci.
Oggi ci aspetta una polenta a Campo Imperatore se tutto andrà per il verso giusto.
È quello che ci vuole per riscaldarsi perché sta tirando aria gelida.

Stiamo attraversando la valle più spettacolare del versante teramano del Gran Sasso.
Questo cuneo di terra separa il Corno Grande e il Corno Piccolo dai pilastri verticali del Pizzo d’Intermesoli.
Un paesaggio incredibile, uno straordinario succedersi di habitat diversi: boschi, torrenti, pascoli, ghiaioni.
Ma qui c’è anche una grande storia scritta dall’uomo in lotta con balze, nevi e pareti ripide.
Non parlo solo dei grandi scalatori come il capitano De Marchi, che nel 1574 salì con la guida alpina Di Domenico di Assergi, sul Corno Grande.

Chissà quanti uomini l’hanno attraversata sin dai primi anni del cinquecento quando veniva utilizzata come mulattiera, dai mercanti di “carfagni”, i panni grezzi di lana che insieme ai “cotorni”, spessi calzini da uomo, venivano trasportati attraverso il Passo della Portella per essere venduti nella città di Aquila.


Nel teramano c’erano diverse fabbriche laniere che producevano roba egregia.
La Val Maone era anche attraversata dai pastori che, per il Rio Arno da Pietracamela, portavano le greggi nella conca di Campo Pericoli.
I transumanti raggiungevano la parte superiore della valle, lì dove c’erano le famose “capanne” e le grotte che offrivano ricoveri in caso di tempeste di neve assai frequenti. Massimo mi ricorda che qui a Campo Pericoli, il più grande “pericolo”, l’ha corso proprio l’ambiente.
Anni fa fu proposto un mega insediamento di impianti
sciistici di alta quota.

Il progetto prevedeva un collegamento con la valle del Venacquaro, in una sorta di delirio di cemento che avrebbe trovato una successiva colata nella valle del Chiarino.
colpo mortale per il Gran Sasso che, per fortuna non c’è stato.
Una follia che stava per essere realizzata se non fossero intervenuti, provvidenziali, gli ambientalisti a scongiurare un simile scempio.

Al posto di strade, funivie, skilift, oggi qui pascolano beati, grazie a Dio, i camosci e volteggiano, felici, le aquile.
Che meraviglia, ragazzi!
Montagna severa questo Gran Sasso, ancora più affascinante per chi sa coglierne gli aspetti più integri.

Uno spaccato dolomitico con rocce che appaiono come plastici ed eleganti ammassi creati dalla mano di un gigante, fino a giungere alla stupenda parete nord e alle Spalle del Corno Piccolo.

All’opposto, troviamo i più selvaggi versanti meridionale e orientale del Corno Grande, lavorati in maniera ossessiva, tra profonde incisioni, slanciate guglie, tortuosi canali e sinuose creste.

Stiamo per vivere intensamente la diversità dei due versanti: quello teramano tutto antropizzato con la presenza massiccia dell’uomo, quello aquilano con la brulla piana di Campo Imperatore e i deserti crinali che scendono verso i deliziosi paesi come Santo Stefano di Sessanio, Castel del Monte, Calascio.
Il Passo della Portella è a 2260 metri di altezza.
C'arriviamo abbastanza provati.
La fatica si sta accumulando anche se l’entusiasmo non è scemato nemmeno di un tocco.
Sulla nostra destra svetta il Pizzo Cefalone.
Un passo dietro l’altro.
Dieci, cento, mille orme, il dislivello di poco più di cento metri per raggiungere la sommità sulla quale insiste il Duca degli Abruzzi a 2388 metri d’altezza, è colmato tra vari ondeggiamenti.

Il rifugio è dedicato a un grande
esploratore italiano, Luigi Amedeo di Savoia, duca, per l’appunto, quasi sicuramente uno degli esponenti più amati della Casa Reale.
È una storia di vita complicata, avventurosa, quella del cugino “povero” del più famoso Vittorio Emanuele II re d’Italia.

