Dedicato a quella simpatica bestiola che è la volpe, oggi sotto assedio da chi vorrebbe si estinguesse!
L’uomo dagli occhi cerulei porta con sé l’ascia affilata.
Intorno a lui il bosco freme, non è chiaro se per i colpi del vento o per il terrore di essere attaccato da una lama tagliente.
Se qualcuno è convinto che gli alberi non abbiano anima qui sicuramente potrebbe ricredersi.
La foresta Martese vibra sparando una sorta di nota bassa e continua.
Tra i nodosi tronchi s’insinua il primo sole, mentre il vento corre veloce in mezzo ai rami.
La faggeta è costeggiata da fitti filari di alberi secolari.
Ovunque resistono macchie bianche di neve fuori stagione.
Dovremmo essere qui pronti a salutare signora Primavera, accorciando maniche e braghe e invece la giacca in gore tex la fa ancora da padrone.
Non è ora di esporre lembi di pelle bianca, la natura è come una donna capricciosa.
Sono nel cuore incantato dei monti della Laga.
Il centro abitato più vicino, la stazione turistica del Ceppo dista già sette chilometri.
Non mi pare vero essere riuscito a fuggire dagli ingorghi velenosi della città, dai clacson, leve del cambio in prima, seconda e folle.
Sono in un mondo parallelo!
Le cortecce paiono suonare mentre gli altri rumori scompaiono. Tace il picchio, avanza il silenzio tra i nidi dei tordi.
L’uomo mi fa cenno di appoggiare l’orecchio al tronco, mi sussurra di ascoltare, di esplorare il respiro del gigante verde che colloquia silenzioso con gli altri.
Poi, quasi a irridermi, mi domanda cosa possano raccontarsi dei rami che s’incontrano in alto, toccandosi in un inestricabile intreccio naturale.
Il grosso esemplare, è sicuramente una mia impressione, pare impossessarsi di me e, come una suite per violoncello di Bach, mi avvolge con un suono profondo e morbido nello stesso tempo.
Sì, mi dico, sicuramente mi sto lasciando suggestionare da questo strano individuo che mi accompagna, spostandosi come un folletto impazzito, di tronco in tronco, auscultando quasi fosse un dottore senza stetoscopio.
D’improvviso non mi chiedo più se è tutto frutto della mia fantasia.
Mi sento felice come non mai. Sono tornato bambino quando sognavo di essere un guardiano della natura.
Passo dopo passo, avvolti dall’ombrosa e silente foresta, guadagniamo la salita pensando di provare le stesse sensazioni dei nostri avi che erano carbonai, taglialegna o poveri viaggiatori e vivevano a stento del sottobosco e dei suoi tesori.
Il boscaiolo, maestro d’ascia, parla con uno degli alberi ma non mi pare possa essere definito pazzo o strano.
Segue le regole antiche del padre e, ancor prima del nonno.
Gente tosta di montagna quella, abituata ad abbracciare gli alberi per sentirne gli umori con la pancia e i polmoni.
Erano anime che sfidavano per una vita intera i rigori dell’inverno e sopportavano brevi estati di poco più di un mese l’anno.
Presto con le piogge d’agosto, a queste latitudini, torna il gelo che fa rimpiangere i denti aguzzi di un lupo e il primo refolo di vento porta di nuovo freddo nelle vene e nelle ossa.
Buon per loro, mi dice annuendo verso gli alberi, che i tempi sono cambiati.
I tanti fumi delle carbonaie, le ruote cerchiate dei carri che trasportavano lucidi tronchi dritti come fusi per filare lana e miseramente abbattuti, sono solo un lontano ricordo.
Oggi i boschi di faggio, castagno, abete, sono tutelati, coccolati, apprezzati anche qui nell’Italia centrale e nel cuore degli Appennini.
L’idea che pareva bislacca, è nata per caso una sera di polenta e bicchieri.
Mario, è questo il nome di chi mi accompagna, non si stancava di ripetermi come un mantra che le tante volte in cui avevo attraversato il bosco Martese dedicato al dio della guerra, non erano servite a sprofondare nell’anima di questo luogo.
