lunedì 29 aprile 2013

Luoghi comuni, emozioni uniche!

Che cosa possiamo raccontare per presentare degnamente la nostra terra a chi ha deciso di venirci in vacanza, investendo ferie e denaro?
Il teramano è pervaso da un clima di armonia che si riflette tanto nel cibo e nei vini, quanto nella qualità dell’accoglienza che in molti luoghi regala amicizia e simpatia.

Il nostro magazine vuole invitare i gentili ospiti in un ideale tour che può essere:
- sportivo, nel camminare a piedi, a cavallo o in mountain bike sui sentieri del Gran Sasso;
- artistico, per scoprire borghi d’insospettabile bellezza come Sant’Omero;
- storico per calcare le orme di antichi calzari attraverso quella che un tempo era la Via Metella;
- emozionante per scoprire luoghi dell’anima come Cesacastina nei monti della Laga;
- naturalistico, per vivere in sella alla fidata due ruote la Via delle Pinciaie, le case di terra,
- retaggio di un mondo contadino che non c’è più o il Corridoio verde dell’Adriatico;
- religioso, scoprendo il tesoro da non perdere, una delle più antiche chiese d’Abruzzo, Santa Maria a Vico, in mezzo a una rigogliosa campagna o S. Angelo in Abbamano.

Certo, ci sono luoghi che sono luoghi comuni, quelli raccontati con ovvietà dai turisti al ritorno a casa.
Ma in pochi posti in Italia, credo, si riesce a incontrare felicemente il popolo del mare e quello delle pianure e montagne.

Raggiungere, all’alba, il tetto degli Appennini, osservare opere d’arte e vivere il tramonto sul mare nello stesso giorno, da noi è possibile.
Luoghi comuni, sì, ma emozione unica.
Questa è la nostra terra, l’Abruzzo teramano!



Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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domenica 28 aprile 2013

Zaino in spalla: il perché del mio Cammino

Iniziai a macinare chilometri e chilometri perché un sacerdote a cui confessai non solo i peccati ma anche le pene, mi disse con voce solenne:
“Solvitur ambulando et ora”, risolvi i tuoi problemi camminando e pregando.

I miei conflitti interiori potevano acquietarsi in ogni tempo e stagione solo per sentieri fuori mano, immersi nei boschi e nel silenzio.

Così, ogni settimana quando, prima gli impegni scolastici e dopo quelli lavorativi me lo concedevano, a passo gagliardo marciavo nei miei pensieri, un metro dopo l’altro con ogni tempo e stagione.

Guadagnavo crinali, m’infilavo come un tordo nelle macchie fitte di ginestre e papaveri, mi riparavo nei tunnel vegetali di selve di querce.
Affrontavo cammini dirupati, mulattiere sgangherate, sentieri coperti dai rovi dal difficile orientamento, il tutto per vivere il mio “spaziamento” e dimenticare chi non avrei mai potuto dimenticare.

Ovunque andavo raccoglievo un sasso, strofinavo la terra sopra e lo facevo scivolare nella tasca dei calzoncini in cordura.
Lo portavo a casa come trofeo di una guerra!
In pochi anni il fondaco di casa si riempì di ciottoli e io piantavo nell’animo bandierine virtuali di luoghi esplorati.

Ne ho fatti d’incontri nelle migliaia e migliaia di chilometri percorsi.

Ho visto infinite volte le ombre bianche delle greggi al pascolo sulle distese erbose, i colori grigi delle giubbe dei pastori dall’aria sempre malinconica, i vestiti lordi di verde dei contadini piegati a buttar sudore sulla terra.

Ho incrociato volti radiosi, sorrisi coinvolgenti, sguardi fiduciosi ma anche tanto dolore, tanta miseria attraverso storie di vite difficili.

Ho battuto pianure e montagne, sempre alla ricerca di luoghi dove fuggire dal mondo.
Quasi sorprendendomi, mi sono accorto della passione di condividere la vita della gente di qualsiasi posto che giaceva nel fondo di me, in attesa di prendere luce.

Eppure non doveva essere difficile da capirlo.
Già anni prima mi divertivo a seguire, sulle cartine, i percorsi che immaginavo di fare.

Con i soldi della paghetta che mamma mi elargiva a ogni suo stipendio, acquistavo libri di uomini che raccontavano i loro “Cammini” e ammiravo l’elogio della lentezza, il silenzio delle anime e l’inutilità dei bagagli per coloro che, pellegrini nel mondo, si affidano alla bontà di chi li accoglie.

Mentre i miei coetanei sognavano di diventare un calciatore famoso, un attore importante, io mi vedevo come un Romualdo, piccolo monaco che girò per lunghi anni, prima di fondare il magnifico eremo di Camaldoli.

Sono seguiti indimenticabili stagioni di Club Alpino Italiano dove ho imparato che l’andar per monti in compagnia di amici, accomunati da identica passione, è bello almeno quanto lo star soli.

Ho vissuto lunghi mesi di scoperta, tra percorsi abbandonati dai rovi, vecchi tracciati in disuso utilizzati da carbonai, piste dove per un nonnulla ti perdevi.

