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martedì 30 luglio 2013

Il dominio della natura: La costa dei Trabocchi

Vento teso di bora, mare color zinco che picchia sulla scogliera.
Si parte a piedi sull’antico tracciato ferroviario in disuso.

Il doppio colpo della littorina sui giunti del binario, è stato soppiantato dal muggire rabbioso delle onde sbattute sui sassi, a riva.

Siamo su di un balcone proteso stupendamente sul mare.
Oltre cinquanta chilometri dei circa cinquemila percorsi ferroviari dimenticati, patrimonio perfetto per rilanciare la “mobilità dolce” dopo anni di delirio gommato, di strade piene di polveri sottili che passano i limiti di legge un giorno sì e un altro pure.

“La ferrovia è un ostacolo alla crescita” dissero e di colpo il percorso sul mare divenne obsoleto.
Il Genio Ferrovieri si mise in movimento e in breve nacque una nuova linea in collina.
La breccia rettilinea soffre oggi l’abbandono, contornata com’è da sterpaglie, forse un giorno sarà finalmente una pista ciclabile affacciata sull’infinito.
E’ sempre pronto il progetto del Corridoio Verde Adriatico da Martinsicuro fino a Vasto in bici.

Il mare spumeggia lontano dall’insulto del cemento.
Soffia forte il vento sul pittoresco costone roccioso a picco sul mare dell’antico nucleo di San Vito.
Pare quasi che un capriccioso Eolo, soffiando forte, si sia divertito a scaraventare un mucchietto di case fin lassù, quasi a toccare il cielo.

Lo spettacolo, dall’ardito balcone, è di quelli che lasciano senza fiato.
Lo sguardo, rapito, scorge in lontananza la collina di Venere col monastero di San Giovanni, poi Punta Aderci della Penna di Vasto, paradiso naturale e giù fino alle isole Tremiti.
Sotto il costone ricco di ginestre, c’è il trabocco descritto dal poeta D’Annunzio: "... proteso sugli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti..."

I “trabocchi”sono delle ingegnose macchine per la pesca dalla riva.
Per mezzo di passerelle e con la rete agganciata a lunghi bracci a bilanciere, permettono di raggiungere anche senza barca, punti dove l'acqua é più profonda e pescosa.
Le vedette sul mare, ancorate agli scogli, sornione e silenziose, sono fedeli guardiani delle bellezze della nostra costa.

La loro origine si perde nella notte dei tempi.
 L’invenzione è stata originata dalla paura che l’uomo provava, nell’avventurarsi in mare aperto.
Quando qui infuria la tempesta, c’è da aver paura.

Un’antica leggenda racconta che, sullo scoglio sottostante l’eremo dannunziano, pochi tornanti dalla marina di San Vito, lì dove usava rifugiarsi il Vate per creare le sue opere, siano ancora visibili due impronte di zampe animalesche.

Sarebbero i piedi del diavolo che balla per la gioia di vedere i marinai, inghiottiti dai flutti, morire nel peccato.

Lungo la piccola spiaggia sottostante, scatarra, sibila il motore di una vecchia barca.
Il pescatore bestemmia con grida disumane fin quando, come in un simpatico cartoon di Topolino, la piccola imbarcazione guadagna il largo.
Lontano, sulle colline che guardano la Majella e il Gran Sasso, le bretelle autostradali sconciano la valle in nome di un progresso che non si può arrestare.

Lo sguardo a nord arriva fino al promontorio di Ortona con il suo singolare campionario di fortificazioni: tre torri e un castello.
Torre Mucchia è una vedetta costiera, Torre Baglioni apparteneva alle mura fortificate della città e Torre Ricciardi era inglobata in un palazzo gentilizio.

Il castello è posto ai margini dell'abitato, in una posizione spettacolare a strapiombo sul mare e fu edificato a metà Quattrocento dagli Aragonesi.
Dell'impianto originale rimangono parte di mura esterne e torri affacciate verso la città.

Qualche chilometro più a sud, senza allontanarsi dal mare, si staglia, maestoso, un altro bellissimo castello aragonese, quello di Vasto situato sulla collina dov’è adagiata la città alta.

Era dimora di Jacopo Caldora, cavaliere di ventura e connestabile, personaggio di grande carisma e cultura.
Non tutti i mari sono uguali.
E’ proprio vero.
Come tutte le terre ognuno di essi ha le sue caratteristiche di colori, d’intensità dei profumi, di forme delle onde.
Alcuni però si distinguono nettamente.

Il mare della costa dei Trabocchi, è un universo affascinante, impreziosito talvolta da coreografici insediamenti umani.
Sfregiato altre volte da un’incuria che non esiterei a definire criminale.
Dall’altra parte c’è il verde delle colline, con campi pettinati di zolle arruffate come capelli di una donna riccia dove si adagiano piccoli centri, all’apparenza inutili contenitori di mura imbiancate e finestre, ma la cui storia millenaria si può leggere solo nelle loro viuzze strette.

Mi trovo davanti all’ingresso del trabocco. Qui mi dicono si mangi da re.
Pesce appena pescato con le reti protese sul mare.
Mi si para davanti la cuoca proprietaria che, nel frattempo, continua a parlare in italiano e a tratti in tedesco con alemanni giunti fuori stagione.

“Queste acque - urla con linguaggio misto al dialetto locale - sono piene di fantasmi che si aggirano nel profondo”.

Poi si accorge di essere stata forse troppo inquietante e aggiunge:
“Sono tanti i pescatori ghermiti dal mare in tempesta che preferiscono girare alla larga dai turisti!”
Tutti scoppiano in una fragorosa risata.
Un gabbiano stridulo, si abbassa a pelo d’acqua, volteggia, lancia il suo grido rauco, poi riprende quota puntando dritto verso il trabocco.
Il legno sembra assorbire dai suoi lunghi pilastri tutto l’umore e la salsedine del mare.

La cucina dentro è qualcosa d’inimmaginabile tra bottiglie, spezie, barattoli, riso, padelle grigie e pesanti con manici in ghisa.
Il caldo oggi si fa ancora sentire, è opprimente, avvolge tutto come marzapane rendendo difficile ogni movimento, ogni pensiero o gesto.

La vista, dal trabocco, spazia su di una piccola darsena tra barche di mille colori, intrise dell’odore del pesce e della salsedine.

Le reti sono pazientemente dipanate e riavvolte da mani esperte.
Sono pescatori da una vita, figli anch’essi di uomini del mare.

Le donne con la proverbiale pazienza certosina ricuciono, rammendano gli squarci nelle reti determinati dal dimenarsi del pesce in trappola.
Al porticciolo si avverte forte il contatto del mare.

Guardo l’aquilone volteggiare nel cielo ventoso.
Capisco perché il D’Annunzio scriveva: “ O desiata solitudine, lungi al rumor degli uomini, o dolce speco d’incanto….”

COME ARRIVARE
In auto: da Bologna Autostrada A14 uscita Pescara Nord; 
da Bari Autostrada A14 uscita Pescara Ovest ;  
da Roma Autostrada A25 Roma-Pescara uscita Chieti-Pescara.
Le località costiere dell'Abruzzo si trovano sulla dorsale ferroviaria adriatica che collega i
grandi centri del Nord e Bologna con la Puglia.
Per raggiungere Chieti, collegamenti diretti partono dalla stazione di Pescara.
La stazione ferroviaria ad alta percorrenza più vicina a Teramo è Giulianova; da lì partono
treni locali diretti a Teramo.

