C’è un panorama incomparabile sulla valle dell'Alento.
La vista spazia dall'Adriatico spumeggiante al re degli Appennini, il Gran Sasso.
Il capoluogo Chieti è lì su di un colle che pare poterlo toccare. Tutto intorno colline segnate da profondi calanchi, tra uliveti e vigneti.
Mi riecheggiano nella mente le parole di Ezra Pound:
“La bellezza? Non ci si mette a discutere sul vento d’aprile. Quando lo si incontra ci si rianima come per un pensiero folgorante di Platone o il bel profilo di una statua o di un volto …”.
Tutto vero! La bellezza non si spiega, si ammira.
Qui il panorama sembra trafiggerti per la sua armonia.
È “agathòs”, è “kalos”, buono e bello. È carino, credo, pensare a un Dio soddisfatto di ciò che ha creato. Rimbalza con profondità e poesia, l’immagine di un Creatore artista che contempla ciò che ha lavorato. Il colombo che passa sulla testa è la materializzazione dei miei pensieri dato che nel “Cantico dei Cantici” della Bibbia, questo uccello è simbolo d’amore e di bellezza, quella incantevole che colpisce anche i cuori più duri.
Veramente panoramico Bucchianico, il paese dei Banderesi, gli uomini che nel giorno della festa, il 25 maggio, vestono abiti rituali con bande rosse e azzurre e buffi pennacchi sul copricapo.
Portano le reliquie di Santo Urbano, quello che fu papa dal 222 al 230 e di cui non si hanno tante notizie.
Ma i ballerini di Bucchianico che danzano con i vessilli comunali, sfilando in paese, hanno certezze. La storia ha dell'incredibile. Il santo apparve ai cittadini pugliesi di Troia e li esortò a prelevare le sue ossa per custodirle dentro un reliquario nella bella cattedrale di quel paese. I cittadini pugliesi da Roma diretti a Troia, dovettero fermarsi a Bucchianico per riposare. Da quel momento non fu più possibile riprendere il viaggio.
Ogni qual volta ci provavano, violenti temporali impedivano la partenza. Fu chiaro che il santo voleva rimanere lì. I resti furono affidati ai frati benedettini di Santa Maria Maggiore.
Ma c'è un campione di santità, nato proprio qui, San Camillo de Lellis, il santo della carità, il cui Ordine si riconosce dalla grande croce di stoffa rossa, cucita al centro della veste.
Il mio amico Mauro spezza l’incanto. “Tra un po’ quando arriveranno quelle nuvole in fondo, si alzerà nebbia e avremo qualche problema”.
Qualche problema è un eufemismo.
Le nubi in cielo, di colpo, si mettono a correre come impazzite. In breve scende tanta pioggia da sommergerci. Ripariamo nel vicino convento di San Camillo de Lellis. Si, perché chi ha le sue radici in questo paese, ama profondamente quest'altra figura di santo. La devozione è così grande, così radicata che sono in tanti a dare ai figli il nome Camillo per implorare la protezione del santo concittadino.
La nascita di questo figlio di Bucchianico ha a che fare con i famosi Banderesi. Sentite che storia! Per i credenti ha i tratti inequivocabili del divino.
Madonna Camilla, donna bella e piena di vita, fu presa dalle doglie del parto il 25 maggio 1550, mentre partecipava alla messa per la festa del patrono Sant'Urbano.
La gente in piazza era tutta presa dai preparativi per i festeggiamenti della sagra dei Banderesi. La donna, insieme al marito Giovanni dovette riparare in una stalla e qui, novello Cristo, nacque il futuro santo della Carità. Come spesso accade nella vita dei santi, Camillo ebbe una gioventù disastrosa, tra dipendenza dal gioco delle carte, bere e un carattere da fannullone.
La vita per il giovane di Bucchianico, cambiò d'improvviso. S'incontrò con Gesù, grazie a San Filippo Neri che divenne suo padre spirituale in un periodo di grave malattia in cui si convinse di dover morire. La malattia non lo abbandonò più, ma il giovane pur piagato, mentre era a San Giovanni Rotondo e assisteva dei malati, avvertì il desiderio di istituire un gruppo di uomini che potessero confortare i fratelli nel bisogno. Nacque allora la Compagnia dei Servi degli Infermi e, subito dopo, Camillo fu ordinato sacerdote.
Fu questa Compagnia di religiosi dalla croce di stoffa rossa, che gestì l'emergenza sanitaria della peste del 1590 a Roma.
In breve i Camilliani si diffusero in tutta Italia e le fondazioni dedicate al nome del santo, si moltiplicarono nell'assistenza qualificata a tutti i tipi di malattia. San Camillo morì il 1614 e il papa lo proclamò santo nel 1746. Anni dopo fu dichiarato Patrono degli Ospedali e della Carità, oltre che degli infermieri e dei portatori di pace maker al cuore. Infine il papa Paolo VI lo definì con San Gabriele dell'Addolorata, Patrono d'Abruzzo.
La chiesa-santuario e l'annesso convento a Bucchianico, nel centro del paese, rappresentano una delle più particolari e precoci realizzazioni barocche in Abruzzo.
La costruzione del convento, racconta la suora che ci accoglie all'ingresso, fu iniziata nel 1605, proseguì per molti anni fino ai decisivi interventi della prima metà del XX secolo.
Il chiostro nella semplicità del suo schema a quadrato e nella nudità delle sue strutture, riecheggia spunti tradizionali di architettura monastica del medioevo. La chiesa mi pare bella e di ispirazione gesuitica. Ha una ricca scenografia che circonda l'altare maggiore, con un alto valore spirituale nelle numerose reliquie custodite.
Bello ricordare che il santo partecipò alla costruzione del complesso come muratore e manovale, anche se riuscì a vedere il completamento del convento ma non quello della chiesa.
La suora, gentilissima, ci accompagna nella bella cripta che nel 1959, un anno dopo la mia nascita, fu realizzata su disegno del camilliano, Padre Giuseppe Bini. Un impatto notevole tra marmi preziosi, mosaici, grandi vetrate istoriate che circondano il simulacro del santo nella posizione di dolce e serena morte.
Vi consiglio la visita alla mostra dedicata al santo dove è possibile ammirare vestiti, bende, sfilacci di lino per medicare e tamponare le piaghe che affliggevano Camillo. In più, tra le reliquie, spiccano le ossa del piede e l'ampolla contenente il sangue raggrumato e il frammento del suo cuore.
La visita al santo di chi soffre nel corpo e nello spirito è stata davvero interessante.
Decidiamo di pranzare nella vicina Chieti.
Info:
Si raggiunge Bucchianico con le autostrade A14 e A25 uscita Chieti. Proseguire sulla SS81. Il santuario è aperto dalle 7,30 alle 12,30 e 15,30 - 19.
Due i ristoranti in paese che mi dicono cucinino bene: Da Silvio -tel. 0871381175 e Ferrara - 382157.
Al Centro di Spiritualità accolgono pellegrini per visite, ritiri, giornate di riposo. Tel.0871 381139.
Il convento ha il numero di telefono 0871 381121
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sabato 15 ottobre 2016
domenica 18 settembre 2016
La lenticchia con la L maiuscola!
Quelle di Ustica sono le più piccole d’Italia.
Quelle nostre abruzzesi di Santo Stefano di Sessanio sono tra le più ricche di nutrienti. E poi, nel Lazio, c’è la Valle di Onano che ne produce di generose dimensioni.
Ma se parli di lenticchie si finisce a Castelluccio di Norcia.
Perlomeno prima!
Adesso, purtroppo, l’immaginario collettivo associa a questo splendido territorio, solo e unicamente il terremoto.
Arquata del Tronto è lì, unico spartiacque il massiccio dei Sibillini, tra Vettore, Cima Redentore, monte Priore.
Questo altopiano piantato nel cuore dei Sibillini e dei luoghi tanto amati da San Francesco d’Assisi, questo luogo magico dove nasce la lenticchia con la L maiuscola, è sempre stato martoriato da una lunga serie di sisma.
La spianata in cui da secoli si coltiva il prezioso legume, era in epoca preistorica, un lago di montagna dove si specchiava la cima nervosa del monte Vettore. Gli esperti dicono che fu proprio un terremoto a far tracimare il lago.
Addirittura in antichi manoscritti si leggerebbe che il clima da quel momento si irrigidì a tutto vantaggio della coltura di lenticchia, dato che il legume cresce meglio e gustoso in contesti quasi proibitivi: estati caldissime e inverni freddissimi!
A Castelluccio ancora oggi si perpetua la tradizione del pellegrinaggio fino alla chiesa di santa Scolastica a Norcia per rivolgere la preghiera di un proficuo maltempo!
Intervistai anni fa Norma, la figlia di una mitica “CARPIRINA”. Erano le dame che raccoglievano questo regale prodotto: dieci ore al giorno piegate sul terreno. Erano le donne delle lenticchie che facevano il paio con le mondine del riso.
Mi raccontò di un mondo fantastico fatto di lavoro duro, canti e gioia comunque. Nessuna rivendicazione salariale, solo stornelli.
Ingaggiate dai proprietari terreni nella piazza di Castelluccio, le donne venivano pagate per la quantità di terreno lavorato. La sera andavano a dormire nei fienili che i padroni mettevano a disposizione, insieme a un pasto frugale.
Non è storia di oggi con i migranti trattati duramente, tra caporalati e vita grama?
Oggi quella gioia è scomparsa insieme alle carpirine.
Tristezza, distruzione del terremoto, fanno il paio con raccolti che man mano si sono fatti più onerosi e meno remunerativi e dagli anni ’60 tutto è meccanizzato e tutto più difficile anche per le condizioni climatiche. La lenticchia venduta a peso d’oro è ancora la migliore, piccola, piatta, tonda e dal colore che sfuma tra verde e marrone nocciola, ed è la stessa che arriverà sulle nostre tavole con lo zampone della mezzanotte di Capodanno.
Ma quest’anno mancherà ancor più il sorriso!
Scrivevo tempo fa a proposito di questo luogo tra i più belli d'Italia....
“C’è un grande prato verde dove nascono speranze che si chiamano ragazzi. Quello è il grande prato dell’amore”. Cantava cosi Gianni Morandi alla fine dei fantastici anni ’60.
A Castelluccio, luogo per qualcuno sconosciuto, in quell'enorme prato che è Piano Grande, nascono anche fiori di tutti i colori del mondo.
Un’ esplosione di natura che coinvolge anche Piano Piccolo e Pian Perduto, in quell'immensa distesa che si estende sotto la cima severa del monte Vettore. È uno spettacolo mozzafiato che parla di Dio e che si svolge da inizio giugno, per terminare senza replica, intorno alla metà di luglio. Carovane di camper,auto, moto, fanno tappa in questa immensa pianura. Escursionisti da ogni parte d’Italia, arrivano fin qui per marciare tra i fiori e immortalare con uno scatto fotografico, la bellezza di Madre Natura.
Dapprima esce una teoria infinita di fiori gialli che crescono promiscui, fra orzo e lenticchia. Poi, pian piano fanno capolino i papaveri rosso vermiglio. Infine, come in un crescendo rossiniano, arrivano prepotenti e alteri i blu intensi dei fiordalisi che spuntano a inizio luglio. Nel Pian Perduto, proprio sotto delle immense balze verdi, il trapunto è di fiori bianchi, misti a piccoli soffioni che volano via al primo vento d’inizio estate.
Proprio qui il Signore ha voluto crearsi un luogo dove la natura possa finalmente andare a braccetto con l’uomo.
Mi piace immaginare che San Francesco, di tanto in tanto, venga qui a pregare come pellegrino nella notte dell’anima bisognosa di luce, magari cantando
“Andiamo, andiamo, ventiquattro piedi siamo …” del fortunato musical “Forza venite gente”, sulle scene dal 1981.
