giovedì 7 febbraio 2013

Arsita: la terra del Bacucco!

“C’è un paese che non morirà mai. È quello dell’anima, della tua infanzia, delle facce dei paesani. È come avere un cielo più vicino; è il posto dove la brezza fa tremare l’erba”.

Queste semplici ma belle parole dello scrittore Ennio Flaiano, credo siano indicate per uno dei borghi più sperduti della provincia teramana.

Arsita è a quarantacinque chilometri dal capoluogo, a 470 metri di altitudine su di uno sperone alla destra dell’alto corso del fiume Fino.

Siamo nel versante orientale del Gran Sasso, alle pendici del monte Camicia.

La storia degli uomini spesso la scrivono le strade.
Sono queste che decidono se un paese deve fiorire o morire.

Questo villaggio di passo, che ha vissuto tempi d’oro quando, non lontano, si snodava la “via della lana e dell’oro”, che univa L’Aquila e molti paesi d’Abruzzo, alla città di Firenze, con cospicui scambi commerciali, oggi conta meno di mille anime, poco più di trecento famiglie con un’occupazione di circa il diciotto per cento degli abitanti, costretti a molta strada per raggiungere il posto di lavoro.

Numeri che fanno riflettere e che riportano alle epoche felici in cui era forte il legame tra le belanti greggi e l’Abruzzo, quando due su tre erano pastori.

In Abruzzo si censiva qualcosa come quattro milioni di ovini, cinque in epoca angioina.

Oltre duemila anni fa, il grande Catone ripeteva che, nei secoli successivi, la pastorizia avrebbe fatto la fortuna dell’Impero Romano. Sappiamo tutti come la storia lo abbia clamorosamente smentito.

Oggi il vello non ha più il valore di prima, le fibre sintetiche hanno preso il sopravvento.

Neanche il bosco rappresenta più la ricchezza.

E pensare che con il duro legno delle foreste, i bravi artigiani di queste parti, in passato, producevano delle bocce indistruttibili famose in tutt’Italia.
Arsita non ha dimenticato il suo passato, è rimasta la terra del “coatto”, il piatto transumante a base di pecora che prende il nome dal latino “coactus”, ristretto.

Dato che, i cafoni di “siloniana” memoria non ci sono più, si è pensato anche a rivitalizzare le presenze, oltre che con escursioni in alta montagna, anche con un singolare museo dedicato all’animale più temuto ma anche più affascinante, il lupo dagli occhi color ambra, simbolo del male, ma anche di forza e coraggio.

L’antica “Bacucco”, chiamata così in onore di Bacco, propone anche gli affascinanti resti di un castello del XVI secolo. Pochi monconi di pietra che trasudano, però, storia tra vicende di guerra, saghe familiari, tradimenti, amori.

Ombre di cavalieri, donzelle, nobildonne e soldati di ventura, paiono prendere vita lungo il crinale di “Cime della Rocca”.

Da non dimenticare la Madonna in Trono con Bimbo in terracotta, all’interno di uno dei santuari delle “Sette Marie Sorelle”, la devozione tradizionale dei semplici e degli umili che ritroviamo nel medio Vomano, lungo la valle del Castellano, del Vezzola e del Tordino.
Le molteplici raffigurazioni di un’unica Vergine che assicurava protezione alla dura vita delle popolazioni di montagna.

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