L'eremo di Santo Spirito: il prodigio celestiniano

Il bosco sotto le gole del fiume Orfento si presenta rigoglioso.
Non pare soffrire la calura di questa estate scoppiata all’improvviso nel fine luglio.

L’atmosfera, nonostante gli uccelli sparino trilli prodigiosi, è severa e inquietante.
I secoli bui del medioevo sembrano ancora dettar legge.

Oltre il bosco più fitto, la valle sottostante s’in serra tra aspre pareti e orridi dirupi che puoi immaginare, con fervida fantasia, popolati da creature mostruose e belve feroci.
Si entra quasi allibiti nel Vallone di Santo Spirito. 
Di colpo un uomo appare ciondolante mentre trascina la cavezza del suo mulo stanco e recalcitrante.

La bestia ha lo sguardo che fa impietosire come di chi aspetta o la fine o l’onorevole pensione.
Sulla groppa dell’animale grosse fascine di legna.
Il posto, nonostante la sterrata sia asfaltata, non perde la sua aria impervia e ostile. L’eremo di Santo Spirito si presenta davanti a me in tutta la sua imponenza.

Sono fortunato perché nonostante sia quasi agosto, a quest’ora del mattino i turisti si stanno appena svegliando e decidendo di venire fin quassù per il picnic estivo.

Qui la prima luce del giorno è fantastica.
Le brume leggere che trattengono le tenebre, pian piano si dissolvono e i raggi di un sole ancora senza forza che arriva dall’Adriatico, fa pulsare tutto di nuova vita nella fitta macchia che ricopre i fianchi del Vallone di Santo Spirito.

Chiudo gli occhi e nel silenzio mi pare quasi di vedere Pietro Angeleri, al secolo Pietro da Morrone, risalire nel lontano anno Domini 1244, quest’aspro burrone settentrionale dopo aver abbandonato le facili strade della valle Peligna, tutto teso a diffondere ovunque l’Ordine monastico dei Celestini.

Non immaginava il povero cristiano, come lo definì secoli dopo Silone, che sarebbe capitato nel bel mezzo di vicende storiche, spirituali e politiche difficili da affrontare, soprattutto in veste di successore di Pietro l’Apostolo.

Era ancora più difficile guidare la Chiesa in quel periodo in cui le Regole Benedettine di miseria e povertà cozzavano contro la protervia e la delinquenza di porporati senza scrupoli tesi a vendere indulgenze plenarie a ricchi crapuloni nel famigerato commercio detto dei “Simoniaci”.

Fra Pietro per anni aveva realizzato nel centro sud un numero notevole di monasteri anche angusti e poco più di eremitaggi difficoltosi anche da raggiungere.

Questo del Santo Spirito, originariamente non più che un vecchio romitorio, fu certamente il suo capolavoro, ricco di storia e leggende incredibili.
Oggi poi, dopo diverse reinterpretazioni in interventi architettonici a volte disastrosi misti a lunghi periodi di abbandono colpevole, l’antico anfratto ascetico si presenta come una vera e propria abbazia.

C’è tanto di chiesa, sagrestia, foresteria, ma anche affascinanti percorsi sotto grotta, quasi fossimo davanti a un monastero con dipendenze esterne.
Il semplice romitorio è stato integrato con opere murarie ma per fortuna gli ampliamenti hanno preservato le belle conformazioni rocciose simili a quelle del vicino eremo di San Bartolomeo, tugurio conosciuto molto prima del passaggio di Celestino V.

All'interno della chiesina a cui si accede attraverso un bel portale settecentesco, c'è una bella statua di San Michele Arcangelo e un tabernacolo opera di un artista della vicina Roccamorice.

Sono insediamenti che lasciano stupefatti se pensiamo che sarebbero stati abitati dagli asceti ben prima del 1000, opere senza tempo in una montagna, la Majella, presenza viva forte ed eterna che incide profondamente nella vita delle genti di questo magico lembo di terra d'Abruzzo.

Il cenobio rupestre, il più famoso degli eremi celestiniani si raggiunge: 
A24/A25 RM-PE uscita Alanno-Scafa/ proseguire in direzione Caramanico/ Roccamorice da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello/ seguire indicazioni per Castel di Sangro/ Roccaraso/ Sulmona/ A25 direzione Pescara uscita Alanno-Scafa/ proseguire in direzione Caramanico/ Roccamorice


 Informazioni sull' eremo santo spirito a majella
presso il  Municipio di Roccamorice tel. 085-8572132

lunedì 29 luglio 2013

Misteriose muraglie

Tratto da "Il mio Ararat" con le foto di Alessandro de Ruvo

Da Piano Vomano per il Colle del Vento e fino a Crognaleto sono quasi cinque ore di cammino, tredici chilometri con dislivello di cinquecento metri.
Niente d’impossibile, ma da un po’ di tempo sono un po’ arrugginito.

L’antica strada ricavata con strati di arenaria, è secolare.

Pare di essere in un paese finto attraversato da strade.
 Inutile, naturalmente, cercarlo sulla carta stradale.
Non è rimasto quasi nulla.
Puoi solo mettere in moto la fantasia per ritrovare millenni di presenza umana.

Qui s’incontrano felicemente storia, arte e natura, perché credo che accanto al paesaggio geografico, esiste anche quello storico che porta con sé le tracce di un passato da non dimenticare.
A volte si vede perfettamente il lastricato di pietre levigate posate su di un fondo che non so se fatto di sabbia compressa.
Altre volte il tracciato si perde tra i prati.
Resti di basolato romano si trovano anche nella boscaglia.

Dal pianoro di San Martino a novecento metri di altitudine, lì dove troviamo resti pagani, ruderi e, purtroppo, qualche rifiuto, la strada per Colle del Vento è visibile anche a chi non è esperto.
Siamo rapiti dal fascino quasi primordiale di questi luoghi.
Sembra di fare un viaggio nell’atmosfera di un tempo che circondava l’antico viandante nel suo lento incedere tra la natura, in uno scenario sempre diverso.

Il sole è un disco fioco, alto sopra i boschi che contornano la piana.
La luce che irradia è quasi simile al sussurro del vento.
Le mura megalitiche di epoca italica, autentica meraviglia archeologica, sono davvero impressionanti.
I poveri resti di un importante tempio italico del III secolo a.C. sbiadiscono, s’intuiscono appena.

In questo luogo sacro, risalente forse ancor prima dell’età del ferro, per alcuni una piccola “Macchu Picchu”, forse insediamento romano e poi tardo antico, pare che nella notte dei tempi, fosse presente un altare pagano di terra battuta dove si venerava una sorta di Dio meticcio collegato alla devozione per Iside.
Qualcuno ha ipotizzato anche ci fosse il culto etrusco di Tin il dio del firmamento e dei fulmini che qui non mancano di certo.
Credo poco a queste storie.

Un’antica leggenda parlava anche di un “capro d’oro seppellito quassù insieme ad un tesoro.
Per anni appassionati di archeologia e avidi mercenari, hanno battuto in lungo e largo il posto che non ha restituito un bel niente.
Sono invece visibili e reali, i resti del “palazzo della Regina”, circondato da orribili storie di serpenti e tesori custoditi da scheletri viventi; si notano ovunque le rozze pietre che formavano la chiesa di San Martino.

L’antica via sacra detta della “tornara”, area particolarmente ricca, era costellata da una serie impressionante di siti archeologici, molti di notevole interesse.
Forse qui arrivarono anche gli Etruschi, popolo a cavallo tra Greci e Romani, che hanno rappresentato la prima grande civiltà dell’Italia antica.
Provenienti dalla Maremma, trovarono terreno fertile.