Tante ascese, altrettanti trekking che, in diverse situazioni, mi hanno fatto provare la sensazione di non capire più dove si andava, un paio di volte anche di perdermi per fortuna non da solo, tornando a casa a tarda notte quando già stavano per chiamare il soccorso alpino.

Spesso ho perso i segnavia di un percorso, perché con altimetro e bussola non ho mai avuto ottime relazioni, altrettante volte ho spiegato la mia Kompass, sgomento a ogni passo, interrogando i disegni senza aver risposte, alla ricerca del profilo scuro di un borgo.
Infinite volte ho messo alla prova muscoli e carattere, attraversando torrenti, sopportando pioggia e solleone.
Ma non mi sono mai pentito neanche di un centimetro percorso, né di un minuto perso.

A volte sono riuscito anche diventare parte di un bosco, a parlare con un vecchio e frondoso tasso, a sentirmi tutt’uno con la natura mentre camminavo magari senza meta, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni.

Ho vissuto in due mondi diversi per lungo tempo: uno, preponderante fatto di giorni sempre uguali e persone diverse ad affollare uno sportello dell’amministrazione fiscale per chiedere informazioni, sgravi di cartelle esattoriali o per urlare il loro disappunto per le tasse canaglie;
l’altro, il mondo del tempo limitato, fatto di montagna solitaria, di mare d’inverno, di profumo di prati e di voci umili.

Anche oggi lo zaino è sempre pronto!

sabato 27 aprile 2013

Il fantasma di pietra torna a vivere

Il vecchio camion ansima arrancando verso Roccacaramanico, nel cuore selvaggio del Parco della Majella, tra Santa Eufemia e il distretto del benessere di Caramanico Terme.

Viene rincorso da un nugolo di candidi cani, inflessibili guardiani del gregge venuto giù dagli stazzi di Passo San Leonardo, pochi chilometri dalla conca peligna di Sulmona.

La storia di questo borgo medioevale, posto alle pendici del Morrone in uno scenario fiabesco, parte dall'anno 875, data di fondazione del monastero di Casauria tra i possedimenti della badia e passa attraverso innumerevoli dominazioni, data la sua posizione strategica sulla valle dell’Orta.

La piccola casa è deliziosa, circondata di gran verde.
Marino, settanta e passa anni vissuti da pastore, ha le sue radici profondamente avvinghiate a questa terra.
Oggi zappa un orticello e cura due o tre arnie piene di api.
 Tocco la corteccia delle sue mani e la stretta è così forte da tramortirmi.

Tutto intorno gli uccelli sparano trilli fenomenali. 
“Sono sindaco, vice sindaco e assessore alla cultura”- ride, alludendo al fatto che in questo paese ad abitarvi per tutto l’anno sono in sei: lui, la moglie, un'altra coppia di piccoli imprenditori di bad e breakfast, un pastore e Luciano che di mestiere fa il cuoco.

Dopo l'abbandono degli anni 70, oggi si è sviluppato il fenomeno di nuove presenze durante il fine settimana e la stagione estiva.
Sono nuclei familiari che recuperano abitazioni destinate alla rovina, favorendo la nuova vita del paese.

E’ sorto un museo etnografico, frutto dell’iniziativa del Comune di Sant’Eufemia a Maiella, l’Associazione Roccacaramanico e dello storico Marcello De Giovanni: attrezzi, strumenti, documenti, fotografie, costumi, oggetti di uso quotidiano.
Ora attende restauro la cinquecentesca parrocchiale di Santa Maria delle Grazie sulla sommità del paese.
Lì, nel 1964, Marino sposò la signora Marianna e quella festa di nozze fu l’ultima nel borgo.
Guardo le piante e i fiori.
Quassù hanno un colore più deciso.

Fiorisce il rosmarino, incredibilmente sulla roccia, le cicorie sono lunghe e appuntite e Marianna ha raccolto l’occorrente per il suo decotto serale di malva.

“Voi in città neanche immaginate cosa riescano a ripulire nell’intestino queste foglie”.

Sporge da un fascio verde che quasi le copre il viso.

Con lo sguardo indica le arnie e sentenzia: “le api muoiono, le regine perdono il pungiglioneper l’inquinamento. E pensa che da noi l’aria è ancora buona. Figurati che si respira a Pescara o nella tua Teramo”.

Nel 1968 il mitico colonnello Bernacca, calcolò che, in 24 ore, in questo sperduto paese caddero oltre 350 centimetri di neve, polverizzando il record di precipitazioni bianche che apparteneva a Saint Luke negli U.S.A.
Oggi nevicate del genere non ce ne sono più anche se i fiocchi bianchi, ogni tanto, fanno capolino d’inverno.

La natura impazzisce.
Le zecche quasi non ci sono più, i funghi sono merce rara, le vipere proliferano a migliaia per il troppo caldo.

”Anche i cinghiali sembrano impazziti- dice Marino- distruggono tutto con una forza incredibile. Abbattono anche i muretti a secco di pietra e addio ai campetti di patate”.

In lontananza la grande distesa di faggi della riserva “Lama Bianca”riempie il cuore di struggente tenerezza.
 Questa è la montagna madre come nemmeno te la immagini.

Roccacaramanico si raggiunge dall’autostrada Pescara Roma, uscita Scafa , S.S. 487.