Anche noi che santi non siamo, possiamo però mettere un piede avanti all'altro e camminare su questa piana benedetta da Dio, splendida comunque in qualsiasi momento dell’anno. Il clima che si gode da queste parti fa si che i contadini possano raccogliere le famose lenticchie senza necessità di usare pesticidi.
Tutto rigorosamente biologico. Tutto naturale. Anche la famosa norcineria che da queste parti e fino a Norcia, una trentina di chilometri, è un tripudio di sapori, altro non è che il risultato di allevamenti naturali, animali che vivono allo stato brado.
Una sorta di giardino dell’Eden tra erbe profumate e lenticchie saporose.
L’unico centro abitato, Castelluccio, conta un centinaio di anime ed è il cuore pulsante del giovane parco nazionale dei Monti Sibillini, area protetta dal 1993.
Non preoccupatevi della fioritura ormai finita. Da queste parti ogni stagione è tutta da vivere.
A me piace molto, ad esempio, l’atmosfera invernale che può far volare una fervida immaginazione: scompare l’atmosfera mediterranea e arriva la stagione del Grande Nord,tra nebbie, piccole gocce di pioggia che scendono a bagnare un panorama lunare.
Allora, è bello crearsi nella testa una sorta di fiaba dove le fate del Nord Europa decidono di trovare dimora in queste parti, per sistemarsi sulle rive del minuscolo lago di Pilato, alla base delle soprastanti creste di Cima Redentore, lì dove la leggenda inquietante fa sprofondare il personaggio biblico insieme alla biga con i cavalli al galoppo.
O ancora immaginare esseri minuscoli dalla faccia aggrinzita che vivono nelle vicine gole dell' Infernaccio, o la celeberrima Sibilla cumana, il cui antro si troverebbe proprio nel monte a lei intitolato, dietro il Vettore.
Fiabe, leggende, storie incredibili.
Di vero c’è soltanto l’opera incredibile di Dio che, in qualsiasi momento si superi il valico di Forca Canapine e si apra la vista sulla piana, infiorata o no, ci si rende conto che si avrebbe bisogno di qualche occhio in più, perché due rischiano di essere pochi e di mortificare tanta bellezza. Piccole ondulazioni, macchie di boschi, uno a forma di stivale voluto niente di meno che da Mussolini, rettilinei che ti pare di essere in California, il bello della vita è tutto qui.
Info www.sibillini.net o telefonare al comune di Visso, sede principale del parco.
Quelle nostre abruzzesi di Santo Stefano di Sessanio sono tra le più ricche di nutrienti. E poi, nel Lazio, c’è la Valle di Onano che ne produce di generose dimensioni.
Ma se parli di lenticchie si finisce a Castelluccio di Norcia.
Perlomeno prima!
Adesso, purtroppo, l’immaginario collettivo associa a questo splendido territorio, solo e unicamente il terremoto.
Arquata del Tronto è lì, unico spartiacque il massiccio dei Sibillini, tra Vettore, Cima Redentore, monte Priore.
Questo altopiano piantato nel cuore dei Sibillini e dei luoghi tanto amati da San Francesco d’Assisi, questo luogo magico dove nasce la lenticchia con la L maiuscola, è sempre stato martoriato da una lunga serie di sisma.
La spianata in cui da secoli si coltiva il prezioso legume, era in epoca preistorica, un lago di montagna dove si specchiava la cima nervosa del monte Vettore. Gli esperti dicono che fu proprio un terremoto a far tracimare il lago.
Addirittura in antichi manoscritti si leggerebbe che il clima da quel momento si irrigidì a tutto vantaggio della coltura di lenticchia, dato che il legume cresce meglio e gustoso in contesti quasi proibitivi: estati caldissime e inverni freddissimi!
A Castelluccio ancora oggi si perpetua la tradizione del pellegrinaggio fino alla chiesa di santa Scolastica a Norcia per rivolgere la preghiera di un proficuo maltempo!
Intervistai anni fa Norma, la figlia di una mitica “CARPIRINA”. Erano le dame che raccoglievano questo regale prodotto: dieci ore al giorno piegate sul terreno. Erano le donne delle lenticchie che facevano il paio con le mondine del riso.
Mi raccontò di un mondo fantastico fatto di lavoro duro, canti e gioia comunque. Nessuna rivendicazione salariale, solo stornelli.
Ingaggiate dai proprietari terreni nella piazza di Castelluccio, le donne venivano pagate per la quantità di terreno lavorato. La sera andavano a dormire nei fienili che i padroni mettevano a disposizione, insieme a un pasto frugale.
Non è storia di oggi con i migranti trattati duramente, tra caporalati e vita grama?
Oggi quella gioia è scomparsa insieme alle carpirine.
Tristezza, distruzione del terremoto, fanno il paio con raccolti che man mano si sono fatti più onerosi e meno remunerativi e dagli anni ’60 tutto è meccanizzato e tutto più difficile anche per le condizioni climatiche. La lenticchia venduta a peso d’oro è ancora la migliore, piccola, piatta, tonda e dal colore che sfuma tra verde e marrone nocciola, ed è la stessa che arriverà sulle nostre tavole con lo zampone della mezzanotte di Capodanno.
Ma quest’anno mancherà ancor più il sorriso!
Scrivevo tempo fa a proposito di questo luogo tra i più belli d'Italia....
“C’è un grande prato verde dove nascono speranze che si chiamano ragazzi. Quello è il grande prato dell’amore”. Cantava cosi Gianni Morandi alla fine dei fantastici anni ’60.
A Castelluccio, luogo per qualcuno sconosciuto, in quell'enorme prato che è Piano Grande, nascono anche fiori di tutti i colori del mondo.
Un’ esplosione di natura che coinvolge anche Piano Piccolo e Pian Perduto, in quell'immensa distesa che si estende sotto la cima severa del monte Vettore. È uno spettacolo mozzafiato che parla di Dio e che si svolge da inizio giugno, per terminare senza replica, intorno alla metà di luglio. Carovane di camper,auto, moto, fanno tappa in questa immensa pianura. Escursionisti da ogni parte d’Italia, arrivano fin qui per marciare tra i fiori e immortalare con uno scatto fotografico, la bellezza di Madre Natura.
Dapprima esce una teoria infinita di fiori gialli che crescono promiscui, fra orzo e lenticchia. Poi, pian piano fanno capolino i papaveri rosso vermiglio. Infine, come in un crescendo rossiniano, arrivano prepotenti e alteri i blu intensi dei fiordalisi che spuntano a inizio luglio. Nel Pian Perduto, proprio sotto delle immense balze verdi, il trapunto è di fiori bianchi, misti a piccoli soffioni che volano via al primo vento d’inizio estate.
Proprio qui il Signore ha voluto crearsi un luogo dove la natura possa finalmente andare a braccetto con l’uomo.
Mi piace immaginare che San Francesco, di tanto in tanto, venga qui a pregare come pellegrino nella notte dell’anima bisognosa di luce, magari cantando
“Andiamo, andiamo, ventiquattro piedi siamo …” del fortunato musical “Forza venite gente”, sulle scene dal 1981.
Anche noi che santi non siamo, possiamo però mettere un piede avanti all'altro e camminare su questa piana benedetta da Dio, splendida comunque in qualsiasi momento dell’anno. Il clima che si gode da queste parti fa si che i contadini possano raccogliere le famose lenticchie senza necessità di usare pesticidi.
Tutto rigorosamente biologico. Tutto naturale. Anche la famosa norcineria che da queste parti e fino a Norcia, una trentina di chilometri, è un tripudio di sapori, altro non è che il risultato di allevamenti naturali, animali che vivono allo stato brado.
Una sorta di giardino dell’Eden tra erbe profumate e lenticchie saporose.
L’unico centro abitato, Castelluccio, conta un centinaio di anime ed è il cuore pulsante del giovane parco nazionale dei Monti Sibillini, area protetta dal 1993.
Non preoccupatevi della fioritura ormai finita. Da queste parti ogni stagione è tutta da vivere.
A me piace molto, ad esempio, l’atmosfera invernale che può far volare una fervida immaginazione: scompare l’atmosfera mediterranea e arriva la stagione del Grande Nord,tra nebbie, piccole gocce di pioggia che scendono a bagnare un panorama lunare.
Allora, è bello crearsi nella testa una sorta di fiaba dove le fate del Nord Europa decidono di trovare dimora in queste parti, per sistemarsi sulle rive del minuscolo lago di Pilato, alla base delle soprastanti creste di Cima Redentore, lì dove la leggenda inquietante fa sprofondare il personaggio biblico insieme alla biga con i cavalli al galoppo.
O ancora immaginare esseri minuscoli dalla faccia aggrinzita che vivono nelle vicine gole dell' Infernaccio, o la celeberrima Sibilla cumana, il cui antro si troverebbe proprio nel monte a lei intitolato, dietro il Vettore.
Fiabe, leggende, storie incredibili.
Di vero c’è soltanto l’opera incredibile di Dio che, in qualsiasi momento si superi il valico di Forca Canapine e si apra la vista sulla piana, infiorata o no, ci si rende conto che si avrebbe bisogno di qualche occhio in più, perché due rischiano di essere pochi e di mortificare tanta bellezza. Piccole ondulazioni, macchie di boschi, uno a forma di stivale voluto niente di meno che da Mussolini, rettilinei che ti pare di essere in California, il bello della vita è tutto qui.
Info www.sibillini.net o telefonare al comune di Visso, sede principale del parco.
martedì 5 luglio 2016
Sulle strade del medioevo: Bominaco e i suoi tesori.
L’altopiano di Navelli, in provincia dell'Aquila, rimane un luogo straordinario anche se l’uomo negli ultimi anni sta cercando di deturparlo con un orrido rigurgito di asfalto e cemento tra svincoli di accesso che farebbero pensare a vicine megalopoli anziché deliziosi paesini.
Borghi antichi si elevano sulla piana, dopo il sisma del 2009, semi abbandonati.
Nonostante tutto i grandi spazi e le distese verdi di mandorli resistono. Ancora crescono gli orapi selvaggi, mentre intorno nessuno può togliere l’indimenticabile vista di monti e antichi abitati turriti.
Questa era il “fiume d’erba silente” della transumanza con le chiese tratturali, luoghi di sosta spirituale, i preziosi resti della romana Peltuinum e il romanico immortale di Bominaco.
La terra dello zafferano che un giorno veniva calcata dai misteriosi Guerrieri di Capestrano, quelli dal cappello a larga falda.
Dovrebbe essere un luogo da conservare … dovrebbe.
Dovrebbe essere gridato il principio della intangibilità del patrimonio ambientale e artistico, dovrebbe essere fermato chi aspira a scippare la collettività del suo patrimonio di bellezza pervenuto dall'antichità.
E invece si continua a deturpare tutto con tappeti di bitume.
Quella volta c’eravamo sorbiti una lunga escursione che dalla piana di Navelli, una manciata di chilometri dal capoluogo aquilano, attraverso viottoli colonizzati dall'erba alta e resti del tratturo Centurelle- Montesecco, per Collepietro, aveva portato i nostri piedi al borgo antico di Caporciano e poi nella piccola frazione di Bominaco.
Collepietro, in particolare, è uno splendido esempio di fortificazione medievale con stradine che convergono verso la piazza centrale dove insiste la bella parrocchiale dedicata a San Giovanni Battista.
Il piccolo tratturo era una deviazione del grande percorso Regio aquilano, autostrada verde, un tempo solcata da migliaia di bestie e uomini. Toccava le propaggini meridionali del Gran Sasso e aveva, lungo il percorso della piana di Navelli, una serie di piccole chiese, dove i transumanti pregavano Dio per il buon viaggio e si accampavano durante la notte.
Bominaco è uno dei tanti minuscoli borghi aquilani che vale la pena di ammirare. Anticamente era un luogo molto conosciuto che si caratterizzava per la presenza monastica forte e per essere un luogo strategico anche per il passaggio di chierici, pastori e carbonai.