Le foreste intorno offrivano abbondante legname per le diverse necessità delle comunità e infinita selvaggina da cacciare.
E le zone paludose, lungo il fiume Vomano, erano anche ricche di volatili.
Non si può non provare un profondo rispetto per questo luogo.
Sono le mura massicce a lasciare interdetti, rapiti dal fascino primordiale che emana un po’ ovunque.
Si rimane quasi smarriti dal percorso sacro.

Immagino cerimonie itineranti, processioni di culto verso un Dio comune a tutte le epoche.
Capisco pure perché questo posto sia stato per lunghi anni, il paradiso dei tombaroli alla ricerca di resti da rubare.

In paese raccontano che negli anni ’90 uno di essi, pentito, fece scattare un’indagine sul traffico di reperti archeologici nel teramano da parte dell’allora Nucleo Operativo dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale.
L’inchiesta, durata mesi, accertò che da queste parti avevano portato via una moltitudine di frammenti che narravano un passato glorioso.
La muraglia di Piano Vomano, simile a quella che si trova a Magliano di Torricella Sicura, è su di un piccolo cocuzzolo, una sorta di acropoli.

L’importante testimonianza di fortificazione per le tribù italiche era collegata a un antichissimo nucleo abitativo di un villaggio che si estendeva per oltre mille metri quadri.
Si avverte un’atmosfera magica che se a volte incute timore, allo stesso tempo accoglie e stringe come in un abbraccio.
Il muraglione ciclopico è in grado di evocare l’ingresso in un mondo di giganti e di far sentire piccoli chi lo guarda.

È lungo quasi quaranta metri, alto circa quattro, edificato con macigni enormi, quasi poligonali, sovrapposti e connessi senza cemento.
Alcune pietre sono quasi un metro e mezzo per due, conciate con arte nota agli antichi popoli trans adriatici e sovrapposte in filari regolari o quasi.
Le pietre giganti mi ricordano quasi dei dolmens o altra sorta di megaliti.
Avrebbero una datazione intorno al IV secolo prima della venuta di Cristo.

Lo avrebbe scritto un secolo dopo, anche lo storico greco Tucidide.
Chissà, poi, com’è nata la leggenda dei Paladini di Francia, uomini enormi capitanati dal gigante Orlando, preferito di Carlo Magno.
Orlando era così enorme che il suo passo, dicono, misurasse una distanza di duecento metri.
Questa sorta di titani, sarebbero riusciti ad alzare le mura trasportando gli immani blocchi sui loro superbi omeri.
 D’altronde in Abruzzo la storia fantastica si ripete.

Gli eroi del ciclo di Carlo Magno si ricordano in moltissimi luoghi, basti pensare al ponte dei Paladini, nei pressi di Montorio, dove grossi macigni poligonali, sono incastrati mirabilmente sul passaggio della via Cecilia e lo stesso paese di Paladini accanto al fosso di San Giacomo, sotto il mulino di Senarica.
Come non ricordare la grotta intitolata agli eroi dell’epopea carolingia, detta anche del Sepolcro dei Franchi in San Liberatore a Majella nel pescarese?

Tra Serramonacesca e Manoppello, i Franchi ebbero una vittoria sensazionale e Carlo Magno volle costruire la basilica nella foresta accanto al fiume.

L’antica abbazia conserva pochi pezzi originali di pietra scolpita in un ambone oggi ricostruito, un meraviglioso pavimento cosmatesco, realizzato da maestri bizantini nel 1275 e una maestosa torre campanaria a triplice elevazione.

Fra l’altro, lo stesso Carlo Magno, grande uomo ma piccolo di statura, ahimè, dal naso gigante dicono, fece erigere non lontano le mura del maniero di Castel Menardo, pochi minuti dall’eremo dell’anacoreta Sant’Onofrio incastonato su di uno strapiombo roccioso, in un posto bellissimo.

Il manufatto è definito “il castello che non c’è”, la gente non lo vede e quindi lo dimentica, i giovani ne ignorano l’esistenza. Invece è lì su di un rilievo minore del Morrone occidentale.
C’è anche la Torre Polegre che controlla ancora la valle del fiume Pescara.
Mura possenti si trovano anche sul monte Pallano, tra i comuni chietini di Bomba, Atessa e Tornareccio e nel circondario di Alba Fucens, tra le rovine più antiche di epoca romana.

Questi uomini leggendari sarebbero gli stessi che edificarono sopra le rovine di un piccolo castro romano sul confine tra le gole delle due montagne gemelle di Campli e Civitella del Tronto, le mura e le torri del castello di re Manfredi a difesa per le invasioni angioine provenienti dalle Marche ascolane.
Nella mia mente è un turbinare di mitologia.
In Irlanda e nelle isole Aran c’è l’anima celtica metamorfica, a volte spietata, nelle Orcadi scozzesi, oltre alla saggezza cosmica dei Druidi, impazza come in tutta la penisola scandinava, il mito guerriero di Odino, tra i templi indiani c’è Siva e qui abbiamo questa sorta di sansoni francesi.

Essi danno più di uno spunto a leggende abbarbicate a montagne, rocce, paesi.
In quasi tutte le fole cavalleresche, l’idea delle mura ciclopiche ingigantisce nella fantasia del volgo, la fama degli eroi che le innalzano.

sabato 27 luglio 2013

Le seduzioni della città ducale

“La bellezza delle cose è nella mente di chi le guarda”. 
(David Hume, filosofo e storico scozzese vissuto nel ‘700)


Gli orizzonti verso l’Adriatico sono dolcemente mossi come lenzuola gonfiate dal vento.
Il paesaggio si dispiega dolce, a tratti grandioso, docili quinte di colore sfumano in lontananza nel blu del mare.
Passano gli anni, i decenni, tutto intorno cambia, ma dai tavoli del caffè che si affaccia sulla piazza centrale di Atri, lo scenario pare inalterato.

Alcuni amici che conservo da anni nella città ducale, si lamentano di un buffet scaduto visibilmente rispetto a qualche anno fa, ma a dire il vero non m’interessa granché.

I miei occhi rimirano la splendida Cattedrale di Santa Maria Assunta, eretta su di un’antica chiesa romanica, con la sua mole trecentesca, l’ardito campanile dal corpo quadrato, terminante a piramide, alto cinquantasei metri.

Devo ammettere, soffocando moti campanilistici, che il suo equilibrio architettonico è superiore al Duomo di Teramo.
La sua larga facciata in pietra, la cornice cuspidata, il rosone a dodici raggi, il ricco portale opera trecentesca di Rainaldo, tutto dona alla struttura, gusto a profusione.

Questo manufatto è un universo nel quale sembrano permanere all’infinito, gli aneliti, i sacrifici, le speranze, la fede vissuta da intere generazioni.

L’interno, elegante nella sua sobrietà, è a tre navate scandito da archi gotici.
Strano destino delle parole.
Dici “gotico” ed è subito medioevo.

E’ quasi una parola “magica”: la pronunzi e il pensiero corre all’ombra profonda delle cattedrali che invade e sovrasta le città con guglie ardite, enormi finestre dai vetri istoriati e policromi e i portali scolpiti tra figure di santi, angeli e qualche demone o mostro di troppo!
Eppure non è così!

Questo incredibile scrigno atriano è ricco di luce, le navate non sono per niente buie.
Un fiotto caldo di luce preziosa entra e rende godibile tutta l’immensa ricchezza del ciclo pittorico del '400 di Andrea De Litio.
Orna mirabilmente le pareti del coro dei canonici.
Un’opera che se si trovasse al nord, avrebbe in ogni ora della giornata, capannelli entusiasti di visitatori.