A Montepagano: Quando la storia fa spettacolo!


Le campane della torre della parrocchiale chiamano al rosario.
Il suono scende come pioggia sul paesaggio.

Le vecchine compaiono in piazza e si recano in chiesa.
 La bellezza del borgo antico produce l’incanto più profondo.

Dire che qui tutto è rimasto come un tempo è forse un azzardo retorico ma non certo una bugia. Montepagano è un paese tutto da vivere.

La Roseto tentacolare ha arrestato la sua espansione selvaggia nella parte finale delle colline sovrastate dal borgo antico che gode, ancora oggi, di una relativa tranquillità.

La campagna aperta lambisce il centro turistico delle rose, alcuni cascinali sparsi tra i campi resistono tenacemente, come manciata di grano gettata dal seminatore e, di quando in quando, qualche filare ombreggia un fosso.

E’ in questa piccola cornice che si trova l’interessante Museo della Cultura Materiale, uno degli oltre quattromila sparsi in ogni parte della penisola che rappresentano una risorsa preziosa in grado di indurre a guardare con occhi diversi il bello della nostra storia.

Dal 1987 questa importante istituzione, nata quasi per caso ad allacciare il filo della memoria con il vissuto paesano, ha il compito di ricercare le testimonianze materiali dell’uomo abruzzese e del suo ambiente, acquisendole, conservandole e comunicandole a tutti.

Nei locali espositivi, visitati mediamente da poco più di millecinquecento appassionati l’anno, troviamo una raccolta che comprende testimonianze della cultura agro-pastorale, dell’archeologia industriale, fino alle molteplici realtà del nostro territorio: cartoline d’amore, foto antiche, immaginette sacre, numismatica, mobili d’epoca della Valle del Fino, caratteristici costumi abruzzesi, strumenti musicali dei “bandisti” artigiani, raccolte di giornali e riviste antichissime e tanto materiale della devozione popolare.

Ancora oggetti poveri ma unici, arnesi da lavoro manuale, magari non eleganti ma robusti e ingegnosi, cimeli e libri che paiono vivere la loro seconda giovinezza fino ai giochi di quando eravamo bambini.

Tutto questo prezioso materiale è contenuto in ambienti ricostruiti fedelmente grazie alla passione di una vivace associazione, “Vecchio Borgo”, capitanata dalla vulcanica Anna Maria Rapagnà, fondatrice del museo assieme a tanti cittadini tra cui gli studiosi storici, Luigi Braccili e Mario Giunco.

Una miriade di segni antichi messi a testimonianza, come mucchietto di pietre lasciato in montagna per l’orientamento di chi passa.

E’ un pellegrinaggio nella civiltà contadina, scoperte improvvise di particolari mai o poco notati, che all’occhio del visitatore si rivelano poetici simboli di vita.

Solo visitando questa fantastica esposizione ci si può rendere conto dell’inestimabile patrimonio culturale ed etnografico che esso rappresenta.

In ognuno di questi oggetti c’è una parte di noi, un’impronta che il museo aiuta a riscoprire, a ricordare, ad approfondire.
È la firma lasciataci dai nostri nonni che seppero creare manufatti di costume, autentica poesia della nostra esistenza.

Per info: Tel.: 085-8936053

Qui Teramo, Canada


Deliziosa la faccia sorridente di Paola Chiarini che la mia web cam rimanda, dal Canada.
Potenza della tecnologia che fa diventare piccolo il globo.
Nel paese delle “giubbe rosse”, è il presidente, guarda caso, di un’associazione di oltre cento conterranei che si chiama Abruzzo Teramano.

"Certo - dice ridendo - ma noi il nome l’abbiamo scelto più di dieci anni fa.
Siete voi ad aver copiato".

Come ti sei trovata di là dall’oceano?
«Dopo il Liceo Scientifico a Teramo, mi sono iscritta all’Università di Roma e, con uno scambio studentesco, sono giunta a Toronto nel gennaio del '90.
La città mi accolse con una nevicata incredibile.
Gli spazi immensi, il verde della natura, l’ordine, accrescevano in me il desiderio di conoscere questo mondo nuovo.
Ottenni un permesso di lavoro e insegnai lingua italiana nelle scuole elementari di Toronto.

Mi ritrovai negli studi di Radio Chin /TV International che entra nelle case di trentatré comunità etniche con programmi nelle lingue di appartenenza.
Iniziai creando spot pubblicitari, arrivai davanti ai microfoni conducendo sei ore di programma pomeridiano dal vivo ogni giorno.
Nel frattempo accumulavo esperienze musicali come organista e direttrice di coro della “Royal Opera”".

Dal tono si intusce un pizzico di nostalgia.

"Teramo conserva tanto di me.
Vorrei passeggiare nei suoi vicoletti, rivedere l’Istituto musicale Braga o la sede della Corale G. Verdi dove ho cantato, la Cattedrale dove ho diretto il Coro Interparrocchiale.
Il mio sogno è ritrovarmi a Teramo per la processione del venerdì Santo, rivedere la fontana di piazza Garibaldi, dove da bambina zampillava l’acqua e i giardinieri mettevano vasetti di fiori con la data del giorno".

