KALIPE': Il mio passo libero con San Francesco.
(Libro pubblicato in novembre 2015- Capitolo Primo)
“Benedetta sii tu dal Signore, città santa a Dio fedele, poiché per te molte anime si salveranno e in te molti servi dell’Altissimo abiteranno e da te molti saranno eletti al regno eterno”.
(San Francesco)
Il loro suono volava sulla pianura, sui colli, sulle case, con ali di uccello. Volava nel cielo dei cento campanili, mentre la città santa era come un mantello di pietra scura disteso sulle pendici del monte Subasio, tra muraglie medievali e giardini.
Lo scampanio festoso saliva da Santa Maria degli Angeli e la Porziuncola.
S’incontrava con la melodia tremula dei piccoli bronzi di San Damiano e, passando per il tempio di Santa Chiara, tra le Clarisse della “pianticella di Francesco”, si univa allo scroscio dei suoni rombanti e maestosi della Basilica Superiore.
Ad Assisi, anche in questo ennesimo viaggio alla ricerca del serafico padre, non c’era quel tramestio affliggente che colpisce ogni senso del pellegrino in altre città.
Venivo da un periodo annoiato, vittima di una vita borghese e fiacca. Desideravo essere con il mio santo, sognavo di imitarlo anche se era quasi impossibile.
Volevo ardentemente riannodare il discorso con la natura, con l’uomo e con Dio.
Sapevo bene che non c’era nessun altro luogo in grado di parlare allo spirito umano come Assisi, benedetta dal profetico saluto francescano:
”Benedetta tu, città del Signore”.
Nessun altro luogo avrebbe potuto dare i natali a Francesco, uno dei santi più grandi del mondo cristiano, l’innamorato di Gesù e del suo Vangelo.
Una creatura speciale che trasformò la sua vita in una magnifica avventura, dando tutto l’aiuto possibile a migliaia di altre vite. Era sensazionale respirare la stessa aria che inalava il serafico Padre, sin dal 1182, quando vi nacque da un ricco mercante di stoffe, Pietro da Bernardone e da Giovanna, detta Madama Pica. Due genitori completamente diversi, lui uomo altero, iroso, preso solo dai suoi affari, lei, timorata di Dio, tutta intenta ad inculcare nobili sentimenti al giovanetto figlio.
Assisi: non a caso, Dante Alighieri, salutò questa città eterna, come l’”Oriente”, da cui sorgeva il Sole dello Spirito a riscaldare la terra sempre sconvolta da guerre, odio, orrori.
(Però chi d’esso loco fa parole, non dica Ascesi che direbbe corto, ma dica Oriente se proprio dir vuole).
Le viuzze, strette e tortuose, erano sì popolate ma non affollate. I piccoli negozi di souvenir erano frequentati ma non assaltati.
Dagli spiazzi godevo del paesaggio sotto la città, circondata da verdi campagne a diffondere ovunque pace.
Tutto intorno al borgo, si potevano scorgere distintamente gli elementi essenziali che avevano seguito, come mirabile bussola del cammino, San Francesco, “giullare di Dio”: acqua, grotte e boschi.
Mi sentivo già meglio! Il disagio che alla lunga poteva distruggere la gioia, togliere la pace e rendere nervosi se non cattivi, stava scomparendo in men che non si dica.
Quando visiti i luoghi suggestivi tanto cari al santo, quando ti inginocchi per lodare e benedire il Signore per questa oasi di serenità, ti accorgi che Francesco e Chiara sono sempre lì accanto a te.
Erano stati due giorni da incorniciare. Anche in senso gastronomico, con l’ottima cucina umbra, semplice ma robusta e saporita, profumata e di gusto.
Sui colli di Assisi, immerso nel bosco, avevo visitato le “Carceri”, il convento- eremo minuscolo e spoglio, costruito in pietra nuda d’Umbria. Quella vista spettacolare sulla valle dai colori pastello, la brezza profumata di resina, il colore del cielo di un azzurro diverso dagli altri, avevano riempito il mio cuore. Il silenzio mi faceva rincorrere la forza invisibile della Creazione. Il mio spirito spaziava beato in questa Tebaide dei primi eremiti francescani.
La miniatura di chiesa che mi aveva accolto in mezzo al bosco, era di struggente bellezza. Il nudo sasso dove dormiva il santo mi lasciava sbalordito.
Avevo sognato di diventare santo. Affaticato dal peso delle mie eterne contraddizioni intravedevo la possibilità di fare luce nella mia anima, spesso persa tra egoismi e sensi. Mi sedetti sotto il vetusto leccio dove gli uccelli circondavano il Poverello in cerca di benedizioni. Il silenzio della terra parlava al mio cuore. Non sarei voluto mai andar via.
Un itinerario bellissimo sulle colline umbre mi aveva portato, anni prima, fino a Gubbio, in una esaltante camminata di due giorni. Era stato un pellegrinaggio a ripercorrere il cammino che Francesco fece nel 1206, abbandonando la vita laicale,
per scoprire la forza della fede. Avevo conosciuto luoghi incantevoli: Pieve San Nicola, abitato spartiacque fra Assisi e Valfabbrica, con una vista spettacolo sui due borghi medievali; l’Abbazia dove Francesco sostò nella piccola chiesa di Santa Maria con affreschi di scuola giottesca; la cappella di Pieve Coccolano, l’austera chiesa di Caprignone, la grande abbazia di Vallingegno, scoprendo infine Gubbio e il luogo magico dove fu ammansito il brigante “lupo”.