Era un luogo di scambi commerciali. Oggi è ben lontano dalla vivacità economica e culturale di un tempo. Ma tutto è suggestivo, anche il fascino del silenzio.
Il posto si chiamava Momenaco, o Mommonacum (luogo dei monaci), ed era il punto di ristoro per chi puntava decisamente ad arrivare sulle coste adriatiche.
Questa era anche la terra dei Vestini, prima che giungessero anche qui, inesorabili, le legioni di Cesare.
Le imponenti mura raccontano della resa di un popolo che scomparve subito dopo, decimato da guerre e pestilenze. Oggi le case hanno poco più di ottanta anime.
Noi eravamo arrivati qui per poter ammirare i due monumenti benedettini di gran rilievo che caratterizzano il posto.
Prima di riempirci gli occhi del ciclo pittorico del meraviglioso oratorio del San Pellegrino e ammirare la chiesa di Santa Maria Assunta, in attesa che qualcuno venisse ad aprirci le porte d’ingresso, ci mettemmo a conversare amenamente sotto un grosso tronco di quercia. Era davvero un maggio caldo.
Mauro, dall'alto della sua immensa esperienza di macina chilometri, guardando i suoi piedi, mi disse: “Bisognerebbe onorarli e ringraziarli ogni istante. Ci portano ovunque e senza di essi non vedremmo niente di questo mondo”.
Ricordai che nelle nostre frequenti escursioni, trovandoci davanti alle limpide acque di un torrente, lui toglieva pedule e calzini e rinfrescava le estremità per lunghi minuti.
Qualche volta si denudava, senza remore, e si tuffava nelle acque fredde, uscendone fuori costipato ma felice come un bambino davanti alla tavoletta di cioccolato.
Pensai alla famosa “lavanda dei piedi” di biblica memoria, che Gesù volle fare ai suoi impolverati discepoli. Il Vangelo lo narra come atto di umiltà, ma forse dovremmo vederlo come gesto di gloria per gli arti che dovevano portare ovunque il messaggio della Buona Notizia.
Nei tanti incontri che il mio camminare mi ha regalato, ho sempre notato il contrasto tra l’uomo di città, quello preso dalla velocità, dai pensieri sfibrati, dalla pingue motilità intellettuale e l’uomo dei boschi, quello dalla lucida tranquillità, dalle verità nascoste tra le piccole pieghe di una esistenza serena e poco dipendente da inopportune leggi mutevoli del progresso.
Anche per Mauro era così.
La sua vita mentale era piena di saggezza pur essendo un coacervo di pochi strumenti e molta manualità. Un insieme di vita vera, vissuta all'ombra degli alberi tra gli spazi più belli del mondo, lontano mille anni luce dai pensieri impazziti di uomini che cambiano, mutano in un istante, fragili schegge di vita folle e breve. Lo adoravo per questo suo essere distante un’eternità da tutti noi insonni privi di pace.
Cercavo mentalmente un posto dove non fosse stato a camminare, che so la Francigena, Compostela, il Cammino di San Tommaso. Lui era stato ovunque. Per coste o per montagne, per colli o per fossi, lui era stato ovunque.
Mi correggo: quasi ovunque.
Fu dentro all'Oratorio, dedicato, chissà perché, all'abate San Pellegrino,contemporaneo di Cristo sconosciuto da queste parti, che scoprii un posto dove non era mai arrivato.
La signora, dal ghigno facile, arrivò trafelata e attaccò per non essere attaccata: “Dovevate telefonare prima. All'ultimo momento non è che posso far miracoli. Ho anch’io una mia vita”. Interruppi le sue litanie ricordando che c’eravamo guardati bene dal lamentarci dell’attesa. A pensarci bene, avevamo aspettato qualcosa come quasi un’ora.
Il tempo, quando Mauro snocciola il suo decalogo di buona vita, diventa davvero un optional, un simpatico orpello di cui ridere.
All'interno del San Pellegrino, mi sentii tramortire! L’immagine che ci accolse fu quella di San Cristoforo.La custode, evidentemente preparata, svelò che quella figura di santo serviva per invitare i fedeli alla preghiera. Era credenza di tempi antichi che vedere l’immagine preservasse il visitatore, almeno per quel giorno, da una morte improvvisa nelle ore immediatamente successive.
Sapete com'è? Mai dire mai. Feci anche io una preghiera.
Ero stato altre volte in visita dentro questo gioiello del passato medioevale abruzzese, ma stavolta era, se possibile, da mettere in prima pagina nell'album dei ricordi più belli. Davanti agli occhi c’era un tripudio di colori e figure da vertigine.
C’era la vita del Cristo e anche quella decisamente minore del monaco San Pellegrino, unitamente a un singolare Giudizio Universale sparso qua e là a destra e a sinistra, dove spiccava l’immagine più terribile, quella di San Michele Arcangelo che pesa le anime con la stadera. I dannati torturati dal demonio erano impressionanti, se messi di fronte a un San Pietro quasi gongolante, intento ad aprire a pochi le porte del Paradiso.
Ma forse il gioiello più grande era l’inedito calendario monastico-contadino delle mansioni svolte dai frati nel famoso “ora et labora” di benedettina memoria.
I segni zodiacali venivano evidenziati da figure eleganti di cavalieri su cavalli bardati, improbabili contadini con vesti belle, certamente lontane dalle realtà popolane.
Una leggenda racconta che l’oratorio fu fatto costruire dal re Carlo nell' VIII secolo, è ricordato in una iscrizione in pietra. E ci si può chiedere: di quale Carlo parliamo, forse il Magno? O forse il Calvo?
E la ricostruzione successiva a un disastroso terremoto, venne affidata all'abate Teodino, un vero esperto, nel medioevo, di ristrutturazioni sacre. I lavori restituirono un oratorio più piccolo come ampiezza e più grande come arte.
Si, perché parliamo di una minuscola aula con volta a botte tra grifi e draghi in pietra, impreziosita dal più ricco ciclo pittorico medievale dell’intero Abruzzo.
In un comprensorio come quello aquilano dove da oltre sette anni dal terremoto, è impossibile trovare una chiesa senza imbracature e puntelli, dove hanno chiuso nel cuore della città di Aquila, Collemaggio e San Berardino per pericoli di crolli, questo doppio tempio dell’anima è uscito indenne dal disastro.
E sì che l’abbazia del borgo medievale ha tutto simile a Santa Maria ad Cryptas nella vicina Fossa, chiesa che ha avuto seri danni in tutto il perimetro di struttura.
Ci recammo poi nell’adiacente badia dell’Assunta, immersa tra pini neri e silenzio sacro. Un bell'esempio di romanico basilicale, simbolo dell’austera e laboriosa regola benedettina. Santa Maria ha un passato prestigioso che si perde nella notte dei tempi. Era dipendenza dell’abbazia di Farfa, poi di quella di Valva e, nel X secolo, aveva una notevole importanza.
Ero preso dalla gioia di poter ammirare con attenzione, il bell'ambone, il ciborio e il candelabro pasquale. La semplicità della facciata non corrispondeva alla ricchezza dell’interno, tre navate e tre absidi rivestiti da un bel soffitto.
Le stesse absidi semicircolari, impreziosiscono all'esterno la facciata posteriore.
Il magnifico ambone era lì, pareva attendermi sin da quando fu realizzato nel 1180, per mostrarsi in tutta la sua bellezza. Quattro eleganti colonne con capitelli scolpiti in stile corinzio dove si alternano tori alati, aquile e, nell'architrave, scene di animali e vita quotidiana, fino ad arrivare a una scena cruenta: un branco di lupi che sgozza un agnello, chiara allegoria del Bene e del male in lotta eterna.
Pensai che l’abate Giovanni, il committente dell’opera era davvero un tosto. Il tutto era impreziosito dal ciborio e dal pregevole candelabro del XIII secolo a completare l’armoniosa composizione del catino absidale, illuminato dal bianco della pietra e dalla luce delle piccole finestre a feritoia, una delle quali notai, aveva impresso nella epigrafe il tema conduttore della chiesa: “Virgo Celestiale” .
Non sarebbe stata però una giornata indimenticabile se non avessimo visitato i resti del castello e della torre circolare di avvistamento, chiusa dal XIII secolo, da un recinto di forma trapezoidale.
Salimmo così verso la piccola montagna davanti, in una scena surreale. Il sentiero evidente, pur agevole, era costellato di piccole pietre aguzze e cespugli spinosi. Per me, affascinato da quella torre dove avrei ammirato un panorama indimenticabile, non c’erano sassi o rovi. Era come se tutto fosse gomma o spugna, qualcosa di delicato su cui passare. I sentieri impervi si addolciscono quando c’è passione. Arrivati in cima fui gratificato da una veduta spettacolare. Dai ruderi del castello, risalente al XIII secolo e della torre di avvistamento del XV, si apriva ai nostri occhi mezzo Abruzzo. Vedevo distintamente Rocca Calascio, la terra delle Baronie, i paesi dello zafferano, il Gran Sasso, fino al mare Adriatico che si intuiva dietro una sorta di cortina fumogena di nuvole grasse.
Era un gran bel vedere da questa opera difensiva che pareva vigilare silenziosa sull'antico complesso abbaziale che un tempo annoverava anche un grande monastero, oggi scomparso, un' antica abbazia del mille, dipendenza della grande Farfa, con mura che si affacciavano meravigliosamente sulla grande piana, tra distese arate, piccoli poderi, paesini fortificati.
La struttura fu rasa al suolo dalle indiavolate truppe di Fortebraccio da Montone, il famoso capitano di ventura nei primi anni del 400 durante la sanguinosa guerra tra Angioini e Aragonesi.
Capii come funzionava il sistema di allarmi visivi che collegavano le varie torri di avvistamento, quando fui in cima. La strategica posizione del recinto fortificato fu chiara. Permetteva di dominare un’ampia porzione di territorio. Un presidio a guardia di Caporciano, San Pio delle Camere, e Barisciano verso L’Aquila.
Appunti di viaggio:
Bominaco si raggiunge seguendo la statale 17 che congiunge L’Aquila a Bussi. Il capoluogo si raggiunge agevolmente con l’autostrada A24 Teramo Roma, mentre Bussi ha il suo casello nell'autostrada A25 Roma Pescara. Poi, se avete buone gambe e orientamento camminate nella piana di Navelli fino al km. 30 per Bominaco. In macchina è veloce l’arrivo. All'altezza di San Pio delle Camere, vedete il bivio che porta a Caporciano. Da lì se ve la fate a piedi sono tre chilometri per la frazione di Bominaco, altrimenti con l’auto sono pochi minuti.
L’accesso al complesso abbaziale, cui si entra attraverso un cancello in ferro, è gratuito. Un cartello avverte che le chiavi sono custodite da gente del posto e ci sono i numeri per contattarli. Poi, lasciate un’offerta!
Per altre informazioni municipio Caporciano 086293731.
Non vi lascio indicazioni per mangiare. Ovunque cucinano ricette con zafferano e verdure tipiche dell’aquilano. Io ho mangiato bene al ristorante del borgo che si chiama “A Bominaco”, non lontano dai monumenti sacri.
Borghi antichi si elevano sulla piana, dopo il sisma del 2009, semi abbandonati.
Nonostante tutto i grandi spazi e le distese verdi di mandorli resistono. Ancora crescono gli orapi selvaggi, mentre intorno nessuno può togliere l’indimenticabile vista di monti e antichi abitati turriti.
Questa era il “fiume d’erba silente” della transumanza con le chiese tratturali, luoghi di sosta spirituale, i preziosi resti della romana Peltuinum e il romanico immortale di Bominaco.
La terra dello zafferano che un giorno veniva calcata dai misteriosi Guerrieri di Capestrano, quelli dal cappello a larga falda.
Dovrebbe essere un luogo da conservare … dovrebbe.