Glielo dite voi a Paola che oggi, al posto di quella fontana storica, c’è l’Ipogeo?



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giovedì 25 aprile 2013

Un miracolo della Resistenza


Un avvenimento della resistenza teramana rievocato dallo storico Giovanni Di Giannatale, studioso della spiritualità del santo dei giovani.


Il 25 aprile è una data patrimonio di tutti, ancor più per l’Abruzzo teramano che ha vissuto con dolore, tra il 1941 e il ‘44, innumerevoli stragi di civili inermi.

La festa della Liberazione è un appuntamento di condivisione dei valori della democrazia al di là delle ideologie perché il fascismo e l’antifascismo - come dice lo scrittore Marcello Veneziani - sono morti insieme.

Grazie al professore Giovanni Di Giannatale conosciuto storico teramano e studioso della spiritualità passionista, rievochiamo un episodio che fa scoprire una Resistenza più nascosta e umile, non riconducibile a parti politiche ma animata dai valori della solidarietà.
Una storia in odore di miracolo per il santo tanto amato dai giovani!

Verso la fine del maggio 1940 – racconta Di Giannatale – prima che l’Italia dichiarasse guerra all’Inghilterra e alla Francia, si presentarono nel ritiro
dei Passionisti di Isola, l’Ispettore della Polizia generale di Teramo, Roberto Falcone, il Questore, Innocenzo Aloisi, e funzionari della Prefettura, per chiedere
spazi adatti ad ospitare internati politici ebrei e successivamente cinesi.

I deportati ebbero come cappellano Padre Antonio Tchang Chan - I, dei Minori conventuali, inviato dalla Santa Sede nel maggio del ‘41 per assistere spiritualmente dei prigionieri di guerra.
Grazie all’opera del religioso si convertirono al cattolicesimo tre ebrei e ottantadue cinesi, quaranta dei quali battezzati solennemente il 4/08/1941 nel Santuario di S. Gabriele.

Padre Antonio continuò il suo apostolato, sostenuto anche dai passionisti, che apprezzavano le sue iniziative religiose e umanitarie.
Il clima di serenità che regnava nel ritiro, pur sotto la sorveglianza dei Carabinieri, fu interrotto in occasione dell’armistizio dell’8 settembre dal generale Badoglio e dagli Alleati, armistizio che segnò il passaggio italiano agli anglo-americani, contro la Germania.

Molti prigionieri inglesi, fuggiti dai campi di concentramento della provincia, giunsero nella Valle Siciliana, a Tossicia, Colledara e Isola, chiedendo
aiuto ai Passionisti.
Per circa un mese, il religioso aiutò molti di loro senza che i tedeschi si accorgessero di nulla.
La delazione di qualcuno fornì informazioni ai militari che lo arrestarono nel novembre del 1943.

La sentenza di morte fu emessa il 3 giugno 1944.

Quando l’uomo fu davanti al plotone di esecuzione, nel cortile del campo di concentramento di Avezzano, alcuni aerei inglesi iniziarono a bombardare, costringendo i militari a scappare di fronte alle bombe che piovevano dal cielo. Padre Tchang, che, rassegnato, aveva raccomandato l’anima a Dio, approfittò della
confusione e fuggì.

Egli attribuì la salvezza ad una grazia di San Gabriele, che aveva pregato ardentemente davanti al plotone di esecuzione.
Lo raccontò egli stesso ai passionisti quando, nell’estate del 1944, tornò nel Santuario per ringraziare il santo che gli aveva salvato la vita e che – aggiungeva pieno di devota gratitudine – aveva operato per suscitare la conversione di ebrei e cinesi.

Dal volume San Gabriele dell’Addolorata. Studi e ricerche [ cap. XII, pr. 11°] in corso di stampa.



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mercoledì 24 aprile 2013

Tra gli insoliti scenari della ciclo ippovia del Parco dei Calanchi.

(Grazie all'amico, grande professionista Sergio Pancaldi che mi ha fornito le due foto dei cavalieri.)


Contro il cielo, le sagome dei dirupi di creste nude destano meraviglia.
Il sole primaverile è caldo.
 I cavalli, leggeri, eleganti, avanzano lenti con sinuoso incedere sul manto erboso, quasi paciosi.
Uno dei cavalieri afferra una piantina di liquirizia e me la porge invitandomi a succhiare.

L’itinerario procede tra voli di piccoli rapaci, canne che frusciano al vento e dolci pianori invitanti denudati da secoli di pascolo.

Oggi probabilmente è la giornata in cui l’uomo si ricongiunge alla natura.

Come uno scenario immutato da secoli, le bolge da inferno dantesco disegnano la genesi dei paesaggi argillosi, avvinghiandosi alla vegetazione a fondo valle e convivendo a fatica con il lavoro e gli interessi dell’uomo.

Ai lati, sovente, si aprono ampi burroni con ripidi versanti spogli che di colpo si colorano grazie a piante di carciofi selvatici, ginestre, biancospini e rose canine.

I calanchi, aspri e maestosi, appaiono in tutta la loro potenza, impercorribili e indomabili.