Una delle più imponenti opere illustrative del Rinascimento abruzzese con oltre cento pannelli raccontanti, mirabilmente, episodi della vita di Gesù e Maria, tra Evangelisti, Dottori della Chiesa e Virtù Teologali.

Molti anni prima il papa del gran rifiuto, l’anacoreta e piccolo frate Celestino V, aveva concesso il privilegio della Porta Santa e della distribuzione delle indulgenze.
Sarebbero tante le opere da ricordare all’interno di questo luogo sacro dell’arte.

C’è, ad esempio, un organo fantastico con seimila canne!

Sopra la mia testa c’è il Teatro Comunale, di stile cinquecentesco, che scimmiotta nello schema compositivo la mitica Scala di Milano, ma che nell’insieme, contribuisce a rendere unica, questa piccola arena naturale di piazza Duomo, simbiosi mirabile tra architettura e gente.


Il teatro fu inaugurato nel gennaio del 1881 con tre ordini di palchi e l’elegante loggione.
Una vera bomboniera dell’acustica sorprendente.

A proposito di musica, pochi sanno che ad Atri c’è anche un archivio musicale tra i più ricchi d’Abruzzo nel quasi sconosciuto museo dedicato al maestro Antonio Di Jorio, nato ad Atessa alla fine dell’ottocento e morto nel 1981.

In fondo alla piazza, mi riempie gli occhi, il cinquecentesco palazzotto gentilizio della Curia, edificato nel periodo di Paolo Odescalchi (1566-1572), trentesimo dei cinquantacinque vescovi della Diocesi di Atri Penne, che fece costruire anche il Seminario, celebrò il Sinodo del 1571 e partecipò alla battaglia di Lepanto, tra le flotte musulmane dell'Impero ottomano e della cristiana Lega Santa.
Atri è così!
Una città generosa di memorie.
Le sue chiese, i suoi palazzi, le sue pietre raccontano un passato straordinario che parte ancor prima dell’epoca romana.

Con il Sacro Romano Impero divenne centro di enorme importanza strategica, il cui porto insisteva lungo la costa del Cerrano.
Nel trecento fu il feudo degli Acquaviva.
La potente famiglia gentilizia trasformò l’antica Hatria, in centro amministrativo dei possedimenti, realizzando il palazzo Ducale, luogo cruciale di storia dell’epoca del mecenatismo rinascimentale e le numerose chiese oggi ancora presenti.

Da veri mecenati, poi, i nobili furono committenti entusiasti di opere d’arte d’immenso valore, oggetti di culto e arredi preziosi, tessuti, ceramiche, quadri, gioielli che oggi rendono pregiate le sale del Museo Capitolare.

La famiglia diede alla chiesa sei cardinali e numerosi prelati.

Mi allontano dal piccolo centro storico, abbandonando le numerose facciate secolari, i cortili ad arco, i palazzi nobiliari che si alternano a piccoli negozi, caffè e l’immancabile bottega dove reperire il “dolce ducale” e la liquirizia famosa in tutto lo stivale d’Italia.
Caracollo fino al belvedere, per sentirmi catapultato nell’infinito.
Prima delle acque blu dell’Adriatico pinetese, arriva una sorta d’inferno dantesco che disegna la genesi dei paesaggi argillosi.

Dirupi di creste nude che destano meraviglia, di volta in volta si avvinghiano alla vegetazione a fondo valle, convivendo a fatica con il lavoro e gli interessi dell’uomo.
E’ l’inedito parco naturale dei calanchi atriani, un mondo tutto a sé, popolato da rapaci, istrici, volpi, faine.
“La natura recita un dramma: non sappiamo se anch’essa lo vede e tuttavia lo recita per noi che contiamo veramente poco”.

Forse solo l’immagine efficacemente espressa dallo scrittore, poeta e drammaturgo Johann Wolfgang von Goethe, può cambiare la lettura del messaggio che un ambiente drammatico invia a chi si sofferma a guardare queste escrescenze della terra.

Il sole e la pioggia di secoli hanno di volta in volta disseccato, spaccato profondamente l’argilla e, poi, in una sorta di compensazione naturale, la pioggia l’ha gonfiata, incisa.
Un trattamento così violento che ha determinato incredibili e spettacolari erosioni.
Il Parco dei Calanchi offre escursioni fantastiche in natura e uno stupendo serpentone per pedoni, bici e cavalli, lungo circa otto chilometri.

Credo che questa mirabile amalgama di arte e paesaggio, gastronomia e gusto di vivere, con la sua miscela di eleganza e armonia sia il giusto luogo dove terminare un viaggio da incorniciare.

********************

Si raggiunge attraverso l'autostrada A/14 Adriatica, uscendo al casello Atri-Pineto e percorrendo circa 9 chilometri. Dalla statale 16 Adriatica, si raggiunge Atri imboccando la strada provinciale 28 da Pineto, oppure la strada provinciale 553 da Silvi Marina.
Da Teramo, statale 150 della Valle del Vomano, deviando verso sud nei pressi di Notaresco.



Le pietre parlanti di Ripattoni

Così vicino nello spazio, così lontano nel tempo.
Penso a questo mentre affacciato sul muro del belvedere di Ripattoni, ai miei occhi si apre una finestra sull’immensità di colline e montagne che regalano pace all’anima.
Un tramonto da favola!

Ma c’è anche una valle, quella del Tordino, pesantemente cementificata, dove scorre veloce e puzzolente il traffico della superstrada che porta a Roma.

Qui però, a pochi chilometri sopra, è tutto un altro mondo.

È l’alternativa all’aggressione del bitume, il trionfo di un quieto paesaggio bucolico.

Il silenzio della campagna riesce a dare l’idea del tempo che si è fermato.
Di certo non è solo pace.
C’è anche tanta storia, per giunta sontuosa.

L’atmosfera del borgo di Ripattoni è qualcosa d’incantevole in grado d’ispirare la sensibilità di artisti e il gusto del bello dei turisti.
L’armonia delle testimonianze monumentali è preservata da quest’angolo di medioevo intatto, tra acciottolati, scalinate, palazzi, portici e anfratti fatti di pietre che raccontano la storia e l’identità del vecchio e minuscolo borgo.

Nella mente torna la frase del grande reporter Ansel Adams che diceva:
“La fotografia non è sola quello che vedete ma anche e soprattutto quello che sentite”.
Per restituire a un pubblico ignaro di tanta bellezza la realtà del piccolo paese, occorrerebbe la magia che grandi fotografi hanno nel loro bagaglio tecnico.

“Il cuore di Ripattoni è fatto di pietra”, recita il simpatico libercolo realizzato da una vulcanica Pro Loco che organizza tante iniziative per condividere con più persone possibili la bellezza di “Ripa Actonis”.

La Rupe di Attone era il regno del principe longobardo che possedeva tante terre tra Teramo e Bellante.
Poi venne il dominio degli onnipresenti Acquaviva, che incastellarono mirabilmente l’abitato.

Ancora oggi c’è una fantastica torre trecentesca in pietra e laterizio che è il vero simbolo del luogo, a base quadrangolare, ai piedi della quale si trova l’anonima chiesa dei santi Silvestro e Giustino.

Il gioiello del paese però è sicuramente il possente Palazzo Saliceti, da poco restituito alla fruizione pubblica con mostre di notevole interesse.