Dovrebbe essere gridato il principio della intangibilità del patrimonio ambientale e artistico, dovrebbe essere fermato chi aspira a scippare la collettività del suo patrimonio di bellezza pervenuto dall'antichità.
E invece si continua a deturpare tutto con tappeti di bitume.
Quella volta c’eravamo sorbiti una lunga escursione che dalla piana di Navelli, una manciata di chilometri dal capoluogo aquilano, attraverso viottoli colonizzati dall'erba alta e resti del tratturo Centurelle- Montesecco, per Collepietro, aveva portato i nostri piedi al borgo antico di Caporciano e poi nella piccola frazione di Bominaco.
Collepietro, in particolare, è uno splendido esempio di fortificazione medievale con stradine che convergono verso la piazza centrale dove insiste la bella parrocchiale dedicata a San Giovanni Battista.
Il piccolo tratturo era una deviazione del grande percorso Regio aquilano, autostrada verde, un tempo solcata da migliaia di bestie e uomini. Toccava le propaggini meridionali del Gran Sasso e aveva, lungo il percorso della piana di Navelli, una serie di piccole chiese, dove i transumanti pregavano Dio per il buon viaggio e si accampavano durante la notte.
Bominaco è uno dei tanti minuscoli borghi aquilani che vale la pena di ammirare. Anticamente era un luogo molto conosciuto che si caratterizzava per la presenza monastica forte e per essere un luogo strategico anche per il passaggio di chierici, pastori e carbonai.
Era un luogo di scambi commerciali. Oggi è ben lontano dalla vivacità economica e culturale di un tempo. Ma tutto è suggestivo, anche il fascino del silenzio.
Il posto si chiamava Momenaco, o Mommonacum (luogo dei monaci), ed era il punto di ristoro per chi puntava decisamente ad arrivare sulle coste adriatiche.
Questa era anche la terra dei Vestini, prima che giungessero anche qui, inesorabili, le legioni di Cesare.
Le imponenti mura raccontano della resa di un popolo che scomparve subito dopo, decimato da guerre e pestilenze. Oggi le case hanno poco più di ottanta anime.
Noi eravamo arrivati qui per poter ammirare i due monumenti benedettini di gran rilievo che caratterizzano il posto.
Prima di riempirci gli occhi del ciclo pittorico del meraviglioso oratorio del San Pellegrino e ammirare la chiesa di Santa Maria Assunta, in attesa che qualcuno venisse ad aprirci le porte d’ingresso, ci mettemmo a conversare amenamente sotto un grosso tronco di quercia. Era davvero un maggio caldo.
Mauro, dall'alto della sua immensa esperienza di macina chilometri, guardando i suoi piedi, mi disse: “Bisognerebbe onorarli e ringraziarli ogni istante. Ci portano ovunque e senza di essi non vedremmo niente di questo mondo”.
Ricordai che nelle nostre frequenti escursioni, trovandoci davanti alle limpide acque di un torrente, lui toglieva pedule e calzini e rinfrescava le estremità per lunghi minuti.
Qualche volta si denudava, senza remore, e si tuffava nelle acque fredde, uscendone fuori costipato ma felice come un bambino davanti alla tavoletta di cioccolato.
Pensai alla famosa “lavanda dei piedi” di biblica memoria, che Gesù volle fare ai suoi impolverati discepoli. Il Vangelo lo narra come atto di umiltà, ma forse dovremmo vederlo come gesto di gloria per gli arti che dovevano portare ovunque il messaggio della Buona Notizia.
Nei tanti incontri che il mio camminare mi ha regalato, ho sempre notato il contrasto tra l’uomo di città, quello preso dalla velocità, dai pensieri sfibrati, dalla pingue motilità intellettuale e l’uomo dei boschi, quello dalla lucida tranquillità, dalle verità nascoste tra le piccole pieghe di una esistenza serena e poco dipendente da inopportune leggi mutevoli del progresso.
Anche per Mauro era così.
La sua vita mentale era piena di saggezza pur essendo un coacervo di pochi strumenti e molta manualità. Un insieme di vita vera, vissuta all'ombra degli alberi tra gli spazi più belli del mondo, lontano mille anni luce dai pensieri impazziti di uomini che cambiano, mutano in un istante, fragili schegge di vita folle e breve. Lo adoravo per questo suo essere distante un’eternità da tutti noi insonni privi di pace.
Cercavo mentalmente un posto dove non fosse stato a camminare, che so la Francigena, Compostela, il Cammino di San Tommaso. Lui era stato ovunque. Per coste o per montagne, per colli o per fossi, lui era stato ovunque.
Mi correggo: quasi ovunque.
Fu dentro all'Oratorio, dedicato, chissà perché, all'abate San Pellegrino,contemporaneo di Cristo sconosciuto da queste parti, che scoprii un posto dove non era mai arrivato.
La signora, dal ghigno facile, arrivò trafelata e attaccò per non essere attaccata: “Dovevate telefonare prima. All'ultimo momento non è che posso far miracoli. Ho anch’io una mia vita”. Interruppi le sue litanie ricordando che c’eravamo guardati bene dal lamentarci dell’attesa. A pensarci bene, avevamo aspettato qualcosa come quasi un’ora.
Il tempo, quando Mauro snocciola il suo decalogo di buona vita, diventa davvero un optional, un simpatico orpello di cui ridere.
All'interno del San Pellegrino, mi sentii tramortire! L’immagine che ci accolse fu quella di San Cristoforo.La custode, evidentemente preparata, svelò che quella figura di santo serviva per invitare i fedeli alla preghiera. Era credenza di tempi antichi che vedere l’immagine preservasse il visitatore, almeno per quel giorno, da una morte improvvisa nelle ore immediatamente successive.
Sapete com'è? Mai dire mai. Feci anche io una preghiera.
Ero stato altre volte in visita dentro questo gioiello del passato medioevale abruzzese, ma stavolta era, se possibile, da mettere in prima pagina nell'album dei ricordi più belli. Davanti agli occhi c’era un tripudio di colori e figure da vertigine.
C’era la vita del Cristo e anche quella decisamente minore del monaco San Pellegrino, unitamente a un singolare Giudizio Universale sparso qua e là a destra e a sinistra, dove spiccava l’immagine più terribile, quella di San Michele Arcangelo che pesa le anime con la stadera. I dannati torturati dal demonio erano impressionanti, se messi di fronte a un San Pietro quasi gongolante, intento ad aprire a pochi le porte del Paradiso.
Ma forse il gioiello più grande era l’inedito calendario monastico-contadino delle mansioni svolte dai frati nel famoso “ora et labora” di benedettina memoria.
I segni zodiacali venivano evidenziati da figure eleganti di cavalieri su cavalli bardati, improbabili contadini con vesti belle, certamente lontane dalle realtà popolane.
Una leggenda racconta che l’oratorio fu fatto costruire dal re Carlo nell' VIII secolo, è ricordato in una iscrizione in pietra. E ci si può chiedere: di quale Carlo parliamo, forse il Magno? O forse il Calvo?
E la ricostruzione successiva a un disastroso terremoto, venne affidata all'abate Teodino, un vero esperto, nel medioevo, di ristrutturazioni sacre. I lavori restituirono un oratorio più piccolo come ampiezza e più grande come arte.
In un comprensorio come quello aquilano dove da oltre sette anni dal terremoto, è impossibile trovare una chiesa senza imbracature e puntelli, dove hanno chiuso nel cuore della città di Aquila, Collemaggio e San Berardino per pericoli di crolli, questo doppio tempio dell’anima è uscito indenne dal disastro.
E sì che l’abbazia del borgo medievale ha tutto simile a Santa Maria ad Cryptas nella vicina Fossa, chiesa che ha avuto seri danni in tutto il perimetro di struttura.
Ci recammo poi nell’adiacente badia dell’Assunta, immersa tra pini neri e silenzio sacro. Un bell'esempio di romanico basilicale, simbolo dell’austera e laboriosa regola benedettina. Santa Maria ha un passato prestigioso che si perde nella notte dei tempi. Era dipendenza dell’abbazia di Farfa, poi di quella di Valva e, nel X secolo, aveva una notevole importanza.
Ero preso dalla gioia di poter ammirare con attenzione, il bell'ambone, il ciborio e il candelabro pasquale. La semplicità della facciata non corrispondeva alla ricchezza dell’interno, tre navate e tre absidi rivestiti da un bel soffitto.
Le stesse absidi semicircolari, impreziosiscono all'esterno la facciata posteriore.
Il magnifico ambone era lì, pareva attendermi sin da quando fu realizzato nel 1180, per mostrarsi in tutta la sua bellezza. Quattro eleganti colonne con capitelli scolpiti in stile corinzio dove si alternano tori alati, aquile e, nell'architrave, scene di animali e vita quotidiana, fino ad arrivare a una scena cruenta: un branco di lupi che sgozza un agnello, chiara allegoria del Bene e del male in lotta eterna.
Pensai che l’abate Giovanni, il committente dell’opera era davvero un tosto. Il tutto era impreziosito dal ciborio e dal pregevole candelabro del XIII secolo a completare l’armoniosa composizione del catino absidale, illuminato dal bianco della pietra e dalla luce delle piccole finestre a feritoia, una delle quali notai, aveva impresso nella epigrafe il tema conduttore della chiesa: “Virgo Celestiale” .
Non sarebbe stata però una giornata indimenticabile se non avessimo visitato i resti del castello e della torre circolare di avvistamento, chiusa dal XIII secolo, da un recinto di forma trapezoidale.
Salimmo così verso la piccola montagna davanti, in una scena surreale. Il sentiero evidente, pur agevole, era costellato di piccole pietre aguzze e cespugli spinosi. Per me, affascinato da quella torre dove avrei ammirato un panorama indimenticabile, non c’erano sassi o rovi. Era come se tutto fosse gomma o spugna, qualcosa di delicato su cui passare. I sentieri impervi si addolciscono quando c’è passione. Arrivati in cima fui gratificato da una veduta spettacolare. Dai ruderi del castello, risalente al XIII secolo e della torre di avvistamento del XV, si apriva ai nostri occhi mezzo Abruzzo. Vedevo distintamente Rocca Calascio, la terra delle Baronie, i paesi dello zafferano, il Gran Sasso, fino al mare Adriatico che si intuiva dietro una sorta di cortina fumogena di nuvole grasse.
Era un gran bel vedere da questa opera difensiva che pareva vigilare silenziosa sull'antico complesso abbaziale che un tempo annoverava anche un grande monastero, oggi scomparso, un' antica abbazia del mille, dipendenza della grande Farfa, con mura che si affacciavano meravigliosamente sulla grande piana, tra distese arate, piccoli poderi, paesini fortificati.
La struttura fu rasa al suolo dalle indiavolate truppe di Fortebraccio da Montone, il famoso capitano di ventura nei primi anni del 400 durante la sanguinosa guerra tra Angioini e Aragonesi.
Capii come funzionava il sistema di allarmi visivi che collegavano le varie torri di avvistamento, quando fui in cima. La strategica posizione del recinto fortificato fu chiara. Permetteva di dominare un’ampia porzione di territorio. Un presidio a guardia di Caporciano, San Pio delle Camere, e Barisciano verso L’Aquila.
Appunti di viaggio:
Bominaco si raggiunge seguendo la statale 17 che congiunge L’Aquila a Bussi. Il capoluogo si raggiunge agevolmente con l’autostrada A24 Teramo Roma, mentre Bussi ha il suo casello nell'autostrada A25 Roma Pescara. Poi, se avete buone gambe e orientamento camminate nella piana di Navelli fino al km. 30 per Bominaco. In macchina è veloce l’arrivo. All'altezza di San Pio delle Camere, vedete il bivio che porta a Caporciano. Da lì se ve la fate a piedi sono tre chilometri per la frazione di Bominaco, altrimenti con l’auto sono pochi minuti.
