venerdì 16 gennaio 2015

" Da pericule, male e lambe, Sant'Andonie ce ne scampe

Per le foto si ringraziano Annunziata Taraschi e Eriko Lorinczi. Grazie all’associazione “Li Sandandonijre”

Guardate i video:
www.youtube.com/watch?v=XwoTugfbSzc
www.youtube.com/watch?v=hLI2PO3il-Y

Da quasi vent’anni la ricorrenza della festa di S.Antonio Abate, anima l’antico borgo di Cermignano, nella valle del Fino. Anche quest’anno tra canti e “cillitt”, gli uccelletti, il dolce tipico con il cuore di marmellata, si consuma un rito ancestrale di profonda devozione.

A Teramo, cani, gatti, uccellini e criceti animeranno la zona antistante l'ex manicomio per ricevere la tradizionale benedizione in occasione della festa di sabato. Prima, ore 11,00, nella chiesa di Sant'Antonio, tanti teramani, accompagnati dai loro amici animali, assisteranno alla messa .


Arrivano alla chetichella.
Prima uno, vestito alla contadina con cappellaccio nero in testa. Qualche minuto, dopo la lunga barba nera, lo sguardo vivo di un altro con tanto di tamburelli.
Mi guarda come se avesse di fronte l’ultimo degli ignoranti, poi informa che si tratta de “li ciuciombrë” altro che tamburelli!

Sfilano davanti ai miei occhi una teoria di attrezzi indecifrabili che dovrebbero cacciar fuori melodie.

Gianfranco Spitilli, conosciuto teramano custode di antiche tradizioni, vestito con l’immancabile saio francescano del santo anacoreta, mi descrive cosa sfila davanti ai miei occhi:
“lu tracaje”, strumento a percussione particolarmente arcaico, presente nelle più lontane culture, la cui origine è strettamente legata alla funzione sonora, un tempo usato come spaventapasseri;
“la checoccë”, zucca essiccata;
l”u ttivule’ttavule”, strumento ritmico ottenuto da una tavola per lavare i panni, sfregata con un pezzo di legno;
“lu battafochë”, tamburo a frizione, formato da una canna di fiume innestata su di una pelle tesa con sotto a fare da cassa di risonanza, una piccola botte.
Infine, come da copione, l’immancabile “ddu bbottë” a due bassi, lo strumento più caratteristico di questa nostra parte dell’Abruzzo.
L’organetto è in ottima compagnia tra chitarre, fisarmonica e campanaccio, elemento insostituibile dei canti di questua di S.Antonio.

Gianfranco mi parla di questo gruppo un po’ particolare: “Li Sandandonijre”. 
Suonano da oltre un quindicennio nei contesti più differenti- mi dice con entusiasmo- festival del folklore, feste di paese, serenate e matrimoni, manifestazioni culturali, rassegne, convegni, sagre.
La formazione musicale va da un minimo di 2 a un massimo di 14 elementi, a seconda delle necessità, dei contesti e delle disponibilità, presentando un repertorio vasto e in continua evoluzione, soprattutto grazie alla frequentazione dei tanti suonatori tradizionali presenti nella zona di Penna S. Andrea”.

Sant'Antonio Abate, il patriarca del monachesimo orientale, egiziano del III secolo, è venerato come non mai in tutto Abruzzo.

La figura del santo asceta richiama a infinite simbologie e fa da sfondo a tanti riti e usanze agresti.


Non potrebbe essere altrimenti per l’abate protettore degli animali, vista l’importanza nel mondo rurale rivestita dalle bestie da soma e da latte, dalle pecore al maiale, i beni più preziosi per le famiglie contadine.
Ancora oggi in piccoli paesi si assiste alla benedizione degli animali radunati davanti la chiesa e si accendono cataste di legno.
Il fuoco ricorda quando il vecchio eremita, secondo la tradizione, discese negli inferi tornandovi indietro col suo bastone ardente per donare al mondo il fuoco purificatore della pace. La fiamma simboleggia il passaggio dall'inverno alla prossima primavera.
Resistono ancora i canti burleschi e irriverenti dei questuanti rievocanti le tentazioni subite dal santo.
Oggi i cantori sembrano aver perso il potere di sorprendere.

L’associazione culturale de “Li Sandandonijre” cerca di non far morire questa bella tradizione.
Un tempo i cantori giravano orgogliosi per le campagne, portando sul dorso di un’asina, assicurata con due corde, un’urna di vetro nella quale era collocata l’effige del santo con la barba fluente e il suo maialino.
Oltre ai canti essi raccontavano i miracoli e le guarigioni del bestiame avvenute in luoghi vicini e altre cose prodigiose che sarebbero state ottenute in virtù di quella immagine sacra.

L’allegra combriccola portava con sé dei piccoli animali, porcellini, papere, o cani che, a loro dire, erano stati oggetto di guarigione prodigiosa.

E che dire dell’usanza, completamente scomparsa, di benedire in piazza davanti alla statua del santo, i cavalli usati dai medici condotti dei paesi vicini?

Questi quadrupedi rivestivano importanza vitale per tutti.
I “cerusici da scavalco” come erano definiti gli antenati dei moderni medici di famiglia, andavano a visitare i malati con il carretto trainato dai cavalli, sia sotto il caldo cocente del sole di agosto o la neve copiosa di gennaio, dall'alba al tramonto.
Con i riti del “S. Antonio” proliferavano anche i “guaritori” che, con il grasso di maiale, curavano l’ergotismo, malattia cutanea molto diffusa tra gli abitanti della campagna conosciuta, appunto, come “lu foche de Sant’Antonio”.

La tradizione, incredibile a dirsi, vive ancora nella società rurale delle nostre campagne, tra modi diversi di intendere l’esistenza contadina tra galline, papere e…parabole satellitari.

Ricordo una stupenda opera di una pittrice della Valle Siciliana nota a tutti, Anita Scipioni.

Nella sua tela in stile naif è raffigurato il “Canto del Sant’Antonio” con una fantasia e una facoltà narrativa meravigliosa.
Il paesaggio invernale tra neve e alberi spogli, si lega mirabilmente all'aggressività allegra e spensierata di un gruppo di sei persone, dove alcuni portano il sacchetto con i doni ricevuti, noci, fichi secchi, nocciole, qualche uova poche salsicce, altri suonano il campanello e il cantante con pantaloni accorciati e camicia sbottonata nonostante il freddo, quasi sbanda in preda all'alcool ingerito nelle varie “visite” fatte ai casolari.

Ecco, parte della nostra storia è tutta in quel dipinto!

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