Tra una spedizione e l’altra in cui si portava con sé un uomo mito della storia dell’alpinismo italiano, Vittorio Sella, finissimo fotografo, il nobile uomo ebbe varie avventure.
Anche galanti, vi assicuro, con donne di alto lignaggio fra cui l’americana Catherine Elkins, desiderata da mezzo mondo.
Luigi Amedeo viaggiò in Alaska, arrivò nel Polo-Nord, in Karakorum, salì il K2 e non disdegnò paesi con mille problemi, come ad esempio la Somalia.
Ma lo sapete? Fa anche freddo. Un freddo boia!
Occorrerebbero i guanti, un giaccone più pesante.
Il sole sta calando e i suoi raggi s’infilano nella vallata sottostante.
Quando arriviamo alla stazione alta della funivia del Gran Sasso, al rifugio Campo Imperatore stanno scendendo le ombre di un raffinato ma gelido tramonto.
 
L’ostello è stato ricavato dagli antichi locali che ospitavano la struttura di servizio della stazione di arrivo della funivia che, ancora oggi, parte dalla sottostante Fonte Cerreto.

Naturalmente all’interno il riscaldamento non funziona!
Rimediamo un’anonima stufa elettrica.
Meglio di niente.

Riequilibrato il sistema termico dei nostri corpi, mentre Massimo chiude gli occhi, decido di dare un occhiata.
Attraversato il piazzale, mi affaccio verso la piana.
Che meraviglia!
In fondo si nota una moto di grossa cilindrata.
È simile a un proiettile colorato, sparato da una parte all’altra del paesaggio.
Deve, certamente, essere una sensazione incredibile.
fruscio dell’aria sulla carenatura, la lingua di strada bianca che corre davanti la ruota anteriore, la linea di mezzo riflessa sulla visiera del casco integrale.

L’albergo è un cimelio storico e lo si capisce anche dalla struttura decisamente sfruttata.
Ospitò Mussolini durante la sua prigionia sulle vette del Gran Sasso.

Da qui il Duce mise un nuovo tassello alla sua vita avventurosa, con una liberazione che la storia ricorda quanto meno rocambolesca.

Sembra quasi di vederli ancora gli alianti dell’aviazione tedesca, il 12 settembre del 1943 alle ore 15,00 circa con gli incursori paracadutisti che circondano l’albergo per liberare il prigioniero eccellente.
Foto e cortometraggio dell’evento hanno fatto più volte il giro del mondo.
Sono parte della storia del nostro paese.

giovedì 15 maggio 2014

L' elogio della pezzata: vita di pastori

Dal mio secondo libro "Il mio Ararat"

“Andarono in giro, coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati- di loro il mondo non era degno!- così vaganti pei monti tra le caverne e le spelonche della terra”. (Ebrei 11,36-38)

Viaggiare a piedi è connettersi con ognuno dei tuoi sensi in un percorso interiore in cui ogni passo assume un valore infinito.

Massimo ha già estratto il suo bel panino con frittata di asparagi, quando in lontananza vediamo un pastore avvicinarsi sempre più con il suo piccolo gregge.


La polvere sollevata dagli animali sfuma il paesaggio come in un sogno. Riempie il cuore vedere una scena antica in un mondo che ha dimenticato il suo passato.

Tra un boccone e l’altro, l’amico mi fa notare che quest’antica strada romana, tagliata per molti chilometri tra boschi e rupi, portava le torme di pecore e capri verso Senarica e poi giù per la valle del fiume Vomano, fino al mare.
Una sorta di raccordo tra la “Salaria dell’Adriatico” e quella del Gran Sasso che toccava poi la Laga amatriciana.
Basti pensare alle pietre miliari presenti qui e là da Poggio Umbricchio, grumo di case abbarbicate sulla roccia come un astore su di un pendio pronto al volo, giù fino al tempio di Ercole nella zona archeologica della vallata.

Non so se conoscete Fonte Spugna, quell’antico fontanile che trovate in una delle curve a gomito sulla strada
Maestra del Parco, pochi tornanti dal bacino Enel del lago di Piaganini.

Ebbene se ci si affaccia di sotto del guardrail, lì dove scorre il fiume, s’intuiscono tracce di sentiero.