Nacque proprio qui il patriota Aurelio Saliceti (1804-1862), ammirato giureconsulto e tra i primi affiliati alla storica Giovane Italia, ministro di Grazia e Giustizia nel Regno delle Due Sicilie.

Poco lontano dal borgo, assolutamente da visitare è la chiesina campestre di Santa Maria in Herulis.

Ripattoni sazierà la vostra voglia di scoprire, ne sono certo.
Un percorso affascinante sorprendentemente dietro casa.

Per raggiungere Ripattoni: da Nord e da Sud Autostrada A14 Bologna-Taranto uscita Mosciano S.Angelo proseguire sulla superstrada Teramo - Roma uscita Bellante. Da Roma Autostrada A24 Roma-Teramo proseguire sulla superstrada Teramo Mare uscita Bellante.
La stazione ferroviaria è  a 2 km dal centro di Ripattoni che consente un collegamento rapido con il capoluogo di Provincia (Teramo) e con la costa adriatica (Giulianova).
 

Per contatti:
Associazione Pro-Loco Ripattoni
Via S.Giuseppe, 1 - 64020 Ripattoni 

prolocoripattoni@gmail.com

Siti:
 prolocoripattoni.wordpress.com
 ripattoninarte2013.wordpress.com

martedì 23 luglio 2013

Il linguaggio della Fede: San Tommaso a Caramanico

Proponiamo un viaggio entusiasmante, alla scoperta dei segreti della chiesa di San Tommaso Beckett, a Caramanico Terme.

La campana alle nove del mattino, chiama i fedeli a raccolta. La monumentale chiesa, a pochi tornanti da Caramanico Terme, in provincia di Pescara e nel cuore del Parco Nazionale della Majella, è dedicata all’arcivescovo di Canterbury,

San Tommaso Beckett, assassinato nel 1170 mentre celebrava una funzione religiosa.
L’abito pontificale si arrossì del suo sangue innocente sparso a causa dell’eterna lotta tra la Corona inglese e la Santa Romana Chiesa.

Tre anni dopo, lo sventurato fu santificato da Santa Romana Chiesa.
“In verità per lungo tempo si è stati convinti che la chiesa fosse intitolata all’apostolo Tommaso le cui ossa riposano in Ortona”, a parlare è il curato di campagna che officia messa e cura le anime del paese di Salle, pochi tornanti dall’affascinante castello a picco sulle gole dell’Orta .
“Qualcuno addirittura pensava a San Tommaso d’Aquino…”.

In verità sono in pochi a conoscere questo santo d’Inghilterra.
Grazie ad un altrettanto sconosciuto abate di Casauria, tal Leonate, il culto per Tommaso arrivò, nell’antichissimo cenobio benedettino, dopo aver raggiunto Subiaco, Bucchianico e giù, nel tacco d’Italia, fino a Monreale in Sicilia.

Chiacchieriamo con il sacerdote davanti al bellissimo portale maggiore, sormontato da un architrave che reca scolpite a tutto tondo, le figure di Cristo e degli apostoli.

Innumerevoli sono i simbolismi sulla facciata.
Il bellissimo Fiore della Vita, che si ricollega a una tradizione cara ai Templari è scolpito su di una pietra della finestra nell’abside esterna e due sono i fiori “accoppiati” in un cerchio, incisi misteriosamente.

I Templari ebbero vasta diffusione in Abruzzo, perchè il loro fondatore, Ugo di Pagani, pur essendo lucano di nascita, contava numerosi feudi nella nostra regione come Moscufo, Spoltore, S. Valentino, Vicoli, Villanova.
Gli uomini rosso- crociati di Dio abruzzesi, ereditarono conventi abbandonati dai benedettini.

Contro il cielo, il profilo tozzo della montagna del Morrone, forma una magica geografia di cupole d’erba.
Qui, come pochi altri posti in Abruzzo, il legame tra la terra e l’uomo sembra essere più felice.
In lontananza, la montagna madre disegna un paesaggio aspro, ricoperto di boschi e solcato da gole selvagge, in cui si celano misteriose grotte, meta preferita degli eremiti in tempi andati. Gorgoglia, sotto i piloni di un immane ponte, il fiume Orta.

I simboli sono ovunque, dentro e sotto le pietre.

Eppure quello che forse conta di più non sono i tesori architettonici ma quello che è stato loro attribuito nel corso dei secoli.

Anni fa, il rinvenimento di bronzetti raffiguranti il dio Ercole, la divinità dalla forza prorompente, custode delle sorgenti e nume tutelare dei pastori, suggerì l’ipotesi fantasiosa che in questo sito ci fosse, nella notte dei tempi, un’area di culto importante.

L’utilizzo delle fondamenta di un preesistente edificio sacro, probabilmente legato al culto delle acque, come sembra attestare la cripta e il pozzo arcaico di acqua sorgiva, ancora oggi determina manifestazioni di credenze popolari tra religione e superstizione.

Un primo tempio fu fatto edificare in questo luogo, nel 45 d.C. in seguito all’apparizione degli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele.
Di certo, la chiesa attuale risale alla seconda metà del XII secolo e la costruzione è attribuita alle maestranze di San Clemente a Casauria.
Un’iscrizione, posta sul portale sinistro, testimonierebbe comunque la conclusione dell’edificazione nel 1202.

Tre navate di aspetto basilicale che conservano alcune pitture di epoca duecentesca che rimandano ai temi bizantini della bella Santa Maria ad Criptas nelle vicinanze di Fossa dell’Aquila.
Ai lati dei gradini che conducono al presbiterio, si ammirano due leoni di bella fattura risalente al periodo romanico.

E’ visibile anche, un bel crocefisso risalente al XV secolo.
 Tra gli austeri pilastri, un esile e stravagante monolito transennato!

Il parroco racconta che il mito della fertilità pian piano si è trasmesso dalle bestie agli esseri umani.
La cosiddetta “Colonna Santa” che poggia su di una sproporzionata zoccolatura ed è sormontata da un enorme capitello altrettanto sproporzionato, ornato da palmette e tralci serpeggianti, avrebbe proprietà risanatrici.

Unica nel repertorio della plastica medievale, la colonna ha avuto nei secoli una forte presa sulla fede popolare, che la vuole portata sul posto da un angelo e che ne ha fatto oggetto di devoti strofinamenti. L'assottigliamento nella parte inferiore dovuta anche al fatto che spesso erano asportati souvenir di pietra, ha costretto la Sovrintendenza a transennare il manufatto.

Il patrimonio della terra

Un percorso avvincente a Caramanico terme, cuore della montagna madre della Majella, nella tradizione del benessere, immersi in una natura straordinaria tra acque curative, fiumi che corrono in strette gole, borghi semi abbandonati ed eremi dislocati in selvaggi dirupi.

Ippocrate che di medicina se ne intendeva eccome, soleva ripetere che è la natura a curare i malanni dell’uomo.
A Caramanico Terme ne hanno fatto una filosofia di vita.
Il cartello che dà il benvenuto ai visitatori recita: “distretto del benessere”.

E, per la verità, la parola benessere viene utilizzata un po’ovunque: sullo striscione del palco in piazza dove si svolgono gli intrattenimenti serali, sugli zerbini dei confortevoli hotel che ospitano il turismo termale, nelle vetrine dei piccoli negozi del corso.

Perché qui è forte il senso dell’ospitalità per una terra benedetta con acque tra le migliori d’Italia, capaci di curare, rilassare, rigenerare.
Questo minuscolo paese che d’inverno conta circa 1000 abitanti e che d’estate triplica le presenze, è tra le prime dieci località turistiche montane in una speciale classifica stilata dal Touring Club Italiano in collaborazione con Legambiente.