L’accesso al complesso abbaziale, cui si entra attraverso un cancello in ferro, è gratuito. Un cartello avverte che le chiavi sono custodite da gente del posto e ci sono i numeri per contattarli. Poi, lasciate un’offerta!
Per altre informazioni municipio Caporciano 086293731.
Non vi lascio indicazioni per mangiare. Ovunque cucinano ricette con zafferano e verdure tipiche dell’aquilano. Io ho mangiato bene al ristorante del borgo che si chiama “A Bominaco”, non lontano dai monumenti sacri.
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sabato 25 giugno 2016
Poggio Bustone, il luogo della Misericordia incontrata!
Gli occhi di frate Renzo mandano bagliori a ogni sbatter di ciglia. Sanno vagamente di ascetismo.
Riescono a cogliere compiutamente gli spettacoli che la realtà consegna a ognuno di noi in ogni giorno della propria vita.
Oggi però sono occhi smarriti.
Aspettava solo il nostro gruppo francescano di Teramo.
E, invece, si ritrova con un altro bus di fedeli provenienti dalla Toscana che non hanno telefonato il loro arrivo.
È solo, nel santuario di Poggio Bustone. E oggi deve sentirsi proprio sotto assedio.
Un convento così piccolo fatica a gestire un numero considerevole di visitatori.
Questo, a dispetto delle dimensioni, è uno dei luoghi francescani più importanti e spesso frate Renzo si ritrova da solo a gestire tutto.
La vita non dev'essere facile per l’uomo di Dio. D’estate arrivano rinforzi ma gli aiuti non bastano mai.
“Pregate incessantemente – ci dice- per le vocazioni. Non stancatevi mai di bussare alla porta di Dio”.
Il buon frate alterna momenti di silenzio sacro a veri torrenti di parole, tratteggiando la natura e la figura di Francesco, come il segno di una matita caduta per caso su di un foglio bianco a riempirlo di colori.
Ci catechizza dai banchi della piccola chiesa e i cuori si aprono alla speranza.
Peccato che, con tutta questa gente, si è perso il senso del silenzio che è possibile godere in altri momenti. D’inverno qui c’è una luce riflessa che gioca sui toni del bianco e del grigio che pare soffocare i colori brillanti della valle, per donare quiete e meditazione.
Nel cuore dell’ubertosa valle Reatina ci sono quattro santuari, Poggio Bustone, Fonte colombo, Greccio e La Foresta. Sono disposti a forma di croce, ed è veramente la croce di Cristo che segna il cammino di Francesco.
Per noi, seguaci del Poverello di Assisi, è una sorta di Terra Santa e percorrendo questi luoghi del silenzio, siamo ricondotti per la stessa via di Francesco alla realtà delle nostre esistenze fatte di morte, dolore e gioia. Così da poter ripetere con lui:
“Ti adoriamo Signore Gesù Cristo, qui e in tutte le chiese che sono nel mondo intero, perché con la tua Santa Croce hai redento il mondo”.
Il posto, un grandioso panorama sulla valle, meriterebbe la sosta di alcuni giorni. Il convento ha una foresteria attrezzata, in grado di ospitare una ventina di persone assetate di silenzio.
Dal piazzale alto si gode una vista bellissima e si distinguono le acque argentee dei Lago Lungo e Ripa Sottile e, sullo sfondo, la cortina dei monti Sabini. A pochi tornanti, solo una quindicina di chilometri, si può salire alle pendici del Terminillo.
Poggio Bustone, che molti conoscono per aver dato i natali al famoso cantautore Lucio Battisti, è un castello medievale che si trova a quasi 800 metri di altezza, all'estremo limite settentrionale del reatino. Arranca prodigiosamente con le sue casupole fino alla torre pentagonale del “Cassero”, annunciata dalla porta gotica del “Buon giorno”.
Il nome le viene proprio dalla vicenda di Francesco.
Giunto tra le povere case e varcando la porta a valle nel 1208, il serafico Padre salutò in maniera semplice e toccante la gente del luogo: "Buongiorno buona gente".
Parole concilianti rivolte a gente schiva ma non ostile, abituata ad affrontare la durezza della vita quotidiana: pastori, agricoltori, poveri artigiani.
Il travaglio interiore che gli consumava l’anima, non gli aveva impedito neanche allora, di amare a cuore aperto gli altri.
Tutto qui era possedimento dei benedettini di Farfa.
Poi nel 1217 la storia ricorda che il luogo dove oggi c’è il santuario, venne donato a Francesco per la bontà che portò in dote agli abitanti.
Il santo era giunto travagliato e inquieto. Si chiedeva dove andasse e dove conducesse i suoi amici. Faceva anche memoria della prima parte della sua vita trascorsa nel peccato. Lo scriverà nel suo Testamento, pochi giorni prima di morire nel 1226.
Con questo misto di ricerca, travaglio e dolore interiore, rifiutato dalla popolazione di Assisi che lo vedeva come una sorta di pazzo povero per assurda scelta, San Francesco giunse in questo posto arrampicato sulla costa di una montagna di nuda e severa grandezza.
Con lui era un piccolo drappello di fratini. Avevano deciso tutti di lasciare la piccola città di Assisi, adagiata sul fianco del monte Subasio e iniziare un lungo viaggio pieno di incognite e difficoltà.
Attraversando la valle spoletana, i fraticelli salirono a Cascia e a Leonessa. I sette giunsero poi a un piccolo eremo fuori il paese di Poggio Bustone. E lì Francesco comincia a vagare lungo i sentieri aspri del monte alla ricerca di un luogo deserto dove potersi abbandonare al misto di gioia e dolore che lo pervadeva.
L’assisiate appare così un uomo attuale, un credente inquieto posto di fronte al mistero di un Dio che si rivela nascondendosi. Oppresso dal ricordo di una vita in cui aveva adorato se stesso e basta, accadde allora l'insperato: Francesco, con l'aiuto dello Spirito Santo, si lasciò liberare e s’immerse nel buio, accogliendo la luce.
Il Signore usò misericordia, lo vestì del suo amore, creò in lui un cuore puro.
Cosa sia accaduto non è dato sapere. Di certo, il Francesco che da quel momento si mostrò ai suoi era libero, luminoso e pacificato.
Se potete, salite all'eremo nel bosco: una salutare sgambata di quaranta minuti sulle orme del Poverello, per raggiungere la Grotta della Rivelazione dove Francesco ebbe la visione del Padre Misericordioso che gli assicurava il perdono dei suoi peccati di gioventù.
Poggio Bustone, infatti, è il luogo della Misericordia incontrata e gustata! Il luogo che testimonia il dramma di una tensione interiore di un santo, finalmente sciolta nella letizia e nella sequela di Cristo, nell'amore per i fratelli e tutte le creature. La visita al Sacro Speco può aiutare davvero in questo anno dedicato dalla Chiesa proprio alla Misericordia.
La piccola chiesa è dedicata a San Giacomo il Maggiore. Si tratta di una costruzione che riflette in tutto la semplicità francescana, in una rara armonia di linee.
Non aspettatevi importanti tesori d’arte al suo interno. Per quelli bisogna ricercare la pomposità benedettina. L’interno, vagamente gotico, è di semplicità francescana.
Dopo vari rimaneggiamenti, nel 2011, a seguito di restauri la chiesa oggi è tornata a un sufficiente splendore.
Il portico è di recente fattura e introduce in un interno dall'atmosfera soffusa e raccolta che riempie l’unica aula della chiesa.
A sinistra si notano affreschi moderni rappresentanti San Francesco e i suoi primi frati con i quali arrivò a Poggio Bustone.
A destra c’è una copia di una tavola del XIV secolo, raffigurante la Madonna con Bimbo e San Giuseppe con angeli in adorazione. Sotto è riprodotto il castello di Poggio Bustone su cui vigilano San Francesco e Sant'Antonio. Si notano anche frammenti di pittura seicentesca. Artistiche vetrate completano l’edificio. Sopra l’altare c’è una croce dipinta e sul presbiterio una statua del Poverello, opera di Piero Casentini.
Uscendo a destra della chiesa ci si inoltra nel Convento che risale a tre epoche diverse. Incontriamo il chiostro, un portico a quadrilatero che unisce i vari ambienti destinati alla vita comunitaria. Qui si ammira un affresco della Madonna con Bimbo del XV secolo di scuola umbro senese. Alzando lo sguardo alle quattordici lunette del XVII secolo che percorrono lo spazio, opera di uno sconosciuto artista del Seicento, riconosciamo scene di vita del santo di Assisi. Scendendo dal chiostro verso il romitorio c'è un antico refettorio con affreschi raffiguranti l'Immacolata, l'Ultima Cena e alcuni santi francescani.
Diario di viaggio:
Arrivare nella valle Reatina non è difficile ed è vicino all'Abruzzo. Prendendo l'autostrada L'Aquila- Roma, uscire per la Valle del Salto e indirizzarsi verso Rieti.
Consiglio prima di fermarsi su qualcuno dei paesini che si affacciano sul lago del Salto: sono tutti molto pittoreschi e circondati dal verde. Siamo nella zona protetta dei monti della Duchessa, tristemente famosi negli anni di piombo, quando le brigate rosse fecero credere che il corpo dello statista Aldo Moro era stato abbandonato da queste parti. Si mangia pesce di lago divinamente e ovunque.
Dirigersi poi verso Rieti, città alla confluenza di tre fiumi: Salto, Velino e Turano. Da non perdere il complesso della Cattedrale con la Cripta e l'Episcopio. Prima di arrivare al centro della città dei cartelli ben visibili portano verso i conventi Santa Maria de La Foresta, dove si trova una comunità di "Mondo X" e San Giacomo di Poggio Bustone.
A Poggio Bustone, paese pittoresco si può prendere fresco nei famosi "Giardini di marzo", intitolati a Lucio Battisti.
Salite poi al convento di San Giacomo Apostolo.
Il telefono per prenotare una visita è: 0746688916.
La mail convpbustone@libero.it.
Chiedete del Padre guardiano Frà Renzo.
Attenzione: per mangiare consiglio Villa Tizzi in via omonima n.4. Parliamo del ristorante dove spesso si recava il cardinale Ratzinger prima di diventare papa e dove è stato ospitato anche Papa Giovanni Paolo II, nelle sue passeggiate al Terminillo. Prezzo buono e mangiare eccellente.
Dite che vi mandano i Francescani di Teramo!
Da Nord: Prendere l'autostrada A1 Firenze - Roma, uscire ad Orte, proseguire per Terni, uscire in direzione Terni Ovest, attraversare Terni, continuare sulla SS 79, attraversare Marmore, Rivodutri e proseguire seguendo indicazioni per Poggio Bustone.
Da Sud Percorrere l'autostrada del Sole A1 in direzione Roma, seguire la direzione Rieti, Grande Raccordo Anulare, Roma Nord, uscire a Fiano Romano e seguire le indicazioni per la SS 4 Salaria in direzione Rieti, attraversare Borgo Santa Maria, uscire in direzione Rieti Est, prendere la SS 579 in direzione Rieti/Leonessa, attraversare Rieti, prendere la SS 79, attraversare Quattro Strade, Borgo San Pietro, continuare sulla SP2 in direzione Poggio Bustone.
Da Rieti Prendere la SS 79, attraversare Quattro Strade, Borgo San Pietro, continuare sulla SP2 in direzione Poggio Bustone.
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giovedì 23 giugno 2016
Salento: De Finibus Terrae!
"Lei pensi che in tutta la Puglia sono stati censiti qualcosa come 50 milioni di alberi. Noi siamo la terra dei record, signore mio!".
Proprio un entusiasta questa guardia forestale. Si chiama Michele. E' dentro una divisa più grande di lui, ha il volto scavato e bruciato dal sole del sud e quando sorride, le gote si alzano fin sotto le palpebre, disegnando un ovale inedito e particolare.