L’antica Salaria, secondo il mio amico montoriese, Claudio Foglia, appassionato cultore di quest’antica arteria romana, passa lì dopo essere scesa proprio dal Poggio, località campo sportivo, dove fu trovata la colonnina miliare, per virare attraverso Leognano e fino a Zampitto- Salara, per l’appunto.


Splendido!
Ricordo che quel grande uomo di cultura e amico, Gianmario Sgattoni, prima di lasciarci avrebbe voluto scrivere a quattro mani con me di questa sorta di città santuario sepolta dinanzi al Gran Sasso.
Per lui proprio qui esisteva l’antica “Beretra” di cui Tolomeo scrisse: “città orientale di là dell’Interamnia”.
Forse, come diceva l’abate scrittore del primo novecento, Jean Jacques Christillin, “la leggenda non è poi così lontana dalla verità, ma è semplicemente, la storia non ancora messa a punto”.

Di questi luoghi magici, solenni e misteriosi, il Gran Sasso è ancora pieno.
Vivono di vita propria in un continuo alternarsi di luci, ombre e figure che si confondono tra falsi storici e realtà.
Elementi mescolati che danno poi vita a una sorta di sinfonia poetica, unica, onirica, in un rapporto insondabile tra uomo e natura.

Il pastore rabbonisce il suo scalmanato cane bianco che latra selvaggiamente, mostrando denti affilati e occhi rossi ardenti come carboni.

Porta, sotto al mento, un lungo collare dai chiodi aguzzi per difendersi dai pericoli.
Il latrare del cane fedele si confonde con l’acuto suono dei campanacci.

La bestia infernale pare prendere maledettamente sul serio il suo compito di custode delle pecore.
Queste palle bianche animate, creature sorprendenti dal pelo lungo, appaiono un po’ orsi, un po’ lupi, sono impareggiabili in ferocia e forza.

Quando in montagna, li scorgi comparire sul tuo sentiero con il minaccioso abbaiare, è come se fossi in balia di un leone.
Mentre ringhiano, sei lì a pregare che il padrone delle greggi sia nei paraggi, altrimenti si fa notte!
Anche quando non avvertono minacce verso le greggi, non sembrano mai socievoli.

L’uomo, al contrario, è loquace ed è anche italiano.
Ha le tempia leggermente brizzolate, il colorito sano di chi passa evidentemente molte ore in ambiente, sorriso contagioso e insospettata capacità naturale di comunicare.
Vive non lontano da Tottea, ma nella bella stagione per molti giorni sperimenta una vita quasi nomade. Incredibilmente la pecora è ancora il centro della sua economia, dei suoi pensieri e del lavoro.
Un mondo anacronistico il suo.

Racconta degli aneddoti agro-pastorali, conditi da sussulti di umorismo.
Ricorda quando i pastori di sera transitavano in un paese.
C’era il rito dei pentolini: ogni famiglia, con il suo bel contenitore in mano, faceva il giro dei transumanti per chiedere un po’ di ricotta, il siero da mangiare la sera o da miscelare al mattino con il latte.

Snocciola, addirittura, anche ricette come quella della “pezzata”, piatto transumante che credevo si consumasse solo a Capracotta, nelle montagne del Molise, non lontano dalle vestigia di Pietrabbondante e delle antiche fonderie di Agnone.
Nel borgo molisano ancora lavora l’officina dei fratelli Marinelli, realizzatori delle campane nella basilica di San Pietro a Roma.
La pecora è bollita con erbe aromatiche dei prati alti, profumandola e servendola con zuppa di pane raffermo.
Il pastore schiocca le labbra a far capire la bontà del piatto, apre, poi, la sua povera bisaccia che ha visto giorni migliori ed estrae, con aria soddisfatta, ciuffi di orapi, sorta di spinaci selvatici d’altura e sentenzia che con quelli, la pezzata diventa un lusso!