La sensazione di libertà che il cavallo sa dare, ben si concilia con queste colline dolci, rigate da campi di erba medica, che d’improvviso paiono comprimere il senso dello spazio, rivelando paesaggi disegnati dal rasoio brutale dell’uomo.

La Riserva naturale regionale dei calanchi di Atri si è dotata da ormai due anni, di una straordinaria e naturale arteria di collegamento del territorio, una ciclo ippovia, che dà la possibilità di vivere in assoluta tranquillità le meraviglie di un territorio dove la potenza trionfante della natura è parte essenziale della grandezza del creato.

Il sentiero di poco meno trenta chilometri, è stato inaugurato lo scorso anno, grazie ad una collaborazione del WWF e l’azienda agricola Caldirola che l’ha finanziata.

Il tracciato assicura il piacere dell’emozione e della scoperta tra panorami sempre mutanti, è interamente guidato, con pannelli didattici pensati per valorizzare e far conoscere la flora e la fauna del territorio, le formazioni geologiche, i fossili, l’archeologia e i prodotti delle aziende agricole presenti in Riserva.

E’ un itinerario di straordinaria armonia, ci fa sapere Adriano De Ascentiis, Direttore del parco, adatto sia all’endurance, sport equestre nel quale il binomio cavallo-cavaliere si fonde in prove di regolarità o velocità, ma anche a impavidi ciclisti in sella a mountain bike o attempati camminatori.

Il percorso si sviluppa fuori dalle direttrici più comuni e attende chi a piedi, in bici o a cavallo ha gli occhi curiosi di chi non uccide la meraviglia e vede le impronte digitali di Dio disseminate ovunque.

martedì 23 aprile 2013

La ricchezza dell'antica Interamnia!

Il Teatro Romano di Teramo, edificato in età augustea intorno 30 a.C., è decisamente il più interessante e meglio conservato tra i teatri del Piceno.

Testimonianza dell'importanza della città di Teramo, l'antica Interamnia, il monumento ha subito ripetute manomissioni e si presenta profondamente cambiato e non solo dal tempo passato, rispetto a come lo aveva concepito l'imperatore Adriano, che era nato nella vicina Atri, antica Hatria, da cui il nome.


L'antica città romana a Teramo si estendeva dall'attuale piazza Martiri della Libertà alla Madonna delle Grazie e da via Stazio a Torre Bruciata, circondata tutta da mura alte!

I resti del teatro sono a tre metri e mezzo sotto il piano stradale!

Guardando la foto ci si rende conto dell'ampiezza della struttura come poteva essere un tempo.

Il perimetro esterno era formato da venti arcate in travertino e si può immaginare, stando dentro, gli spettacoli che vi si tenevano!

La parte centrale con la sua esedra semicircolare, presenta ai lati spazi dove un tempo c'erano porte e scale da dove accedevano gli attori.

Girando all'interno, da un piccolo spiazzo, si notano benissimo i resti dell'anfiteatro, imponente ed ellittico che si trova veramente a ridosso del teatro.

La grande struttura è risalente alla seconda metà del I secolo d.C. e fu gravemente danneggiata dalla costruzione della vicina Cattedrale dedicata al Patrono della città,il vescovo San Berardo.

 Come la gran parte dei teatri, in Italia, anche il monumento aprutino ha subito vili saccheggi, soprattutto nel buio Medioevo.

Ma questo autentico tempio dell'arte, ha conservato la suggestione del tempo.

Lo stesso vate, Gabriele D'Annunzio scrisse la frase rimasta alla storia: "La ruina del teatro d'Interamnia testimonia romanamente l'antica grandezza"

lunedì 22 aprile 2013

Nel bosco dei giganti!

Dedicato a quella simpatica bestiola che è la volpe, oggi sotto assedio da chi vorrebbe si estinguesse!

L’uomo dagli occhi cerulei porta con sé l’ascia affilata.
Intorno a lui il bosco freme, non è chiaro se per i colpi del vento o per il terrore di essere attaccato da una lama tagliente.
Se qualcuno è convinto che gli alberi non abbiano anima qui sicuramente potrebbe ricredersi.

La foresta Martese vibra sparando una sorta di nota bassa e continua.
Tra i nodosi tronchi s’insinua il primo sole, mentre il vento corre veloce in mezzo ai rami.
La faggeta è costeggiata da fitti filari di alberi secolari.
Ovunque resistono macchie bianche di neve fuori stagione.

Dovremmo essere qui pronti a salutare signora Primavera, accorciando maniche e braghe e invece la giacca in gore tex la fa ancora da padrone.
Non è ora di esporre lembi di pelle bianca, la natura è come una donna capricciosa.

Sono nel cuore incantato dei monti della Laga.
Il centro abitato più vicino, la stazione turistica del Ceppo dista già sette chilometri.
Non mi pare vero essere riuscito a fuggire dagli ingorghi velenosi della città, dai clacson, leve del cambio in prima, seconda e folle.
Sono in un mondo parallelo!

Le cortecce paiono suonare mentre gli altri rumori scompaiono. Tace il picchio, avanza il silenzio tra i nidi dei tordi.
L’uomo mi fa cenno di appoggiare l’orecchio al tronco, mi sussurra di ascoltare, di esplorare il respiro del gigante verde che colloquia silenzioso con gli altri.