Avevo visto, salendo la torre della vecchia masseria dov'ero ospitato, da poco riportata agli antichi splendori, una sorta di superficie olivata sospesa su terra rossa, quasi un immenso tappeto dalle multi cromie.
Qui, a pochi chilometri da Lecce gli odori e i colori sono splendidi in ogni stagione. Figurarsi in tarda primavera!
Poi, uscendo per fare i classici due passi, incontro questo "guardiano dei campi e difensore del paesaggio".
In Salento, certamente non sanno neanche cosa sia una montagna. A Gallipoli, pensate, ho incontrato una gentile cameriera che, saputo della mia provenienza abruzzese, mi ha chiesto consigli e informazioni. Suo figlio di dieci anni, aveva visto la neve in tv e chiedeva insistentemente di andare a sciare il prossimo inverno sul Gran Sasso.
Ma di natura se ne intendono eccome.
La coccolano e la difendono, anche se abusivismi e delitti contro la macchia mediterranea non mancano purtroppo.
Il Salento è davvero il salotto della Puglia.
Mi trovo a pochi chilometri da Lecce, nell'agro dove insisteva un tempo il feudo dell'Abbazia di Santa Maria a Cerrate. Un gioiello scolpito nel XII secolo in pietra leccese, pregevole testimonianza del Romanico pugliese, al centro di una tipica masseria fortificata. Qui un tempo c'era un monastero di fede ortodossa.
Oggi il monumento, che trovate sulla provinciale 100 di Casalabate- Squinzano, è salvaguardato dal F.A.I. Italia. La signorina dal completo rosa confetto fa notare che all'esterno semplice e sobrio, fa da contraltare un interno rimaneggiato ma che si intuisce doveva essere straordinario e interamente affrescato.
Lecce è davvero la meravigliosa capitale del Barocco.
Ma credetemi, il vero barocco per me sono questi tronchi monumentali, autentiche sculture vegetali vive, che il tempo e l'azione del vento hanno aggrovigliato drammaticamente, inciso profondamente, squarciato come si squarciarono le pietre quando il Salvatore del mondo spirò sulla croce in quel terribile venerdì santo.
Il vento, scrivevo!
A Otranto, la città degli ottocento martiri della resistenza cristiana contro i turchi, affacciato sui bastioni del castello, intento a fotografare l'alba dell'Adriatico, mi riprometto di immortalare in seguito il tramonto dello Ionio.
Il vento quasi mi trascina a forza lungo il borgo antico da cartolina che, dal 2000, è "Messaggero di Pace" de l'Unesco.
Questo è il luogo in Italia che vede per primo il sole sorgere lungo le vie strette e lastricate. Qui i dardi dell'astro luminoso si poggiano sulla bandiera sventolante delle Cinque Vele, massimo riconoscimento di Legambiente.
Vuoi mettere, anticipare la nascita del giorno e postare una foto su Facebook prima degli altri? Non ha prezzo!
Ma sul canale d'Otranto la tramontana soffia che pare trasportare ancora echi millenari di battaglie contro popoli invasori.
La voce alle mie spalle mi fa trasalire.
L'uomo magro ha estratto il suo smartphone e scatta la foto della palla infuocata che si erge sopra le imbarcazioni del porto.
Poi racconta che fino a qualche anno fa era a Torino per lavoro e non poteva regalarsi albe del genere. Ora, in pensione, è tornato a vivere nella sua terra e gli occhi brillano per la gioia.
Anche lui però ha un contenzioso col vento!
I pochi capelli si scompigliano disordinatamente e lui esclama ridendo: "Eccu lu Salentu: sole, mare e
jentu", sole, mare e vento.
Io aggiungerei... pietra!
Quella pietra con cui questo popolo di artisti ha creato le migliaia di chiese e palazzi di ineguagliabile bellezza. A Lecce c'è una luce che non saprei descrivere in questa primavera che declina velocemente a estate. Una luce che disegna i volumi degli edifici, che birichina si insinua invadente in ogni ghirigoro di sculture appese sopra le facciate delle chiese o nei volti e nelle teste di animali sotto i balconi gentilizi.
Una luce che rende, se possibile, ancora più indimenticabile la pietra creatrice di un barocco da tripudio.
Chiamatela "Firenze del sud", "Atene delle Puglie", "Venezia della bassa Italia". Chiamatela come volete. Lecce è sempre un museo a cielo aperto che ti costringe a camminare a testa in su per non perderti niente dello spettacolo.
Tanto non rischiate di pestare escrementi. La città è pulita e gli animali pare che vadano da soli in toilette. Più seriamente, qui i padroni sono semplicemente educati.
Ma, siamo in Svizzera o nel sud dell'Italia?
Piazza Duomo è il cuore pulsante della città. E' piena di turisti nonostante non siamo ancora in alta stagione. Questa è una delle piazze più belle d'Italia. Chiesa con fantastico campanile e palazzi da urlo. Vale da sola il viaggio fin quaggiù.
Bello sedere sulla pietra della colonna romana che mostra in alto la statua di sant'Oronzo. Qui finiva l'importante arteria romana della famosa Via Appia che portava a Brindisi.
Il tempo vola.
E' ora di avviarsi verso "De Finibus Terrae" di Santa Maria di Leuca.
E, siccome, il Salento dell'arte non è solo Lecce, prima una puntata a Galatina. E' un piccolo paese agricolo che contiene un gioiello senza tempo: la chiesa francescana di "Santa Caterina d'Alessandria, autentica catechesi per immagini di Antico e Nuovo Testamento.
Hai voglia a dire che questa è in primo luogo la casa del Signore, dove si celebrano i divini misteri.
Il piccolo frate dalla proverbiale chierica si affanna a dire ai visitatori che non siamo in un un museo da fotografare ma in uno spazio riservato al popolo di Dio.
Mi guarda, vede il mio ciondolo con il Tau di Francesco, capisce che sono un seguace del Poverello e decide che posso scattare foto. Mi racconta che i francescani arrivarono qui nella seconda metà del secolo XIV, denominati come "Osservanti".
Mi indica uno degli affreschi, un trittico da favola con San Giovanni da Capestrano, San Bonaventura da Bagnoregio, San Giacomo della Marca e ridendo esclama: "il giro del mondo in groppa ai frati"!
Poi mi fa scoprire Genesi, la Creazione vista dall'occhio privilegiato del Cantico delle Creature di Francesco. Ancora i dipinti della Madre di Dio, il presepe secondo il Poverello, il Calvario e le stimmate di Cristo riprodotte sull'Assisiate. E, infine, la grande allegoria, collocata in alto, centrale, in cui si capisce la Vita e la Morte, con le braccia di Gesù protese verso il papa, simbolo terreno.
Il frate mi sorride ed esclama: "ti ricorderai di aver calpestato una terra santa"?
Mentre va via un pensiero corre nella mia testa: questo luogo è come il messer lo frate Sole di Francesco: "radiante cun grande splendore: de te Altissimo porta significazione".
Davvero questa chiesa è ai piedi del monte Oreb dove Mosè sentì la voce dell'Angelo che lo invitava a togliersi i sandali dai piedi... "perché il luogo sul quale stai è terra santa". (Genesi 3,1-6).
Ora viaggio in un tripudio di calette e fondali blu cobalto, tra torri costiere, dune protette con sentieri nel verde, masserie fortificate, case liberty, ville moresche a ricordo dell'Antico Oriente.
Un bagno a Pescoluse, le Maldive del Salento con la sua distesa di sabbia bianca e le dune ricoperte di acacie; la visita ai laghi Alimini, un tempo luoghi malsani, oggi sosta di numerosi uccelli migratori; la preghiera sulla tomba del beato Don Tonino Bello ad Alessano; la scoperta dell'affascinante guglia di Raimondello e la chiesetta di Santo Stefano, nell'antico centro messapico di Soleto, scrigno della Grecia salentina; la visita alla grotta della Zinzulusa, uno dei dieci ambienti carsici sott'acqua più importanti al mondo;.
Questa è vita, amici miei.
E, infine, ecco, incredibilmente suggestivo, il borgo antico di Gallipoli, la città isola battezzata dai greci "Kalè polis" la bella. Come essere su di un grande balcone che si sporge nello Ionio e regala scorci di rara bellezza.
Do fondo agli ultimi pezzi da cento euro.
Mangio pesce presso il bastione San Giorgio, poi un bagno presso la famosa spiaggia della Purità, infine dormo nel bellissimo palazzo Marchesale Senape De Pace.
Le cose belle finiscono troppo presto.
Taccuino di viaggio:
Per raggiungere il Salento leccese in auto, uscire dal'autostrada A14 a Bari nord e proseguire per Brindisi, fino a immettersi sulla superstrada Brindisi Lecce.
L'aeroporto più vicino è quello di Brindisi (Papola Casale) che dista una trentina di
chilometri da Lecce.
In treno è possibile raggiungere Lecce da Pescara.
Info: Puglia promozione turistica a Bari 0805242361
www.agenziapugliapromozione.it
IAT a Lecce: 0832314117
IAT a Gallipoli: 0833262529
IAT Otranto: presso il castello aragonese 0836801436
A Gallipoli vivamente consigliato soggiornare nel Bed e Breakfast del Palazzo Senape De Pace, luogo esclusivo a un prezzo piccolo nel centro storico. www.palazzosenapedepace.it telefono: 0833266179
A Galatina la splendida chiesa di Santa Caterina è in piazzetta Orsini tel.0836568411
www.salentofrancescano.com. Orari: mattina 08,00 - 12,30 pomeriggio 16,30-18,45
Per visitare e mangiare in una delle masserie fortificate orientatevi alla Tenuta Monacelli e Masseria Giampaoli che si raggiunge da Lecce seguendo la segnaletica per Torre Rinalda e abbazia S. Maria a Cerrate, uscita Squinzano Casalabate.
Ambiente esclusivo, prezzi medio alti.
Proprio un entusiasta questa guardia forestale. Si chiama Michele. E' dentro una divisa più grande di lui, ha il volto scavato e bruciato dal sole del sud e quando sorride, le gote si alzano fin sotto le palpebre, disegnando un ovale inedito e particolare.
Avevo visto, salendo la torre della vecchia masseria dov'ero ospitato, da poco riportata agli antichi splendori, una sorta di superficie olivata sospesa su terra rossa, quasi un immenso tappeto dalle multi cromie.
Qui, a pochi chilometri da Lecce gli odori e i colori sono splendidi in ogni stagione. Figurarsi in tarda primavera!
Poi, uscendo per fare i classici due passi, incontro questo "guardiano dei campi e difensore del paesaggio".
In Salento, certamente non sanno neanche cosa sia una montagna. A Gallipoli, pensate, ho incontrato una gentile cameriera che, saputo della mia provenienza abruzzese, mi ha chiesto consigli e informazioni. Suo figlio di dieci anni, aveva visto la neve in tv e chiedeva insistentemente di andare a sciare il prossimo inverno sul Gran Sasso.
Ma di natura se ne intendono eccome.
La coccolano e la difendono, anche se abusivismi e delitti contro la macchia mediterranea non mancano purtroppo.
Il Salento è davvero il salotto della Puglia.
Mi trovo a pochi chilometri da Lecce, nell'agro dove insisteva un tempo il feudo dell'Abbazia di Santa Maria a Cerrate. Un gioiello scolpito nel XII secolo in pietra leccese, pregevole testimonianza del Romanico pugliese, al centro di una tipica masseria fortificata. Qui un tempo c'era un monastero di fede ortodossa.
Oggi il monumento, che trovate sulla provinciale 100 di Casalabate- Squinzano, è salvaguardato dal F.A.I. Italia. La signorina dal completo rosa confetto fa notare che all'esterno semplice e sobrio, fa da contraltare un interno rimaneggiato ma che si intuisce doveva essere straordinario e interamente affrescato.
Lecce è davvero la meravigliosa capitale del Barocco.
