sabato 26 dicembre 2015

Alziamo il capo verso il nostro Signore!

“Signore, verso l’ora del tramonto sento sempre più viva la tua vicinanza a rassicurare il mio cuore che trema al pensiero dell’ultimo addio alla vita” (Preghiera di Teresa Minguzzi)

Quando, domenica 13 dicembre 2015, le mani di Padre Candido premevano sui legni della Porta Santa della Madonna delle Grazie di Teramo e i battenti si sono schiusi, la sagoma in controluce del "Guardiano del santuario" a braccia spalancate, bucava la penombra nella quale era immersa la chiesa.
E'stato un momento irripetibile ed emozionante.
Il frate proclamava la preghiera del Giubileo "per la tua grande misericordia entrerò nella tua casa, Signore" e il coro, accompagnato dalla chitarra cantava tra la gioia di tutti: "Svegliati o Sion scuoti la polvere, alzati, leva al cielo i tuoi occhi".
In quell'attimo meraviglioso ho riflettuto a quanti di noi non alzano mai lo sguardo verso il cielo.

Io lo faccio sin da piccolo.
Alle elementari ero rimasto affascinato dal Pascoli.
Nelle sue poesie veniva descritto frequentemente il cielo, che assumeva sempre significati connotativi profondi. Il poeta guardava spesso alle notti stellate.
Come dimenticare "X Agosto", la poesia che scrisse per ricordare il papà Ruggiero, ucciso da un colpo di fucile di uno sconosciuto, proprio nella notte agostana in cui cadevano luminosi frammenti di meteore?

Anch'io alzai gli occhi, una notte chiara dell'11 agosto, durante le "lacrime di San Lorenzo".
Il cielo era limpido senza nubi e foschia.
Mi parve che la costellazione di Orione dovesse precipitarmi sulla testa. E poco importò che il fenomeno fosse in ritardo di ventiquattro ore e che non avevo certezza di cosa avessi sopra il capo!
Sin da bambino sognavo di fare l’astronauta.
Fui certo di doverlo fare quando nel 1968, a dieci anni, rimasi a bocca aperta mentre la tv mostrava le trionfali immagini del primo uomo scendere sulla luna e passeggiare come si fa di sera sul corso di Teramo.
Una rivoluzione epocale.
Iniziai a cercare di individuare la Stella Polare che non doveva essere molto distante dal Piccolo e dal Grande Carro. Continuai, chiedendomi quale nome avesse la stella timone che indirizzava i medesimi Carri verso una meta indefinita della galassia.
La mia insegnante di allora ci mise del suo e preparò per tutti noi ragazzi, dei vetri affumicati per goderci l’eclissi totale di sole che a me parve un bizzarro quanto affascinante spettacolo.
Da allora cominciai ad alzare gli occhi al cielo e non smisi più. Ogni sera, per anni, ho sollevato la testa, sognando di riuscire a scorgere il corpo celeste più lontano dalla terra e visibile a occhio nudo, la mitica Nebulosa di Andromeda.
La sua pallida luce fluorescente, la sua forma di lenticchia allungata ha milioni di anni ma io l’ho potuta vedere solo in uno splendido documentario.

Alzare gli occhi al cielo: è una pratica inusuale oggi.
Pochi vanno in giro a naso in su. Molti si tengono stretto questo pezzo di terra su cui poggiano i piedi, convinti, forse, che non dovranno così mai lasciarlo.
E si perdono il meglio!
A volte dal balcone di casa non è sufficiente lo spicchio di cielo sopra la testa per scorgere la vita silenziosa che anima il “coperchio del mondo”. E allora me ne vado in collina e scopro visioni mozzafiato, inaspettate.
Che libidine pensare a cosa c’è sopra di noi, stupendo immaginare che a decine di miliardi di anni luce esistono galassie sperdute nell’immenso.
Come non credere alla presenza di un “Divino Architetto” che cammina lungo questi interminabili sentieri celesti e cerca di incontrarci sulla questa terra che l’uomo calca da due miliardi di anni?

Una sera di molti anni fa, in direzione sud ovest, oltre il Gran Sasso, il cielo si illuminò di bagliori a intermittenza. Io ero lì a guardare questo spettacolo della natura.
Pareva di rivivere le scene apocalittiche dei film fantascientifici di Lucas. I toni erano sul giallo e l’arancione. Pensai a fuochi d’artificio sparati da posti distanti, feste di paese, show in onore di una patrona.
Davanti agli occhi avevo degli astri e non conoscevo il loro nome, dei bagliori e non sapevo cosa fossero. Pensai di individuare le Pleiadi, Cassiopea con la sua forma geometrica di parallelepipedo.
Era come tornare indietro di milioni di anni con una prodigiosa macchina del tempo capace di trasportare fino a diecimila secoli prima.
In seguito, documentandomi, scoprii che anche noi abbiamo, in versione ridotta, delle mini aurore boreali che rendono, seppur per pochi secondi, il cielo nero della notte, colorato dai mille toni pastello che solo il buon Dio sa usare.

Anche questa è contemplazione dell’Altissimo, credo.
Magari è di tipo speculativo, visto che risponde al desiderio di conoscere, ma nasce e trova origine nella brama dell’amore di Dio che incendia l’animo, che ti fa uscir di casa a ore insolite, per ammirare il creato.
Ho sempre invidiato i monaci di clausura per loro contemplazione perfetta, dono prezioso dell’Altissimo. Coloro che sono in grado di praticarla hanno un amore viscerale per il Signore e hanno sempre gli occhi rivolti al cielo.
Sono con Lui ogni attimo, vivono ai margini dell’infinita profondità divina e guardano Dio come lo sposo rapito dalla bellezza della sua sposa.
Essi sono, come disse un giorno un esegeta carmelitano, Padre Tomàs, “delle bocce pronte a rotolare dalla parte verso cui il Signore vorrà spingerle”.
Fateci caso, per il mondo sono svagati, strani, persi nei loro pensieri. Essi, al contrario, sono beati!

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