Poi, quasi a irridermi, mi domanda cosa possano raccontarsi dei rami che s’incontrano in alto, toccandosi in un inestricabile intreccio naturale.

Il grosso esemplare, è sicuramente una mia impressione, pare impossessarsi di me e, come una suite per violoncello di Bach, mi avvolge con un suono profondo e morbido nello stesso tempo.

Sì, mi dico, sicuramente mi sto lasciando suggestionare da questo strano individuo che mi accompagna, spostandosi come un folletto impazzito, di tronco in tronco, auscultando quasi fosse un dottore senza stetoscopio.

D’improvviso non mi chiedo più se è tutto frutto della mia fantasia.
Mi sento felice come non mai. Sono tornato bambino quando sognavo di essere un guardiano della natura.
Passo dopo passo, avvolti dall’ombrosa e silente foresta, guadagniamo la salita pensando di provare le stesse sensazioni dei nostri avi che erano carbonai, taglialegna o poveri viaggiatori e vivevano a stento del sottobosco e dei suoi tesori.

Il boscaiolo, maestro d’ascia, parla con uno degli alberi ma non mi pare possa essere definito pazzo o strano.
Segue le regole antiche del padre e, ancor prima del nonno.
Gente tosta di montagna quella, abituata ad abbracciare gli alberi per sentirne gli umori con la pancia e i polmoni.

Erano anime che sfidavano per una vita intera i rigori dell’inverno e sopportavano brevi estati di poco più di un mese l’anno.

Presto con le piogge d’agosto, a queste latitudini, torna il gelo che fa rimpiangere i denti aguzzi di un lupo e il primo refolo di vento porta di nuovo freddo nelle vene e nelle ossa.
Buon per loro, mi dice annuendo verso gli alberi, che i tempi sono cambiati.

I tanti fumi delle carbonaie, le ruote cerchiate dei carri che trasportavano lucidi tronchi dritti come fusi per filare lana e miseramente abbattuti, sono solo un lontano ricordo.
Oggi i boschi di faggio, castagno, abete, sono tutelati, coccolati, apprezzati anche qui nell’Italia centrale e nel cuore degli Appennini.
L’idea che pareva bislacca, è nata per caso una sera di polenta e bicchieri.

Mario, è questo il nome di chi mi accompagna, non si stancava di ripetermi come un mantra che le tante volte in cui avevo attraversato il bosco Martese dedicato al dio della guerra, non erano servite a sprofondare nell’anima di questo luogo.

Io a dirgli che conoscevo come la mia città, tutti gli anfratti di quel posto magico, compresa la storia che qui ha scritto pagine immortali della Resistenza Italiana e lui a sfidarmi a suon di venature di alberi.

Io a ripetergli di essermi recato mille volte alla cascata della Morricana, lui a continuare a ridacchiare dicendo che non saprei neanche da dove nasce quell’incredibile zompo d’acqua!

I giganti verdi, quei faggi maestosi, mi diceva con aria greve e col boccone in masticazione, hanno il diavolo in corpo e, per chi come te crede in Dio, sarà una bella lotta.

E ora siamo qui dopo aver camminato per circa un’ora nel fitto del grande bosco, sospesi in attesa di qualcosa che ci stordisca.
I raggi colorati del sole che fatica a entrare nel fitto della selva, sono mortificati, quasi tumefatti dalle ombre fredde dei tronchi.

L’uomo, diceva un poeta arabo, è un gomitolo di bisogni, un fascio di desideri, un essere plasmato dall’attesa.
Il mio compagno di gita m’indica un grande tronco cavo, qualcosa di ampio, dove sarebbe possibile entrare con una bella donna e farci dentro l’amore avvinghiati come edera.
Mi ordina quasi di rannicchiarmi mentre lui rimane fermo e ritto.
Ed ecco che accade qualcosa d’inaspettato.

Un crack rimbomba spezzando il silenzio del bosco.
Una corteccia, lacerata per lungo come due labbra rinsecchite dall’arsura, si rompe e da un tronco cavo ecco uscire di colpo una fantastica volpe grigio topo.

L’animale, spaventato dalla nostra presenza, ha una gran fretta di fuggire.
Le sue zampe slittano furiosamente su di un ciuffo d’erba ancora innevato.

La corsa forsennata del piccolo abitante dei boschi lo rende simile a un personaggio dei cartoon.

Non faccio in tempo a scattare la foto.

La bestiola, terrorizzata, si dilegua nel fitto della selva ed è fantastico guardare la coda dritta e vaporosa diventare sempre più piccola.
Somiglia prodigiosamente al pennacchio di un antico e valoroso cavaliere.

Maledetta bestiaccia, esclama Mario, quella lì se la uccido mi ci pagano in paese.
Secondo l’uomo la volpe astutissima, da mesi come una formidabile predatrice mette a soqquadro i pollai dei paesi vicini una notte sì e l’altra pure.
Mi guardo bene dal dirgli che sono contento del fatto che la volpe riesca a sfuggire ai suoi assalitori.
Qui gli animali scompaiono giorno per giorno.
Faine, martore, in alcuni casi anche lupi, tutti ormai introvabili.