Ma credetemi, il vero barocco per me sono questi tronchi monumentali, autentiche sculture vegetali vive, che il tempo e l'azione del vento hanno aggrovigliato drammaticamente, inciso profondamente, squarciato come si squarciarono le pietre quando il Salvatore del mondo spirò sulla croce in quel terribile venerdì santo.
Il vento, scrivevo!
A Otranto, la città degli ottocento martiri della resistenza cristiana contro i turchi, affacciato sui bastioni del castello, intento a fotografare l'alba dell'Adriatico, mi riprometto di immortalare in seguito il tramonto dello Ionio.
Il vento quasi mi trascina a forza lungo il borgo antico da cartolina che, dal 2000, è "Messaggero di Pace" de l'Unesco.
Questo è il luogo in Italia che vede per primo il sole sorgere lungo le vie strette e lastricate. Qui i dardi dell'astro luminoso si poggiano sulla bandiera sventolante delle Cinque Vele, massimo riconoscimento di Legambiente.
Vuoi mettere, anticipare la nascita del giorno e postare una foto su Facebook prima degli altri? Non ha prezzo!
Ma sul canale d'Otranto la tramontana soffia che pare trasportare ancora echi millenari di battaglie contro popoli invasori.
La voce alle mie spalle mi fa trasalire.
L'uomo magro ha estratto il suo smartphone e scatta la foto della palla infuocata che si erge sopra le imbarcazioni del porto.
Poi racconta che fino a qualche anno fa era a Torino per lavoro e non poteva regalarsi albe del genere. Ora, in pensione, è tornato a vivere nella sua terra e gli occhi brillano per la gioia.
Anche lui però ha un contenzioso col vento!
I pochi capelli si scompigliano disordinatamente e lui esclama ridendo: "Eccu lu Salentu: sole, mare e
jentu", sole, mare e vento.
Io aggiungerei... pietra!
Quella pietra con cui questo popolo di artisti ha creato le migliaia di chiese e palazzi di ineguagliabile bellezza. A Lecce c'è una luce che non saprei descrivere in questa primavera che declina velocemente a estate. Una luce che disegna i volumi degli edifici, che birichina si insinua invadente in ogni ghirigoro di sculture appese sopra le facciate delle chiese o nei volti e nelle teste di animali sotto i balconi gentilizi.
Una luce che rende, se possibile, ancora più indimenticabile la pietra creatrice di un barocco da tripudio.
Chiamatela "Firenze del sud", "Atene delle Puglie", "Venezia della bassa Italia". Chiamatela come volete. Lecce è sempre un museo a cielo aperto che ti costringe a camminare a testa in su per non perderti niente dello spettacolo.
Tanto non rischiate di pestare escrementi. La città è pulita e gli animali pare che vadano da soli in toilette. Più seriamente, qui i padroni sono semplicemente educati.
Ma, siamo in Svizzera o nel sud dell'Italia?
Piazza Duomo è il cuore pulsante della città. E' piena di turisti nonostante non siamo ancora in alta stagione. Questa è una delle piazze più belle d'Italia. Chiesa con fantastico campanile e palazzi da urlo. Vale da sola il viaggio fin quaggiù.
Bello sedere sulla pietra della colonna romana che mostra in alto la statua di sant'Oronzo. Qui finiva l'importante arteria romana della famosa Via Appia che portava a Brindisi.
Il tempo vola.
E' ora di avviarsi verso "De Finibus Terrae" di Santa Maria di Leuca.
E, siccome, il Salento dell'arte non è solo Lecce, prima una puntata a Galatina. E' un piccolo paese agricolo che contiene un gioiello senza tempo: la chiesa francescana di "Santa Caterina d'Alessandria, autentica catechesi per immagini di Antico e Nuovo Testamento.
Hai voglia a dire che questa è in primo luogo la casa del Signore, dove si celebrano i divini misteri.
Il piccolo frate dalla proverbiale chierica si affanna a dire ai visitatori che non siamo in un un museo da fotografare ma in uno spazio riservato al popolo di Dio.
Mi guarda, vede il mio ciondolo con il Tau di Francesco, capisce che sono un seguace del Poverello e decide che posso scattare foto. Mi racconta che i francescani arrivarono qui nella seconda metà del secolo XIV, denominati come "Osservanti".
Mi indica uno degli affreschi, un trittico da favola con San Giovanni da Capestrano, San Bonaventura da Bagnoregio, San Giacomo della Marca e ridendo esclama: "il giro del mondo in groppa ai frati"!
Poi mi fa scoprire Genesi, la Creazione vista dall'occhio privilegiato del Cantico delle Creature di Francesco. Ancora i dipinti della Madre di Dio, il presepe secondo il Poverello, il Calvario e le stimmate di Cristo riprodotte sull'Assisiate. E, infine, la grande allegoria, collocata in alto, centrale, in cui si capisce la Vita e la Morte, con le braccia di Gesù protese verso il papa, simbolo terreno.
Il frate mi sorride ed esclama: "ti ricorderai di aver calpestato una terra santa"?
Mentre va via un pensiero corre nella mia testa: questo luogo è come il messer lo frate Sole di Francesco: "radiante cun grande splendore: de te Altissimo porta significazione".
Davvero questa chiesa è ai piedi del monte Oreb dove Mosè sentì la voce dell'Angelo che lo invitava a togliersi i sandali dai piedi... "perché il luogo sul quale stai è terra santa". (Genesi 3,1-6).
Ora viaggio in un tripudio di calette e fondali blu cobalto, tra torri costiere, dune protette con sentieri nel verde, masserie fortificate, case liberty, ville moresche a ricordo dell'Antico Oriente.
Un bagno a Pescoluse, le Maldive del Salento con la sua distesa di sabbia bianca e le dune ricoperte di acacie; la visita ai laghi Alimini, un tempo luoghi malsani, oggi sosta di numerosi uccelli migratori; la preghiera sulla tomba del beato Don Tonino Bello ad Alessano; la scoperta dell'affascinante guglia di Raimondello e la chiesetta di Santo Stefano, nell'antico centro messapico di Soleto, scrigno della Grecia salentina; la visita alla grotta della Zinzulusa, uno dei dieci ambienti carsici sott'acqua più importanti al mondo;.
Questa è vita, amici miei.
E, infine, ecco, incredibilmente suggestivo, il borgo antico di Gallipoli, la città isola battezzata dai greci "Kalè polis" la bella. Come essere su di un grande balcone che si sporge nello Ionio e regala scorci di rara bellezza.
Do fondo agli ultimi pezzi da cento euro.
Mangio pesce presso il bastione San Giorgio, poi un bagno presso la famosa spiaggia della Purità, infine dormo nel bellissimo palazzo Marchesale Senape De Pace.
Le cose belle finiscono troppo presto.
Taccuino di viaggio:
Per raggiungere il Salento leccese in auto, uscire dal'autostrada A14 a Bari nord e proseguire per Brindisi, fino a immettersi sulla superstrada Brindisi Lecce.
L'aeroporto più vicino è quello di Brindisi (Papola Casale) che dista una trentina di
chilometri da Lecce.
In treno è possibile raggiungere Lecce da Pescara.
Info: Puglia promozione turistica a Bari 0805242361
www.agenziapugliapromozione.it
IAT a Lecce: 0832314117
IAT a Gallipoli: 0833262529
IAT Otranto: presso il castello aragonese 0836801436
A Gallipoli vivamente consigliato soggiornare nel Bed e Breakfast del Palazzo Senape De Pace, luogo esclusivo a un prezzo piccolo nel centro storico. www.palazzosenapedepace.it telefono: 0833266179
A Galatina la splendida chiesa di Santa Caterina è in piazzetta Orsini tel.0836568411
www.salentofrancescano.com. Orari: mattina 08,00 - 12,30 pomeriggio 16,30-18,45
Per visitare e mangiare in una delle masserie fortificate orientatevi alla Tenuta Monacelli e Masseria Giampaoli che si raggiunge da Lecce seguendo la segnaletica per Torre Rinalda e abbazia S. Maria a Cerrate, uscita Squinzano Casalabate.
Ambiente esclusivo, prezzi medio alti.
sabato 21 maggio 2016
La Concattedrale dell'antica Corfinium
Vi racconto una bella storia!
È tradizione credere che fin quando sei pasciuti corvi neri vivranno nella famosa Torre di Londra, la monarchia inglese non conoscerà fine. Ci credono così tanto gli inglesi che i responsabili del monumento si adoperano alacremente, da innumerevoli anni, per garantire la presenza dei pennuti. Li curano, li nutrono, li difendono dalle volpi fameliche che di notte si aggirano intorno alla torre. I fortunati animali ricevono ogni giorno, carne selezionata, biscotti inzuppati nel sangue, addirittura patatine al gusto di aceto che pare essere il loro spuntino preferito. Fissano addirittura la punta delle ali per evitare che volino via la notte. Anni fa pare che la volpe riuscì a beffare i guardiani e a divorare uno dei malcapitati corvi. In meno che non si dica l’uccello fu rimpiazzato e i dispositivi di sicurezza potenziati.
Perché vi ho raccontato questo?
Tutte le volte che mi trovo nella basilica valvense di Corfinio, noto volteggiare un numero imprecisato di corvi neri sopra il campanile di questo monumento che è uno dei più importanti esempi di Romanico abruzzese. Sono una presenza inquietante e strana.
Alcuni di loro si posano sui grandi massi del piazzale che, in realtà, sono monumenti funebri romani del II secolo, costruiti a torre con camera mortuaria. Si trovano proprio vicino la basilica di San Pelino e vengono chiamati "morroni" perché costruiti con la pietra del monte omonimo.
Mi trovo, l'avete capito, vicino Sulmona, la bella città dei confetti.
I paesi della piana hanno tutti una caratteristica: odorano buono di antico. Mi riferisco a Pacentro, Introdacqua, Pettorano sul Gizio, Corfinio e non solo.
Sono borghi dove il tempo è stato rispettato e i ritmi contadini ancora scandiscono l’alternarsi delle stagioni.
La loro storia secolare trasuda dalle pietre delle chiese e dei palazzi.
Gli abitati vetusti si estendono in mezzo ad ampi e suggestivi scenari montani che fanno da preziosa cornice all'indubbia ricchezza monumentale.
Per secoli questi luoghi hanno vissuto riccamente, grazie ai fiorenti commerci e alle produzioni artigiane di prestigio.
È stata, probabilmente, determinante la posizione geografica all’incrocio fra la via Claudia Valeria e il tratturo Celano- Foggia dei transumanti diretti al Tavoliere delle Puglie.
Qui si dipanava la felice confluenza di sbocchi importanti fra la costa Adriatica da una parte e la Marsica, con il napoletano dall'altra.
Era proprio lungo la piana sulmonese, che passava la nota “Grande Via degli Abruzzi”, arteria di collegamento commerciale tra le importanti città di Firenze e Napoli.
Lungo paesi antichissimi e sconosciuti, carovane di uomini e animali sviluppavano la civiltà del cammino: Forca Caruso di Pescina, Goriano Siculo, Raiano, Pietransieri e poi nel Molise d'Isernia, San Pietro Avellana, Vastogirardi, Pietrabbondante, San Biase di Campobasso e poi Lucera, fino a Foggia.
Tra tutti questi centri, Corfinio è uno degli esempi più fulgidi di tanta importanza.
È un borgo appartenuto agli antichi Peligni, compaesani del grande Ovidio che, nato proprio nella vicina Sulmona, assurse agli onori più alti della poesia del suo tempo.
Questo è un paese di pecore, zafferano, vino e forse qualcuno oggi fatica a pensare alla grande importanza che rivestiva al tempo dei Romani.
Eppure parliamo della mitica capitale della “Lega Italica”, nella guerra contro la tirannia di Roma, la “caput mundi”, l’unione dei paesi ribelli che contrastavano l’egemonia crudele del popolo capitolino.
Nel “club degli eversivi” c’erano paesi importanti come Popoli, Tocco da Casauria, e gli altri villaggi sulmontini stesi nella piana custodita dai rilievi del monte Morrone.