Ora, ridiscendendo dal colle, tra una distesa di ulivi e cipressi, sotto un cielo colmo di luce, avevo sostato nell'umile cenobio di San Damiano.
Era lì davanti a me nella sua regale povertà. Nude pareti, nude travi, la reggia di “Madonna Povertà”.
Tutto era fuso in unità perfetta: bosco, architettura, povertà, umiltà semplicità, bellezza. Un capolavoro di pace, preghiera, silenzio, rispetto della natura, umanità!
Nel minuscolo oratorio duecentesco, che Francesco aveva destinato alla dolce Chiara e le sorelle povere, avevo pensato con gioia ai passi che proprio qui erano stati mossi dalla piccola Agnese e dalle altre donne votate interamente a Dio. Un collegio di vergini, di “Povere Dame” del grande Signore.
Tutto rispecchiava la semplicità francescana: il chiostro pieno di fiori intorno al pozzo centrale, la minuscola chiesa dalle mura annerite dal tempo, le cellette disarmanti per la loro nudità. Qui era stato custodito il grande crocifisso bizantino davanti al quale, il santo d’Assisi ascoltò la voce di Dio.
Ripensai alla prima grande malattia di Francesco e alle sue preghiere che qui aveva recitato, mi tornò in mente quella mattina del 4 ottobre 1226, quando passò per l’ultima volta, prima di lasciare il mondo, tra monache desolate e frati in pianto.
In quel momento mi era mirabilmente chiaro cosa significasse l’ essere cristiani: umiltà e nascondimento, quella rara virtù per cui uno va in su quando va in giù. Diceva Francesco: “Signore chi siete voi e chi sono io”?
Poi ero giunto al piccolo santuario di Rivo Torto, nel cuore della piana assisiana, accanto a un ruscello frusciante, il primitivo cenacolo del francescanesimo, il tugurio, la catapecchia ora custodita dentro una chiesa grande.
Che brividi pensare alla vita spoglia di Francesco e di Bernardo da Quintavalle e Pietro Cattaneo, i primi a seguire la nuova vita del Poverello, che qui si erano nutriti di patate e erbe selvatiche. Che bello meditare tutti i primitivi compagni, da Frate Leone, ad Angelo, a Masseo, Rufino, Egidio.
Dopo l’irrinunciabile visita alla Porziuncola, uno dei luoghi più sacri della terra, preziosa gemma francescana custodita dalla maestosa cupola del Vignola, il mio “tour dello spirito” finì davanti la tomba di Francesco.
Davanti al nudo sepolcro scavato nel vivo della roccia, quel sarcofago di pietra senza decorazioni, nella semplicità tanto amata dal santo, mi sentii quasi sospeso, per un prodigio, tra cielo e terra.
Le ceneri degli umili e primi fraticelli, intorno alla tomba del maestro, sembravano risplendere nel tenue chiarore della cripta.
Pensavo a quale rivoluzione pacifica e silenziosa abbia realizzato il serafico Padre in così brevi anni di vita, poco meno di quaranta.
E quanta umiltà fosse stata innalzata sopra i superbi!
Francesco era sin da bambino, come racconta il primo biografo, Tommaso da Celano:
“dolce d’animo, amabile nel tratto, ilare nel volto, affabile nel parlare, indulgente verso gli altri, severo con se stesso, grazioso in tutto”.
Che ribaltamento di valori e di idee aveva portato quest’umile uomo, apparentemente insignificante, nel suo mondo! E come appariva inspiegabile per chi non abbia il dono di credere nello Spirito Santo, come abbia potuto trascinare fino a noi, per secoli, il suo messaggio dettato dall'amore senza fine per il Vangelo.
Un agiografo definì il Poverello, “un ragazzo morto in età da uomo, ma col cuore pulsante di bambino”.
Un viaggio dell’anima questo sostare davanti alle pietre sepolcrali nella cripta della basilica in Assisi.
Quelle pietre testimoniavano quale scoglio in tempesta sia stata la vita del santo, perché abbia scelto deliberatamente di dormire in giacigli di roccia.
Avevo capito perché Francesco fosse “semplicemente” una copia perfetta di Gesù Cristo.
Era colui che, per conto di Dio, aveva voluto trasmetterci definitivamente, un messaggio semplice ma terribilmente difficile da porre in atto: è Perfetta Letizia solo amare Dio e il prossimo come se stessi, senza se e senza ma.
Amare gli uomini e tutto il creato di un amore talmente perfetto da travalicare secoli di storia, da rimanere in circolazione per sempre.
Francesco, l’uomo dell’amore, di quell'amore che schiaccia con la sua generosità, il suo illimitato altruismo, la sua generosità verso chi soffre, la sua immane capacità di perdono.
Francesco era entrato davvero nella mia vita. Ero, semplicemente, fregato! Non potevo più esimermi dal sacrificio per gli altri, dall'adorazione per tutto il creato di Dio.
Fu allora che nacque questo libro!
“Dominus benedicat et custodiat te;
Ostendat faciem suam tibi et misereatur tui;
convertat vultum suum ad te et det tibi pacem et benedictionem.
Dominus benedicat, frater Leo, te”.
(Il capolavoro dell’amicizia, la Benedizione solenne a Frate Leone da Francesco).
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