Con loro è andata via da tempo una meravigliosa fierezza atavica.
Tagliole, esche avvelenate, trappole con succulenti bocconi mortali, avversità atmosferiche hanno decimato la popolazione che vive nei boschi.
Io da numerosi anni faccio il tifo per loro.

Passo dopo passo finalmente riesco a stabilizzare il battito cardiaco.
Bastano pochi mesi di completa inattività per sentirsi degli straccetti inadeguati davanti a cammini neanche troppo impervi.
Ora l’uomo pare avere fretta per il ritorno.

Sarà il passo più spedito, la quota altimetrica che sale insieme alla mia pressione ballerina, o forse il profumo intenso della resina che penetra come lama nei miei polmoni, mi pare che il cuore voglia uscire dal suo bell’incavo nel mio petto.

Assorbo aria troppo pulita per i miei bronchi asfittici, poi è come se ingerissi metro per metro della mulattiera che abbiamo imboccato.
Ecco che, d’improvviso, si aprono i prati della distesa che porta all’inesistente Lago dell’Orso.
G
irandomi verso valle, in un solo e unico sguardo m’impossesso di mezzo mondo risalendo con gli occhi famelici fino a tutta la catena del Gran Sasso.
Contemplare lo spettacolo della natura che resiste alle diavolerie e scelleratezze dell’uomo dà ristoro all’anima.

Pacot Video: la vita delle immagini

"Le riprese video non necessitano di molte parole; esse stesse sono parole del vissuto"

Ecco la storia di un teramano, ragioniere in una tranquilla azienda manifatturiera.
Rincorreva un sogno: regalare momenti indimenticabili.

Un mattino del 1992, abbandonò aridi registri, calcolatrice e penna e brandì una telecamera, fluttuando tra matrimoni, comunioni, compleanni, recite scolastiche.

Nasceva la “Pacot Video” , una delle prime ditte di post produzione in Abruzzo, capostipite nel teramano.

Un’autentica fabbrica dei ricordi con filmati sempre originali, capaci di raccontare in modo brioso la storia unica di ogni evento da immortalare.

Perché, ditemi, cos’è l’atto creativo, se non un qualcosa che solo in quel momento ci avvicina a Dio?
Un nanosecondo irripetibile in cui l’arte si fonde con la passione e la perizia.

Forse esageriamo parlando di video.
Ma, in effetti, nelle occasioni che meritano di essere ricordate nel tempo attraverso immagini, ciò che conta è riuscire a beccare il momento che farà emozionare lo spettatore.

Nel tempo la storia si è arricchita di video istituzionali per enti, pubblicitari per aziende, docu- film storici sulla Resistenza teramana con un “riconoscimento alla carriera” nel Premio Internazionale Fotografia Cinematografica “Gianni Di Venanzo”.

Ancora, video sociali, culturali, filmati su convegni e manifestazioni di grande livello, collaborazioni con la tv locale Rete 8 e con il Parco Gran Sasso Monti della Laga.

Poi, nel dicembre 2009, la Pacot Video sale agli onori della cronaca nazionale per la realizzazione di uno scoop giornalistico conosciuto come "Il Fuori onda di Giancarlo Fini" con il magistrato Trifuoggi, che mise a rischio la tenuta del governo e che fece conoscere cosa veramente pensava il Presidente della Camera dell’allora capo del Governo Berlusconi.

Nel frattempo si è specializzata in lavori internet, diventando gestore e webmaster di siti e blog.

Noi ospitiamo Vincenzo soprattutto per la passione dimostrata al territorio, regalando video su borghi d’arte teramani, tra i quali Campli, Atri, Canzano, Castellalto, luoghi magici come Pietracamela e il Gran Sasso e la città di Teramo.



Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

Tutti gli articoli sono condivisi su Facebook nella bacheca di Sergio Scacchia e nella pagina "Il Mio Ararat" e su Google Plus.

Gli articoli sono inoltre pubblicati da Vincenzo Cicconi della PacotVideo , tra l'altro gestore di questo blog, su:
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sabato 20 aprile 2013

Scanno: dove la natura e il tempo danno spettacolo!

A cinquanta chilometri da Castel di Sangro e quaranta da Pescasseroli, al vertice di un triangolo d’itinerari di grande rilevanza turistica, sorge un luogo idilliaco.

Di là delle aspre gole dove, impetuoso, gorgoglia il Sagittario, incastonato tra montagne maestose e silenti, il lago appare al viaggiatore immerso in una pittoresca cornice che abbraccia lo sperone roccioso dove emerge l’antico e affascinante borgo di Scanno, una delle tante meraviglie d'Italia, non a caso presente nel lungo elenco dei "Borghi più Belli d'Italia".

E’ un fascino singolare quello che emana da questi luoghi.
Tutto parla di fantasie e immagini del passato.

Passeggiando per le anguste viuzze non è improbabile che all’improvviso balzi davanti agli occhi, la magnificenza di una donna anziana o di una bella bimba in costume tradizionale.

Di certo non mancherà colei la quale fila un tombolo davanti all’uscio di casa o il contadino che, dopo la fatica dei campi, si ferma a giocarsi un birillo di buon vino alla “morra” davanti l’antica cantina dalla volta a botte!