Chissà perché quest’uomo d’altri tempi che non ha lasciato neanche il suo nome, appare affascinante nel suo puzzo di sudore e formaggio andato a male.
Per Massimo è la sua vita verde ad attrarre.
È una sorta di perenne avventura che alla casa di paese gli fa preferire le greggi, l’ovile, il canto degli uccelli, l’acqua di un ruscello.
È l’incanto di vivere al confine tra le rocce arenarie della Laga e il calcare del Gran Sasso, nella libertà assoluta, libera da schemi predefiniti.
Un qualcosa che ammalia chi, come noi, vive immerso in un mondo che consumandosi fino a farsi male, cerca oggi qualche via di salvataggio attraverso i confini di un’esistenza eco compatibile.
Sono vite semplici, povere, ma autentiche e pienamente vissute.

Questo povero transumante è un monumento alla tradizione.
Tutta la grande vallata ai margini dei monti della Laga è stata per anni conosciuta anche per la produzione di formaggi.

L’uomo è una miniera di ricordi.
Ha un’allegria coinvolgente.
Ride sguaiato, dipingendo, quasi la chiostra dei suoi denti.

Traffica con la sua pipa, la pulisce, la carica, l’accende, spande un terribile odore di tabacco nell’aria.
Un tempo, ci dice, quando si faceva pettegolezzi si diceva: facciamo ricotta!
Ci parla dei padroni, a volte odiosi che affidavano il loro gregge alla povera gente del posto.
I possidenti oltre al salario mensile, di per sé scarso, fornivano lo stretto necessario per sopravvivere.

La dote era: un litro d’olio al mese, un chilo di pane al dì, un chilo di sale per trenta giorni.
Lo strumento principe di questa sorta di baratto, era la “taja”, un regolo in legno su cui si segnavano con tacche, le quantità di pane e altre merci ricevute dal padrone.
In caso di superamento di queste razioni, si scalava il mese successivo.
Nell’ipotesi, molto remota che avanzasse qualcosa c’era il cosiddetto “affranco”, con il calcolo nel salario successivo.

Nel ricordare i pastori, che tornavano in estate con le loro greggi, invadendo le strade come un fiume di lana, il gregge che copriva ogni spazio della strada da dove si scorgevano solo velli, le tante case piene di persone che ora non ci sono più, l’uomo pare quasi sul punto di piangere.


Sembrano tempi incredibilmente lontani da noi quelli in cui si curava febbre con le sanguisughe e i salassi, quando il bucato si faceva con la liscivia, cioè acqua e cenere, quando i fiumi e i laghi erano potabili.

Ricordo che anche la mia povera nonna aveva una convinzione assurda: quando qualcuno stava molto male bisognava uccidere la gallina e preparare il brodo per il debilitato, mentre almeno una di sette vergini, con un bel fazzoletto bianco in testa, doveva recitare con trasporto il rosario.
In realtà il tempo che ci separa da una vita così diversa non è poi tanto.

Mentre l’uomo racconta, penso che lo scrittore latino Catone, oltre 2000 anni fa, ripeteva che per tutti i successivi secoli, la pastorizia sarebbe stata la maggiore ricchezza.
Sappiamo tutti com’è finito il Sacro Romano Impero.
L’Italia del dopoguerra grondava di latte, commerciava in lana, oggi i pastori sono disperati macedoni o piccoli produttori come l’uomo che abbiamo davanti.

Il “Settembre andiamo, è tempo di migrare” di dannunziana memoria suona come un beffa fuori moda.

Pochi sono quelli che ancora cercano di salvare i tratturi, le autostrade dell’antichità lungo le quali si snodavano commerci e transumavano gli armenti.


Ancora di meno coloro i quali cercano di non far crollare piccole chiese disseminate lungo i tracciati. Molti tratti sono ormai ricoperti da erbacce, molti asfaltati o affittati a contadini.
Il mondo è cambiato, qualche volta in peggio.
Chissà perché i pastori sono stati sempre visti con sospetto da tutte le civiltà.
La letteratura sumerica li definiva: “apparenti uomini dalla voce dei cani di prateria”.

Altre cultura li comparavano a briganti.
Gli egiziani ne avevano repulsa.
Per gli ebrei non potevano neanche testimoniare nei processi.
Un mestiere essenziale ma, direi, maledetto.
Eppure furono loro a vedere per primi Gesù nella grotta di Betlemme e dal tronco di Iesse, dal giovane pastorello Davide, che nacque la genealogia del Cristo.