Fa bella mostra di sé per le sue qualità naturalistiche, la gestione eco compatibile del territorio, l’accoglienza e il rispetto dell’ambiente e non sfigura al cospetto di località blasonate come Cogne nel parco del Gran Paradiso, Ceresolo Reale nelle alpi piemontesi, Braies e il suo splendido lago in Alto Adige e Pietracamela nel comprensorio del Gran Sasso d’Italia.

Caramanico vive con incredibile tranquillità il delicato rapporto tra wilderness e civilizzazione.
Basta allontanarsi di qualche passo dal centro storico per ritrovarsi immersi nella fantastica gola dell’Orfento, con le sue pareti rocciose che quasi si toccano, in uno tra gli spettacoli più emozionanti che la natura possa offrire.

Pareti calcaree, rocciose, strapiombanti che si aprono a cavità carsiche vertiginosamente affacciate sul fiume, ad incidere profondamente il versante nord occidentale della Majella, la dorsale più elevata del massiccio che collega il Blockhaus con il monte Focalone, i Tre Portoni, Pescofalcone.

Un infinito paesaggio dell’anima che genera, come pochi luoghi riescono a fare, sentimenti contrastanti che difficilmente lasciano indifferenti: entusiasmo, serenità, armonia, inquietudine, in alcuni casi, paura.

Un solco gigantesco, rivestito di fitte faggete e popolato da lupi, cervi, caprioli, orsi e aquile reali. Un mondo magico che, in pochi chilometri, scende dai 2676 metri fino ai quasi 600 di Caramanico tra boschi, cascate ed eremi, in cui ancora è possibile respirare l’aria del misticismo, la parte santa della Majella, nascosta nel fitto della vegetazione, dove gli anacoreti annullarono la loro vita, dedicandola alla contemplazione di quel Dio che da queste parti ha dato il meglio della sua stupenda opera.
Figure di santi e beati che elessero questi posti a loro “deserto personale”.

Qui le acque che scendono tumultuose, subiscono mutazioni cromatiche indescrivibili.
Rocce erose, nude pareti di calcare alte diverse centinaia di metri che appaiono come tormentate da lame affilate.

L’acqua scava, sagoma la pietra poi quasi scompare nelle viscere della terra, riaffiorando all’improvviso in piccole cascate.
Qualche chilometro e ci si trova immersi, poi, in riserve naturali o nel cuore del Parco Nazionale della Majella.

Per lunghi anni la valle ha vissuto la spinta ascetica della solitudine, della preghiera con esempi fulgidi di uomini come frà Pietro Angeleri, colui il quale divenne il “papa del grande rifiuto”.
Innumerevoli borghi incastellati, spesso abbandonati, impreziosiscono la vallata che si sviluppa intorno alla opulenta Caramanico.
Salle Vecchia, ad esempio col suo fantastico castello.

Il profilo segnato dal maniero con le sue torri merlate testimonia una storia secolare, inaspettata quasi in questi luoghi lontani dalle grandi vie di comunicazione.
Il rifilo della rocca si staglia sull’ultimo colle prima del complesso montuoso del Morrone, antica via di transumanza.
Il castello era il baluardo difensivo a controllo della valle dell’Orta.

Il paese è una vera e propria cittadella dell’arte con tante vie strette che si intersecano meravigliosamente tra loro.
Sono tanti i monumenti, uno dei più importanti è l’Abbazia di Santa Maria Maggiore fondata dai monaci benedettini di S.Clemente a Casauria intorno all’anno 1000.

Dal suo impianto architettonico si evince che l’edificio sia stato costruito con la duplice funzione di essere fortificazione a difesa del paese, date le sue imponenti mura e luogo di culto preminente rispetto alle altre chiese del territorio circostante.

Del complesso monastico delle Clarisse sappiamo che fu fondato nel 1636 da Giovan Battista Castruccio, cittadino locale che volle destinare la sua dimora a monastero.
L’abbandono da parte dell’ordine monastico della struttura avvenne a fine ‘600 dopo che un terribile terremoto lo danneggiò.
Oggi, l’edificio recuperato parzialmente è destinato a ospitare eventi congressuali e, visitandolo, è ancora possibile, individuare la Chiesa annessa al convento dedicato a San Giovanni Battista

La chiesa di San Tommaso Becket rappresenta uno dei monumenti più interessanti che si trovano a Caramanico, di elevato pregio e valore artistico anche se la sua costruzione è stata particolarmente tormentata; essa è conosciuta anche con il nome della grande incompiuta.


I lavori per la sua edificazione, infatti, iniziarono nel 1202 e prevedevano la costruzione di un maestoso edificio di stampo romanico con annesso portico, all’interno un pulpito e numerosi decorazioni di grandi artisti.

Nacque per iniziativa di una comunità agostiniana che volle dedicarla a San Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury; assassinato nel 1170 in Inghilterra.
La chiesa al suo interno è strutturata a tre navate.

sabato 20 luglio 2013

Nel cuore delle cascate reatine

(Liberamente tratto da Silenzi di Pietra).

Il versante reatino dei monti della Laga, di là dal Ceppo e la cascata della Morricana in provincia di Teramo, è verde di boschi e fresco di acque scroscianti.

Queste montagne appartate, a lungo ignorate da escursionisti e naturalisti,serbano stupende sorprese.


E’ impossibile raccontare le emozioni in questo orizzonte indefinito tra realtà e fantasia, dove occhi e pensieri si confondono e riescono a percepire sfumature altrimenti invisibili.

Mi sento felice come un bambino quando posso vedere getti d’acqua inebrianti: da questo versante laziale, l’Organza, le Barche, il salto di Cima Lepri, dall’altra parte lo scrosciare dell’acqua della Morricana, tra gradoni rocciosi di arenaria, nel fiabesco contorno del bosco della Martese.

La cascata delle Barche, raggiunta faticosamente dalla località Capricchia, apre il cuore per la sua bellezza selvaggia.
L’ultimo salto di questo fosso chiamato della Solagna, prima di tuffarsi allegramente nell’imbuto di Selva Grande, cade a strapiombo per quaranta metri e in primavera si propone come una bella gita familiare.

In località Sacro Cuore, antico convento di Capricchia, piccolo presepe di case del reatino, parte un interminabile saliscendi faticoso in mezzo ad una gola stretta dove lo sguardo non riesce mai ad avere l’agio della distanza.

In lontananza, lo scrosciare delle acque è musica per le mie orecchie.

Sono immerso nei pensieri e nelle meravigliose sensazioni di natura viva, quando arrivo sotto l’inebriante “cascata delle Barche”.
E’ veramente la più bella delle tre, proprio sotto la verticale di Cima Lepri.
Compare all’improvviso, tra gli straordinari picchi rocciosi, al limitare di una piccola ma ariosa distesa piena di spinaci selvatici.

Il respiro che si rifiuta di togliere l’affanno a causa della salita, ora soffre di apnee selvagge per la bellezza del luogo.

La foresta presenta un fascino forte in cui l’essenza e lo spirito arcano si materializzano e rendono quasi palpabili, rapiscono e stordiscono il visitatore, trasportandolo in un mondo fatato, onirico e meraviglioso.

Conifere e latifogli s’incontrano, s’intrecciano, in un rondò superbo in cui due mondi vengono a contatto, in intima unione.
Stormi di corvi sembrano annerire il cielo, lo sfidano, quasi, con le loro incredibili traiettorie.
Sono decine, centinaia.
Impressionante!