Non visitate il paese con la fretta di chi vuole scendere al lago per il classico picnic.

Regalatevi tempo per i particolari.

Vagate senza meta tra le case e i palazzi nobiliari.
Incrociate lo sguardo dei volti.


Poi alzate gli occhi e gustate le belle montagne di memoria dannunziana che fanno da sfondo regale al tutto.

Il monte Genzana, il balcone del valico del Carapale da dove, salendo, trovate una veduta splendida del lago, tutto è un affascinante preludio che porta, di là da Passo Govi, a uno dei più vecchi Parchi Nazionali d’Italia, quello d’Abruzzo, vero santuario della natura.

Leggende antiche si sovrappongono l’una sull’altra, aumentando l’alone di mistero che permea il luogo.

Storie millenarie raccontate da scrittori dell’ottocento, affermano che queste contrade furono originate da un primitivo ceppo orientale e che, per molti secoli, gli antenati dei feroci Saladini abbiano calcato questa terra.

Avvolto da mistero anche l’etimologia del nome.
Si dice che essendo il borgo adagiato su di un colle circondato da severe montagne, la tradizione fantasiosa degli anziani lo definì uno scranno, uno sgabello!

Non perdete la chiesa di Sant’Eustachio, patrono del paese, di là dell’arco medioevale sormontato dalla Torre Vecchia.

All’interno del luogo sacro c’è una bellissima statua della Madonna con il volto bruno del secolo XV e l’effige lignea del santo protettore del 1700.

Visitate anche la parrocchiale di Santa Maria a Valle con la sua facciata rinascimentale e il campanile di 35 metri del 1500.

L’interno a tre navate è in struttura romanica e contiene due pregevoli acquasantiere, il pulpito e i quattro confessionali di legno.


Le mogli vi costringeranno allo shopping sfrenato nelle gioiellerie, vista la tradizione orafa locale e nei negozi tradizionali, dove fanno bella mostra di sé i merletti a tombolo famosi nel mondo.

Nelle trattorie di Scanno il cibo è sublime.

Provate la ricotta del posto, semplicemente deliziosa e poi “sagne e fagioli”, i “cazzellitti con le foglie”, l’agnello locale e i dolcissimi mostaccioli.

Nel pomeriggio scendete al lago.
Noleggiate una bici e pedalate fino alla ridente Villalago.

Alzando gli occhi, tra faggi dalle radici aeree e tronchi massicci bizzarramente scolpiti, i boschi circostanti regaleranno benessere.

Raggiungete Scanno attraverso la statale 479 che collega Sulmona a Villetta Barrea, utilizzando l’autostrada A25, uscita Cocullo. 
Buona gita!

A Cesacastina "lu Jase Criste de lu colle"

Il restauro dell’antico crocifisso sul tratturo di Campotosto, nella cona votiva che proteggeva i transumanti nel loro cammino.

Non so se vi siete mai soffermati, camminando in montagna, davanti alle piccole cappelle, deliziose icone del buon viaggio, per una preghiera o, semplicemente,
per osservare e penetrare un pizzico dell’immensa devozione che anima gli abitanti
delle “terre alte”.

È quanto di più poetico possa esistere.

La tradizione popolare ricorda che l’immagine santa serviva a proteggere i viandanti dalle forze del male che vagavano senza posa.


Sulla conservazione di tutte queste impronte mistiche non gravano solo le avversità meteorologiche ma, soprattutto, incuria e vandalismo.

C’è ovunque un patrimonio di religiosità popolare impossibile da catalogare con un numero incalcolabile di edicole, nicchie e crocicchi.
David Maria Turoldo, frate dei Servi di Maria, scomparso nel ’92, descriveva così questa devozione di strada: "Povere immagini opere di anonimi artisti che per me sono amabili al pari di Giotto e Cimabue …".

A Cesacastina, nel cuore dei monti della Laga, c’è una di queste creazioni di arte e fede.
Una cona votiva dedicata al transumante che oggi richiama per lo più memorie infantili o statuine di presepe, ma che un tempo significava essere uomini percossi dalle lame acuminate del sole, tormentati dalle piogge.
I pastori attingevano forza fisica dalla devozione cristiana.

Proprio la scorsa estate, in ricordo di questi antichi carovanieri dell’angoscia è terminato il restauro del crocefisso de “lu Jase Criste de lu colle” tornato bello come non mai nel piccolo tabernacolo posto a fianco di un tratturo che arriva a Campotosto, attraverso il Colle di Mezzo.

Era, questo, il percorso delle greggi che, per recarsi ai pascoli romani, invadevano le strade come un fiume di lana, coprendo ogni spazio con i loro velli, tra i cani bianchi abbaianti e polvere sollevata, a sfumare il paesaggio come in un sogno.

La cona votiva di Cesacastina fu realizzata dall’agiata famiglia Baldassarre che commissionò il crocefisso a un falegname locale, Alfonso Vetuschi, alla fine del 1850, ricavandolo da pezzi diversi di legno assemblati tra loro in modo un po’ artigianale.

Lo stesso artista realizzò le due porte della chiesa seicentesca dei Santi Pietro e Paolo a forma di croce con il suo inconfondibile campanile a vela e a tre campane.



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