Riprendiamo il cammino in un pomeriggio in cui il sole ha lasciato posto a una spessa nuvolaglia umida, grigiastra.
Il cielo è ora plumbeo, rigato da inusuali strisce rosse.
In un silenzio condiviso c’inoltriamo in un paesaggio di arcadica semplicità. In lontananza sentiamo scampanii di mucche al pascolo.
Nel naso, un acuto profumo di resina proveniente da boschi vicini.

Superati i minimi resti del leggendario abitato di Campanea che resistette alle intemperie del tempo fino al tardo medioevo, incontriamo anche le anonime pietre di quella che un tempo era l’antica pieve di San Martino dove dicono siano vissuti uomini già intorno al I secolo ante Cristo.

Si favoleggia che qui ci fosse già un vero presidio di fede pagana, poi col Cristianesimo la zona divenne una minuscola cittadella dello Spirito, un sito del silenzio e della contemplazione.
Bé, in verità, il silenzio è rimasto.

L’aria sembra ancora intensa di anime, densa e rarefatta allo stesso tempo.
L’aura religiosa un tempo si estendeva fino alla Madonna del monte Calvario di Piano Vomano, creando un culto mariano notevole: quello delle Sette Madonne Sorelle, che coinvolge tutte le statue dedicate alla Vergine Maria che si trovano nei paesi vicini.
È un’antica forma di devozione popolare, in passato molto diffusa nelle aree rurali e montane.
Il culto veniva professato svolgendo pellegrinaggi a piedi nelle chiese disposte entro orizzonti confinanti in modo da vedersi e dov’era presente una statua di Maria Santissima, per sciogliere voti, chiedere grazie, protezione da eventi terribili.
Oltre ad un’area devozionale, il luogo aveva anche funzione strategica per arroccarsi nel caso di un attacco nemico.

Una piccola città in pietra, dalla mirabile strategia urbanistica e una straordinaria posizione geografica, incastonata tra queste montagne.
Pare che uno scrittore del Rinascimento di cui non rammento il nome, parlando di questa cittadella ormai scomparsa, la descriveva così: “lì dove regna il sole che è di tutti e tutto fa crescere e la rovina non sarà mai tale.”

La domanda aperta al cielo è: come può essere diventato tutto così, rovina su rovina?

Una gustosa leggenda tramandata per anni, racconta di spiritelli terribili dal baschetto rosso e facce nere, che occupavano questo luogo: erano i fantastici “mazzamarill”.


Spaventavano le mandrie di vacche e le greggi delle pecore creando disagi a non finire ai pastori.
Occorreva molta fede e ore di preghiera per allontanare questi folletti birichini.
Ancora oggi quando s’incontra una persona di carnagione scura da queste parti si dice “che è nere n’da nu mazzamarill” .
La fama di questi luoghi è anche legata a un non so che di esoterico folcloristico.
Le presenze demoniache potevano essere allontanate solo con la preghiera.
Anche con accorgimenti, per carità.
Tutti, presso gli usci di casa, mettevano, ad esempio, le scope, per far sì che streghe o spiriti maligni, entrando, fossero costretti a contare uno per uno i fili, senza riuscire a venirne a capo entro l’alba.
I bambini, che spesso avevano problemi digestivi a causa della poca igiene, venivano guariti dai santoni della zona, facendo passare per tre volte un filo attraverso la cruna di un ago.

Sono molti i montanari che sostengono di aver trovato, al mattino, cavalli con criniere intrecciate e sudate, utilizzati dalle streghe per le loro notturne scorribande.

È risaputo che di queste anime perverse, hanno parlato grandi uomini come Dante Alighieri o Pico della Mirandola.


Tutto poteva essere scongiurato, però, con la preghiera.
La fede è dono di Dio assolutamente importante per gli uomini di montagna.
Nel giro di poche manciate di chilometri tra il Gran Sasso, la Majella e il Velino Sirente, esistono santuari costruiti sopra antri, grotte, rocce o picchi, là dove gli uomini in qualche misura sentono più forte la vicinanza di Dio, luoghi che sfiorano il divino.
Ci sono posti, dove si sperimenta il benessere anche fisico dello stare in silenzio, avvolti nei propri pensieri, ricordi o progetti che ancora ci attendono.