Scendo a valle, che è pomeriggio inoltrato.
In una radura mi pare di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. Penso sia il tronco annerito di un albero colpito da un fulmine.
Incredibile a dirsi, è un pastore, per giunta italiano!
Credevo non si trovasse altro che macedoni o albanesi a guardia delle greggi!
Una ventina di pecore sdraiate sulla nuda terra, paiono pendere dalle sue labbra.
Mi porta non lontano lì dove, in un’ondulazione del pianoro, si trova il suo ovile improvvisato.
Mi propone di passare a casa sua.

Abita nel vecchio paese di Preta, non lontano da Capricchia.
Ha del buon formaggio da vendere, mi dice. Non più tardi di un’ora dopo sono davanti alla sua casa in pietra.
L’abitazione, alquanto squallida, sembra aver sofferto e non poco il terremoto.
Ha l’ala destra del piano superiore che pare aver subito un raid dei matti seguaci di Bin Laden a Kabul.

A lato, mi colpiscono una trentina di alveari, tutti allineati come soldatini di piombo.
Il cane all’uscio è silenzioso come il padrone.
Mi porta nel sotterraneo dell’abitazione e, mentre sto chiedendomi se l’abitazione mi crollerà in testa, davanti ai miei occhi estasiati, si apre un mondo di formaggi deliziosi e profumati.

Mi invita a provare la sua ricotta e al mio primo boccone diventa loquace di colpo, come se assaggiare il suo prodotto, mi abbia reso un fratello.

Che giornata meravigliosa.
Il degno epilogo è davanti un fumante piatto di bucatini all’amatriciana.

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Per raggiungere la base di partenza per le cascate reatine:
Da Ascoli Piceno si percorre la S.S. Salaria n° 4, giunti al bivio per Amatrice si devia per il paese che si attraversa passando per la via centrale. 
All’uscita Sud-Est dell’abitato c’è un incrocio, trascurare la strada di destra per Montereale e proseguire dritti per 4,5 Km fino a un quadrivio dove ci sono le indicazioni per la frazione di Capricchia (primo stradino a sinistra).
Giunti nella piccola piazza si notano le indicazioni per il Sacro Cuore e il Monte Gorzano, imboccare in salita la stretta strada a destra (strada asfaltata ma piena di buchi), superato il Fosso di Valle Conca (sulla destra c’è una presa d’acqua dell’Enel) si arriva sul pianoro del Sacro Cuore dove si parcheggia subito a sinistra su uno slargo, località Capo la Valle, quota 1381 m.

mercoledì 17 luglio 2013

La pecora mite e il bravo maiale

Dal mio primo libro "Silenzi di pietra".

Mi chiedo perché il mondo abbia smesso di camminare.
Siamo ormai una generazione di un mondo occidentale industrializzato stanca, sola, pigra, che trova inutile il girovagare, camminatori virtuali che vivono prigionieri di tristi pensieri.

Io, al contrario, amo contare a lungo i miei passi.

Mi trovo a fare il classico “struscio” per la bella Amatrice, in territorio laziale, ammirando la chiesa di S. Agostino con il suo ricco portale gotico e l’artistico rosone centrale.

Sono presso la porta Carbonara, uno dei passaggi della cinta trecentesca che un tempo circondava la città.
Ho un’ebbra passione per questa cittadina.
Mi chiedo cosa ci faccia, sperduta tra i monti.
Mi colpisce sempre la facciata orizzontale con il ricco rosone e il bellissimo portale tardo gotico, finemente scolpito.

Percorro per intero il muraglione che porta a San Francesco.

La chiesa è uno dei monumenti più belli della città.
Intorno alla seconda metà del XIII secolo i francescani si insediarono ad Amatrice e successivamente portarono a compimento la chiesa, dedicata in origine alla Vergine e a S. Francesco.
Nel 1639 e nel 1703 due gravissimi terremoti sconvolsero la zona e il complesso subì notevoli danni.

La facciata presenta un portale a cuspide nella cui lunetta è visibile un gruppo in terracotta policroma con la Madonna e il Bambino in mezzo a due Angeli.

Tra le emergenze architettoniche di questo centro montano spicca la duecentesca Torre Civica, rimaneggiata alla fine del Seicento, e che secondo una tradizione orale, tramandata in loco, oscilla di venti centimetri quando suona il grosso batacchio della campana.

Fu il principe Alessandro Maria Orsini ad isolare e rinforzare la torre nel 1684, preoccupato dalle eccessive oscillazioni.
A questo personaggio, ultimo principe di Amatrice, è legata una delle pagine più oscure della storia cittadina.
Nel 1648 fu accusato del barbaro omicidio della moglie, la principessa Anna Maria Orsini, e costretto a scontare 36 anni di carcere a Castel Sant’Angelo a Roma.

“Benvenuti ad Amatrice, città degli spaghetti all’amatriciana”, recita un cartello all’ingresso del paese.
E’ qui, infatti, che la famosa ricetta ha preso forma.
C’è ancora chi conosce il luogo solo per il sentito dire del piatto famoso degli spaghetti che qualcuno vorrebbe realizzato con tagliatelle o fettuccine e che rappresenta una delle superbe gastronomie dello Stivale d’Italia.

La vicenda di questo piatto è sospesa tra storia e leggenda!
Me la racconta un aristocratico del luogo, il Conte De Amicis.
E’ un conte davvero, ragazzi!
Non ne avevo mai visto uno finora!

Racconta, (pensate, ha anche la r moscia come si conviene a un sangue blu) che una sera del 1847, si trovò a passare in questi ameni luoghi venendo dai bellissimi borghi della vicina Salaria, attraverso Ascoli Piceno e Arquata del Tronto, Ferdinando III sovrano indiscusso del Regno di Napoli.

All’illustre visitatore furono offerti, in segno di riverenza, i tipici spaghetti confezionati con il guanciale, i san marzano e il pecorino.

Il re, notoriamente buongustaio, fu rapito irrimediabilmente dal sapido gusto di questo piatto povero dei pastori così sublime nella sua semplicità, e indisse senza indugio una grande festa che durò più giorni, tra mescite di vini e libagioni abbondanti.
Molti anni più tardi il noto scrittore laziale Baccari scriveva che: “…la pecora mite e il bravo maiale donarono insieme formaggio e guanciale per fare un cibo sovrannaturale…”

Il conte è visibilmente soddisfatto.
Come interlocutore, sono il massimo dell’attenzione.
Guardo il nobile cittadino, discendente di una delle famiglie più in vista d’Amatrice.

Sembra alla moda, con i suoi scarponcini Tod’s retrò, tomaia di pelle scamosciata color testa di moro, modelli che negli anni Cinquanta si usavano in montagna ma che col tempo si sono alleggeriti e “ingentiliti” fino a essere indossati sotto una giacca tweed ultima tendenza.

“Non sopporto quei tozzi anfibi militari con tripla suola a carrarmato pesanti come piombo” – dice ridendo. Dettagli di eleganza spicciola che catturano.
Un bel pantalone di velluto a coste e l’aria di chi i suoi anni non se li sente affatto.
Diciamo che occorre gusto, occhio, uso del mondo.

Amatrice non è solo la città della pasta ma un vero paradiso, un’oasi naturalistica ricca anche di tesori artistici di pregevole fattura come la monumentale chiesa di Santa Maria del Suffragio.

Non dimentichiamo di visitare, ammonisce l’amico, il tempio dedicato alla Patrona di Amatrice “Maria SS. di Filetta”, evocatrice di memorie miracolose e meta di una processione infinita nel giorno dedicato all’Ascensione.