Io a dirgli che conoscevo come la mia città, tutti gli anfratti di quel posto magico, compresa la storia che qui ha scritto pagine immortali della Resistenza Italiana e lui a sfidarmi a suon di venature di alberi.
Io a ripetergli di essermi recato mille volte alla cascata della Morricana, lui a continuare a ridacchiare dicendo che non saprei neanche da dove nasce quell’incredibile zompo d’acqua!
I giganti verdi, quei faggi maestosi, mi diceva con aria greve e col boccone in masticazione, hanno il diavolo in corpo e, per chi come te crede in Dio, sarà una bella lotta.
E ora siamo qui dopo aver camminato per circa un’ora nel fitto del grande bosco, sospesi in attesa di qualcosa che ci stordisca.
I raggi colorati del sole che fatica a entrare nel fitto della selva, sono mortificati, quasi tumefatti dalle ombre fredde dei tronchi.
L’uomo, diceva un poeta arabo, è un gomitolo di bisogni, un fascio di desideri, un essere plasmato dall’attesa.
Il mio compagno di gita m’indica un grande tronco cavo, qualcosa di ampio, dove sarebbe possibile entrare con una bella donna e farci dentro l’amore avvinghiati come edera.
Mi ordina quasi di rannicchiarmi mentre lui rimane fermo e ritto.
Ed ecco che accade qualcosa d’inaspettato.
Un crack rimbomba spezzando il silenzio del bosco.
Una corteccia, lacerata per lungo come due labbra rinsecchite dall’arsura, si rompe e da un tronco cavo ecco uscire di colpo una fantastica volpe grigio topo.
L’animale, spaventato dalla nostra presenza, ha una gran fretta di fuggire.
Le sue zampe slittano furiosamente su di un ciuffo d’erba ancora innevato.
La corsa forsennata del piccolo abitante dei boschi lo rende simile a un personaggio dei cartoon.
Non faccio in tempo a scattare la foto.
La bestiola, terrorizzata, si dilegua nel fitto della selva ed è fantastico guardare la coda dritta e vaporosa diventare sempre più piccola.
Somiglia prodigiosamente al pennacchio di un antico e valoroso cavaliere.
Maledetta bestiaccia, esclama Mario, quella lì se la uccido mi ci pagano in paese.
Secondo l’uomo la volpe astutissima, da mesi come una formidabile predatrice mette a soqquadro i pollai dei paesi vicini una notte sì e l’altra pure.
Mi guardo bene dal dirgli che sono contento del fatto che la volpe riesca a sfuggire ai suoi assalitori.
Qui gli animali scompaiono giorno per giorno.
Faine, martore, in alcuni casi anche lupi, tutti ormai introvabili.
Con loro è andata via da tempo una meravigliosa fierezza atavica.
Tagliole, esche avvelenate, trappole con succulenti bocconi mortali, avversità atmosferiche hanno decimato la popolazione che vive nei boschi.
Io da numerosi anni faccio il tifo per loro.
Passo dopo passo finalmente riesco a stabilizzare il battito cardiaco.
Bastano pochi mesi di completa inattività per sentirsi degli straccetti inadeguati davanti a cammini neanche troppo impervi.
Ora l’uomo pare avere fretta per il ritorno.
Sarà il passo più spedito, la quota altimetrica che sale insieme alla mia pressione ballerina, o forse il profumo intenso della resina che penetra come lama nei miei polmoni, mi pare che il cuore voglia uscire dal suo bell’incavo nel mio petto.
Assorbo aria troppo pulita per i miei bronchi asfittici, poi è come se ingerissi metro per metro della mulattiera che abbiamo imboccato.
Ecco che, d’improvviso, si aprono i prati della distesa che porta all’inesistente Lago dell’Orso.
G
irandomi verso valle, in un solo e unico sguardo m’impossesso di mezzo mondo risalendo con gli occhi famelici fino a tutta la catena del Gran Sasso.
Contemplare lo spettacolo della natura che resiste alle diavolerie e scelleratezze dell’uomo dà ristoro all’anima.