È questo il motivo per cui tanti santi li hanno cercati.
Così credo sia stato per San Benedetto a Cassino, San Francesco a La Verna e San Pietro Celestino a Santo Spirito nel vallone dell’Orfento, a Caramanico nel pescarese.
Questi luoghi conservano una spiritualità palpabile, di enorme richiamo per l’uomo moderno.
Non smetto mai di chiedermi perché l’occidente secolare dimentica tutto il suo sacro, quasi nascondendolo, mentre in Asia non c’è nulla di nascosto e tutto è sacro.
La sacralità della vita è tale che in India, ad esempio, i milioni di senza tetto pregano per strada, inginocchiati nella polvere tra il grigiore polveroso e scrostato.

Ora il dilemma è: scendere attraverso tracce di sentiero fuori pista e spezza gambe verso il paese di Senarica o tornare verso Macchia Vomano, aggirando i ruderi altomedioevali di Tibbia sui piani di Crognaleto, attraverso il vallone del Rosario e su di una comoda mulattiera.
Ci sarebbe anche un percorso tra sterpi che arriva fino allo storico mulino ad acqua De Giorgis di Poggio Umbricchio.

Un luogo delizioso con una storia singolare raccontata nei suoi scritti da Ercole, rampollo della famiglia che dal 1920 ne acquisì la proprietà.
L’antico opificio rurale ancora oggi presenta le pale in legno del tempo, le volte dei canali di deflusso delle acque e la buca di raccolta delle acque.
Questo manufatto fu costruito sul finire del secolo decimo nono da un carabiniere, un certo Giuseppe Andreoli della provincia di Mantova.
Il tizio lasciò la Benemerita, sposò una donna del Poggio e divenne anche sindaco di Crognaleto.
A questo Primo Cittadino si deve la costruzione del ponte in ferro sul fiume e il ripristino di antiche mulattiere.

Il mulino è stato per anni, il punto di riferimento delle popolazioni che vi si recavano per la macinazione dei raccolti di grano, orzo, mais e farro, capo saldi dell’antica alimentazione contadina.
Quale itinerario scegliere? È il bello e il brutto del non avere mete.
Massimo guarda attentamente la cartina, alza gli occhi al cielo, poi decide che forse è meglio tornare in quest’ultima direzione.

Peccato non passare a Senarica!
Quanti bei ricordi ho di questo minuscolo borgo antico pieno di storia.
Ripenso a una mitica sagra della castagna di qualche anno fa.

(Continua 2)

A Piano Vomano, dove regna la pace!

Tratto dal mio secondo libro: "Il mio Ararat". 
Foto di Alessandro de Ruvo.


La tradizione musulmana esige che, almeno una volta nella vita, ogni fedele compia quel cammino che Maometto fece dalla Mecca a Medina, alla ricerca delle radici e del proprio Dio.

Anche il cristianesimo conosce più di una rotta sacra, dalla via Francigena, che dall’Europa porta alla tomba di San Pietro a Roma, alle vie orientali che portano al Santo Sepolcro di Gerusalemme, fino al Cammino di Santiago a Compostela nel “campo delle stelle”.

Forse mi sto chiedendo, dove porta questo mio peregrinare e perché.
Massimo è un tiranno.
Ha già deciso che non ci saranno soste prima del pasto frugale del mezzogiorno.
Mi dice, sorridendo, che questa prima tappa è come il prologo del Giro d’Italia: escursione breve giusto per sgranchire le gambe e prepararle al lungo trekking.
Ho lasciato moglie e figlia, ho fissato un appuntamento tra non meno di quindici giorni.

Il tempo scorre, invecchio a vista d’occhio e ogni anno ho paura di non poter reggere il ritmo di più giorni in marcia.

Nell’antica Grecia “chronos” era il tempo cronologico, appunto, quello che oggi è regolato dagli orologi.
Il “kairos” era, invece, il tempo nel suo contenuto di azioni umane, di vicende, di eventi che mutano il corso della storia di tutti i giorni.