Questo è uno dei luoghi che proverebbero la benigna protezione della Vergine verso le nostre terre.
Raggiungo il piccolo villaggio di Filetta sulla riva destra del fiume Tronto per scoprire la storia antica di una pastorella, Chiara Valente cui, tra una tempesta di vento e pioggia improvvisa apparve, in tutta la sua magnificenza, la Madonna, squarciando le nuvole bigie.

In mezzo a quella luce vivida, Maria S.S. promise protezione infinita a quelle contrade, assicurando nei secoli guarigioni prodigiose e salvezza dai nemici.
Non solo!

Amatrice è anche palazzi turriti che testimoniano l’importanza storica dell’antico borgo fortificato e della sua assolata conca.
Capirete dopo una visita accurata che, di là dell’originale piatto pastorale, semplice, povero ma genuino, esiste tutta una serie di emergenze ambientali e architettoniche da lasciare stupefatti.

Su consiglio del distinto signore, vado a leggermi un libro sulle rive del lago di Scandarello.

Da Ascoli Piceno o A14 Adriatica, uscita casello di S. Benedetto del Tronto. Seguire le indicazioni per Ascoli Piceno. Da Ascoli Piceno seguire la via Salaria in direzione Roma-Rieti fino al Km 136,400, bivio per Amatrice in località Ponte Nea..
Da L’Aquila (prossimità casello L’Aquila Ovest della A24) si arriva ad Amatrice percorrendo la SS260 “Picente”. Lungo il tragitto si hanno chiare indicazioni per Amatrice.

La Vergine di Amatrice

L'erba un tempo veniva tagliata regolarmente intorno ai piccoli tavoli in legno disseminati nella piana sotto Cima Lepri dove sorge la splendida chiesina della Cona Passatora.
 Il piccolo borgo, una manciata di chilometri da Amatrice, è un semplice aggregato di antiche case montane fatte di pietre abbrunite dal tempo.

Il vecchio parroco, sconsolato, dall'ambone domenicale predica ai fedeli a messa di munirsi tutti di falce e decespugliatori perchè il comune di Amatrice latita.
Pensare che questo minuscolo tempio è di una bellezza incredibile.

Pare che a vederlo si sia scomodato niente di meno che il grande Zeffirelli.
Anni fa, raccontano in paese, dopo aver realizzato il film “Gesù di Nazareth”, il regista piombò in tarda serata in questo luogo idilliaco che ha poco di urbanizzato. Chiese di poter vedere l’interno della Cona Passatora.

Raccontano che il fiorentino sia rimasto così colpito dagli affreschi contenuti nella piccola chiesa campestre che non voleva più andarsene.

L’antica cittadina dello spaghetto amatriciano è lontana una manciata di curve da questo splendido luogo sacro, scrigno artistico posto proprio sotto la parte più aspra dei monti della Laga.

Si trova sulla riva destra del Ferrazza, piccolo affluente del fiume Tronto il più importante dei corsi d’acqua del piceno.

“Il Tronto nasce qui- mi dice Guerino un allevatore della zona - basta avere piedi buoni e salire sul versante occidentale della Laghetta”.
Indica col dito la cima.

Strana etimologia quella del nome Tronto che deriva dall’antichissima città di Truentum situata un tempo alla sua foce e chiamata così per via di un cippo “rotondo” (trondo) simbolo del luogo.

Pare che la città debba la sua nascita a una banda di delinquenti che imperversavano con le loro ruberie sia nel teramano, che nel reatino.
Paesi sperduti della provincia di Teramo come Valle Vaccaro, Macchiatornella, Padula, furono rasi al suolo più di una volta da questi maledetti senza scrupoli.

La città con il suo caos è lontana mille anni luce.
Sono a meno di quindici chilometri dalle profonde acque del lago e poco più di venticinque dall’inizio del tratto teramano della Strada Maestra del Parco nella valle del fiume Vomano.
Miracolosamente, il minuscolo edificio non presenta i danni del maledetto sisma.

Si vive un’armonia rassicurante in una gamma di colori che per definirli occorrerebbe un più vario vocabolario cromatico.
Colpevolmente, turisti stranieri e italiani allettati dai piatti fumanti dei bucatini all’amatriciana, indecisi se preferirli bianchi col guanciale di maiale o rossi con il pachino e i peperoncini cocenti, ingozzati di buon pecorino e agnello di montagna, ignorano la visita a questo posto indimenticabile.

Eppure qui arte e natura si fondono mirabilmente, donando gioia agli occhi.

“E per fortuna…”- dice la signora Elena, una delle incaricate ad aprire il piccolo portale ai visitatori occasionali - altrimenti qui ogni giorno sarebbe la processione della Madonna di Filetto”.
La donna, gentilissima, è allampanata, lunga e pallida.

La Vergine si degnò di apparire, racconta, in un libercolo, l’anziano parroco, Don Sante Paoletti della basilica di Sant’Agostino, ad alcuni agricoltori intenti a lavorare i campi.
 Videro nel crepuscolo della sera, all’ora del “vespero”, emanare un grande bagliore da una piccola statua della Madonna, posta in un’edicola votiva in mezzo al sentiero.

Una luce prodigiosa, canti celestiali e un’apparizione che continuò per giorni davanti a tutta la popolazione della vallata, inginocchiata a pregare.
La donna che ho davanti, non sembra mai contrariata di dover fare spesso la spola tra il piccolo borgo e la chiesa sperduta nella radura.

Un onore e un onere che ogni tanto le peserà soprattutto quando arrivano a rompere le uova nel paniere a mezzogiorno, mentre è davanti ai fornelli.

Mentre racconta entusiasta la storia dell’antica cona votiva, lame di luce si insinuano tra il legno del piccolo portale e l’interno.
Sotto la mirabile volta gotica mi accoglie l’antica immagine affrescata, rappresentante la Madre di Dio lattante con il piccolo Gesù.
E’ di un verismo incredibile.
Tutto intorno, si ammirano dipinti raffiguranti i dottori della chiesa e l’opera insigne del grande Cola d’Amatrice, al secolo Nicola Filotesio.

L’artista, in ricordo del miracolo, ideò in questo luogo un dipinto raffigurante la Madonna corteggiata dalle schiere degli angeli che, con strumenti musicali, suonavano le lodi a Dio.
Le pitture risalenti al XV secolo contengono anche schizzi meravigliosi di abeti bianchi a testimonianza della presenza di questi alberi nei boschi vicini.

La piccola folla in jeans e sandali che ha pregato nella celebrazione Eucaristica ora è tutta dispersa nel verde circostante, tra prati, boschi di larici, querce e abeti.

Il sole primaverile è piacevole.
Tutti sono beatamente stravaccati in panchine comode in attesa che i malcapitati di turno finiscano di cuocere la carne ai ferri sulle fornaci sparse qua e là nella radura.
C’è con loro anche un giovane prelato tutto compunto nel suo completo nero e colletto inamidato.
L’aria che giunge dalla vetta di Cima Lepri è frizzante ma gradevole.

Decido che la prossima tappa debba essere la valle delle cascate nel versante reatino della Laga, proprio di là della località turistica de il “Ceppo” teramano e la foresta del Castellano.

Per la Cona Passatora partendo da Amatrice si raggiunge prima Retrosi, quindi si oltrepassa la frazione di Cossara e prima di arrivare a Ferrazza, poco oltre il cimitero, si continua con una sterrata che in breve permette di raggiungere il Santuario.