San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, lo sente breve nella sua visione caduca della vita, di certo lo è, se è vero che mi ritrovo a oltre cinquant’anni a chiedermi dove sono stato in tutto quest’arco di tempo.
Mi sento come quando si ripiegano le vele di una nave che ha finito la sua corsa e magari è pronta per essere sostituita da una imbarcazione più moderna.
Non è pessimismo quello che sto scrivendo, è avvertenza per chi si fa sfuggire il suo tempo senza reagire alle emozioni che bussano alla porta dell’animo.
Ecco perché vorrei coinvolgervi in questo viaggio sensazionale attraverso la nostra meravigliosa terra.

Ora che la gioventù è definitivamente andata, la montagna a volte pare più lontana, quasi irraggiungibile.
A casa mi capita spesso di guardare i volti delle persone care e anche il mio e ritrovarmi ad avere nostalgia del vento che penetra nel tronco cavo di un albero scricchiolante in un lamento vagamente musicale. Vorrei sempre che le mie parole creassero immagini, vorrei tornare a baciare, mangiare, leccare la prima neve che scende in quota, vorrei tornare a trangugiare avidamente pasta in frittata dopo aver conquistato una vetta, tornare a sentire l’odore dei corpi tesi allo spasimo per una salita durata ore.
Immaginate un luogo completamente immerso nella natura, lungo la cresta di uno sperone strapiombante sulle gole di un fiume.

Un piccolo agglomerato di case dove la minima presenza umana è data dal basso volume di una radio, dagli odori di un sugo con castrato in preparazione sul fuoco e dal ragliare di un asino dentro una stalla che ha resistito al tempo e agli uomini.
A Piano Vomano, la vita si vive in lentezza.
Il silenzio è quasi sacrale, l’abitato è rustico e compatto, l’anima del borgo è rimasta intatta nei secoli.
Ogni roccia, ogni prato, ogni edificio, parla alla propria gente di un duro passato.
Due donne in abito nero stazionano, immobili, su di una panchina.
Qui si svolge una bella festa estiva dedicata all’albero, elemento insostituibile nella natura di cui spesso ci dimentichiamo.

La loro forza è tale da radicarsi profondamente nella terra, resistendo ai venti e al tempo.
Noi diamo sempre per scontata la loro presenza.
In questi luoghi si trovava una delle più grandi querce d’Italia: la “mazzucche”, dalla circonferenza di ben otto metri e una vita secolare a sfidare le intemperie e la forza distruttrice dell’uomo.

Questi patriarchi non sono solo alberi, ma l’identità di un popolo, un’epopea verde.
Un fulmine più forte degli altri stavolta l'ha stroncata
Stiamo percorrendo un itinerario, un tempo molto frequentato.
Un autostrada della storia!
Una montagna russa del mito.
Lo spazio temporale che abbraccia questo tragitto è di migliaia di anni.
Pochi chilometri per attraversare un’era gigantesca e scoprire il fascino del tempo che non c’è più.
Qui in epoca preromana era come fare la classica “vasca” nel corso di Teramo.
Allora, doveva esserci una sorta di tetrapoli edificata in epoche remotissime, con tanti abitanti, dotata di più porte d’ingresso, brulicante di una massa eterogenea di commercianti, intellettuali, ma anche di una fauna umana di imbroglioni, prostitute, affaristi, miserabili e viziosi.

La grande metropoli sarebbe stata distrutta, secondo una leggenda che fa sorridere, da enormi formiche voraci.

Le storie incredibili che sono state tramandate nei vari insediamenti di questo acrocoro verde di pascoli e ricco di acque che formano il distretto di Crognaleto, sono tutte gustose.

A San Giorgio a oltre mille metri di altitudine, c’è la misteriosa “ara delle schiazze” su cui si credeva danzassero, leggiadre, le fate.
Non lontano da questo luogo da favola, su di un crinale, dal tempio dedicato al santo che sconfisse il dragone del Male, fino a pochi anni fa, rimbombavano i rintocchi della campana fusa sul sagrato, a ricordare il miracolo dei muli che s’inchinarono al passaggio del condottiero armato da Dio.
C’è, non lontano, una piccola chiesina con la volta a crociera.
Nel suo interno sembra scomparire la nervosa inquietudine della quotidianità.

Si percepisce la presenza di Dio che penetra nel corpo e nell’anima con una fisicità che investe tutti i sensi.
Pare che fino a non molti anni fa, tutto intorno si sentissero dei rumori misteriosi.
Gli scettici dei paesi vicini sostenevano fosse il vento.

Qualcuno giurava di aver sentito anche urla strazianti.

A gridare selvaggiamente, sarebbe, per la tradizione popolare, il diavolo murato vivo nei secoli scorsi dai contadini.
E ancora, a pochi passi da Figliola e di fronte al vecchio abitato di Ajello, troneggia ancora la temibile “Rocca Roseto”, tra antichi passaggi segreti, botole con lance acuminate e cunicoli che discendono a valle.

Fu proprio intorno al perimetro delle mura che un mio conosciuto amico, Gino di Teramo, rinvenne un’antica daga acuminata.
E fu ancora qui che altri trovarono degli stiletti utilizzati dai briganti che transitavano nell’immenso pianoro dove oggi si svolge la “mostra della pastorizia”.
Fra i reperti tornati alla luce nel corso degli anni, pare ci siano anche mattonelle votive con disegni di leoni ruggenti, fiere con artigli e fauci spalancate che simboleggiavano quanto terribile sia l’aldilà e il passaggio dalla vita alla morte.

Il luogo evoca anche terribili storie di streghe.
Da queste parti doveva esserci, per la ricca tradizione popolare, una sorta di succursale della campana Benevento, unanimemente riconosciuta come la capitale della stregoneria.

Il grande scrittore Guido Piovene, autore quasi sessanta anni fa, del famoso libro “Viaggio in Italia”, presentava queste terribili figure femminili, dotate “di piedi palmati come anitra, cavalcatura, cavaliere servente ed amante concesso ad ognuna da Satana, che giungevano in volo intorno ad un antico noce.

Col sangue tratto dalla mammella sinistra, ognuna facea voto di odio, adulterio, maleficio e omicidio, almeno una volta al mese”.
Un racconto di aurea gotica che prevedeva la presenza del diavolo in forma di caprone a promettere beni mondani a chi lo assecondasse nei suoi progetti malefici.

Siamo partiti dalla piccola piazza all'ingresso del borgo a poco più di ottocento metri di altitudine e, fiancheggiando una piccola edicola votiva, ci siamo portati su di un ampio tracciato, dove non s’incontra anima viva.

C’è, davanti a noi una piccola cappella, icona del buon viaggio.
È quanto di più poetico possa esistere.

La tradizione popolare ricorda che l’immagine santa serviva a proteggere i viandanti dalle forze del male che vagavano senza posa.
Sul futuro di tutte queste impronte mistiche non gravano solo le avversità meteorologiche ma, soprattutto, incuria e vandalismo.
 Ricordo che su un pilone sacro, nelle Dolomiti del Brenta sul lago di Molveno, lì dove c’era una impolverata Addolorata, chiamata la Madonna del Dito perché dal mantello azzurro drappeggiato sul petto spunta la punta del pollice, lessi una scritta inquietante: ”oh passeggero, ferma il passo, guarda il passo, oh che passo, l’ultimo passo”.

C’è ovunque, anche in posti sperduti, un patrimonio di religiosità popolare impossibile da catalogare con un numero incalcolabile di edicole, nicchie e crocicchi. David Maria Turoldo, poeta e frate dei Servi di Maria, scomparso nel ’92 descriveva così questa devozione di strada: “povere immagini opere di anonimi artisti che per me sono amabili al pari di Giotto e Cimabue…”.
(continua)


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Per raggiungere Piano Vomano si percorre la S.S. 80 Teramo L'Aquila fino al bivio per Senarica – Piano Vomano; qui si gira a destra e dapprima si scende. 
Poi ci si inerpica e si attraversa il centro abitato di Senarica prima di arrivare nel suggestivo borgo.