Può aiutare il visitatore attento a capire tale importanza, proprio la possente architettura della basilica valvense dedicata a S. Pelino con l’oratorio di S. Alessandro Papa che si erge partendo dal fianco destro del corpo basilicale e termina con un'inedita torre di difesa.
La primitiva struttura sorse proprio sulla tomba di Pelino, il vescovo di Brindisi, martire al tempo dell'imperatore Giuliano. Qui a Corfinio esisteva un sepolcreto di grande importanza, dove venivano tumulati i corpi degli eroi italici caduti in battaglia contro Roma.
Fu un certo Cipriote, discepolo di Pelino, a volere fortemente la costruzione dell'impianto, quando la cittadina fu ricostruita in epoca longobarda e alla quale fu dato il nome di Valva. Non finirono lì le peripezie di questo luogo che dovette subire anche le distruzioni dei Saraceni e degli Ungari.
La cattedrale è quindi composta dall'unione di due corpi distinti: l’oratorio rettangolare allungato con abside al centro, che corrisponde al capo croce di una chiesa incompleta, consacrata nel 1092 e la basilica dedicata a San Pelino e terminata nel terzo decennio del secolo successivo, restaurata nel 1235.
La chiesa maggiore appare imponente con tre navate e alti pilastri quadrangolari. C’è un arco a tutto sesto che immette nel transetto sopraelevato, coperto con volte a botte e a crociera.
Diverse volte i terremoti hanno distrutto parti importanti di questo capolavoro. Ecco il motivo per cui lo spazio interno è dal seicento in stile barocco.
Nella grande navata ora sto ammirando arredi liturgici, affreschi duecenteschi e uno splendido ambone del XII secolo. Mi ha colpito, nel transetto di sinistra una bella opera in pietra raffigurante la Madonna con Bambino in atto di benedire i visitatori.
E' uno spettacolo il coro ligneo del presbiterio che pare sia stato realizzato da Ferdinando Mosca, artista molto quotato nel settecento.
La clessidra del tempo sembra essersi fermata da secoli. Percepisco di essere in una delle culle della civiltà cristiana occidentale.
Nell'aria si spandono aromi d’incenso e le note solenni dei canti gregoriani.
Il gorgheggio di una splendida e coinvolgente voce femminile, sembra essere parte dell’aria che si respira. All’improvviso l’inno del Regina Coeli, pietra miliare della devozione mariana, s’interrompe, insieme al suono gioioso della campana per l’Ora Media del mezzodì.
Il silenzio inaspettato viene rotto dal rumore appena percettibile dei passi di una decina di monache che, entrate in chiesa, prendono posto velocemente nei loro stalli per intonare la salmodia.
Nello zaino ho, immancabilmente, il libercolo della liturgia delle Ore e posso partecipare a questo coinvolgente momento di preghiera collettivo.
La grande e breve follia che è la vita, come amava ripetere il premio Nobel Dario Fo, acquista senso. Davvero, penso, la felicità è nella quotidianità delle piccole cose da ricercare nella preghiera, nella pace con noi stessi e gli altri e nell’armonia con la natura.
Adoro i Salmi, sono splendide poesie e chi ne fa esperienza sa che parlano al cuore dell’uomo anche quando si è nella disperazione massima, totale e devastante.
La scuola dei salmi è un dialogo orante, fiducioso e rasserenante tra la miseria dell’uomo e il cuore indulgente di Dio.
Dopo aver soddisfatto l'anima adesso è ora di soddisfare il corpo.
Nella piazza centrale di Corfinio la Trattoria Il Barbaro è l'ideale: locale informale, cibo genuino, prezzo giusto. Se venite a trovarlo non perdetevi i ravioli alla ricotta e gli arrosticini!
Bella la vita, bello l'Abruzzo!
Come arrivare:
A24/A25 RM-PE uscita Pratola Peligna-Sulmona/ proseguire in direzione Corfinio da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello/ proseguire lungo la SS 372 direzione Vairano Scalo/ poi SS 85/ SS 158 direzione Colli al Volturno/ seguire indicazioni per Castel di Sangro/ Roccaraso/ Sulmona/ direzione A 25/ Corfinio
Info: Municipio tel. 0864-728100
È tradizione credere che fin quando sei pasciuti corvi neri vivranno nella famosa Torre di Londra, la monarchia inglese non conoscerà fine. Ci credono così tanto gli inglesi che i responsabili del monumento si adoperano alacremente, da innumerevoli anni, per garantire la presenza dei pennuti. Li curano, li nutrono, li difendono dalle volpi fameliche che di notte si aggirano intorno alla torre. I fortunati animali ricevono ogni giorno, carne selezionata, biscotti inzuppati nel sangue, addirittura patatine al gusto di aceto che pare essere il loro spuntino preferito. Fissano addirittura la punta delle ali per evitare che volino via la notte. Anni fa pare che la volpe riuscì a beffare i guardiani e a divorare uno dei malcapitati corvi. In meno che non si dica l’uccello fu rimpiazzato e i dispositivi di sicurezza potenziati.
Perché vi ho raccontato questo?
Tutte le volte che mi trovo nella basilica valvense di Corfinio, noto volteggiare un numero imprecisato di corvi neri sopra il campanile di questo monumento che è uno dei più importanti esempi di Romanico abruzzese. Sono una presenza inquietante e strana.
Alcuni di loro si posano sui grandi massi del piazzale che, in realtà, sono monumenti funebri romani del II secolo, costruiti a torre con camera mortuaria. Si trovano proprio vicino la basilica di San Pelino e vengono chiamati "morroni" perché costruiti con la pietra del monte omonimo.
Mi trovo, l'avete capito, vicino Sulmona, la bella città dei confetti.
I paesi della piana hanno tutti una caratteristica: odorano buono di antico. Mi riferisco a Pacentro, Introdacqua, Pettorano sul Gizio, Corfinio e non solo.
Sono borghi dove il tempo è stato rispettato e i ritmi contadini ancora scandiscono l’alternarsi delle stagioni.
La loro storia secolare trasuda dalle pietre delle chiese e dei palazzi.
Gli abitati vetusti si estendono in mezzo ad ampi e suggestivi scenari montani che fanno da preziosa cornice all'indubbia ricchezza monumentale.
Per secoli questi luoghi hanno vissuto riccamente, grazie ai fiorenti commerci e alle produzioni artigiane di prestigio.
È stata, probabilmente, determinante la posizione geografica all’incrocio fra la via Claudia Valeria e il tratturo Celano- Foggia dei transumanti diretti al Tavoliere delle Puglie.
Qui si dipanava la felice confluenza di sbocchi importanti fra la costa Adriatica da una parte e la Marsica, con il napoletano dall'altra.
Era proprio lungo la piana sulmonese, che passava la nota “Grande Via degli Abruzzi”, arteria di collegamento commerciale tra le importanti città di Firenze e Napoli.
Lungo paesi antichissimi e sconosciuti, carovane di uomini e animali sviluppavano la civiltà del cammino: Forca Caruso di Pescina, Goriano Siculo, Raiano, Pietransieri e poi nel Molise d'Isernia, San Pietro Avellana, Vastogirardi, Pietrabbondante, San Biase di Campobasso e poi Lucera, fino a Foggia.
Tra tutti questi centri, Corfinio è uno degli esempi più fulgidi di tanta importanza.
È un borgo appartenuto agli antichi Peligni, compaesani del grande Ovidio che, nato proprio nella vicina Sulmona, assurse agli onori più alti della poesia del suo tempo.
Questo è un paese di pecore, zafferano, vino e forse qualcuno oggi fatica a pensare alla grande importanza che rivestiva al tempo dei Romani.
Eppure parliamo della mitica capitale della “Lega Italica”, nella guerra contro la tirannia di Roma, la “caput mundi”, l’unione dei paesi ribelli che contrastavano l’egemonia crudele del popolo capitolino.
Nel “club degli eversivi” c’erano paesi importanti come Popoli, Tocco da Casauria, e gli altri villaggi sulmontini stesi nella piana custodita dai rilievi del monte Morrone.
Può aiutare il visitatore attento a capire tale importanza, proprio la possente architettura della basilica valvense dedicata a S. Pelino con l’oratorio di S. Alessandro Papa che si erge partendo dal fianco destro del corpo basilicale e termina con un'inedita torre di difesa.
La primitiva struttura sorse proprio sulla tomba di Pelino, il vescovo di Brindisi, martire al tempo dell'imperatore Giuliano. Qui a Corfinio esisteva un sepolcreto di grande importanza, dove venivano tumulati i corpi degli eroi italici caduti in battaglia contro Roma.
Fu un certo Cipriote, discepolo di Pelino, a volere fortemente la costruzione dell'impianto, quando la cittadina fu ricostruita in epoca longobarda e alla quale fu dato il nome di Valva. Non finirono lì le peripezie di questo luogo che dovette subire anche le distruzioni dei Saraceni e degli Ungari.
La cattedrale è quindi composta dall'unione di due corpi distinti: l’oratorio rettangolare allungato con abside al centro, che corrisponde al capo croce di una chiesa incompleta, consacrata nel 1092 e la basilica dedicata a San Pelino e terminata nel terzo decennio del secolo successivo, restaurata nel 1235.
La chiesa maggiore appare imponente con tre navate e alti pilastri quadrangolari. C’è un arco a tutto sesto che immette nel transetto sopraelevato, coperto con volte a botte e a crociera.
Diverse volte i terremoti hanno distrutto parti importanti di questo capolavoro. Ecco il motivo per cui lo spazio interno è dal seicento in stile barocco.
Nella grande navata ora sto ammirando arredi liturgici, affreschi duecenteschi e uno splendido ambone del XII secolo. Mi ha colpito, nel transetto di sinistra una bella opera in pietra raffigurante la Madonna con Bambino in atto di benedire i visitatori.
E' uno spettacolo il coro ligneo del presbiterio che pare sia stato realizzato da Ferdinando Mosca, artista molto quotato nel settecento.
La clessidra del tempo sembra essersi fermata da secoli. Percepisco di essere in una delle culle della civiltà cristiana occidentale.
Nell'aria si spandono aromi d’incenso e le note solenni dei canti gregoriani.
Il gorgheggio di una splendida e coinvolgente voce femminile, sembra essere parte dell’aria che si respira. All’improvviso l’inno del Regina Coeli, pietra miliare della devozione mariana, s’interrompe, insieme al suono gioioso della campana per l’Ora Media del mezzodì.
Il silenzio inaspettato viene rotto dal rumore appena percettibile dei passi di una decina di monache che, entrate in chiesa, prendono posto velocemente nei loro stalli per intonare la salmodia.
Nello zaino ho, immancabilmente, il libercolo della liturgia delle Ore e posso partecipare a questo coinvolgente momento di preghiera collettivo.
La grande e breve follia che è la vita, come amava ripetere il premio Nobel Dario Fo, acquista senso. Davvero, penso, la felicità è nella quotidianità delle piccole cose da ricercare nella preghiera, nella pace con noi stessi e gli altri e nell’armonia con la natura.
Adoro i Salmi, sono splendide poesie e chi ne fa esperienza sa che parlano al cuore dell’uomo anche quando si è nella disperazione massima, totale e devastante.
La scuola dei salmi è un dialogo orante, fiducioso e rasserenante tra la miseria dell’uomo e il cuore indulgente di Dio.
Dopo aver soddisfatto l'anima adesso è ora di soddisfare il corpo.
Nella piazza centrale di Corfinio la Trattoria Il Barbaro è l'ideale: locale informale, cibo genuino, prezzo giusto. Se venite a trovarlo non perdetevi i ravioli alla ricotta e gli arrosticini!
Bella la vita, bello l'Abruzzo!
Come arrivare:
A24/A25 RM-PE uscita Pratola Peligna-Sulmona/ proseguire in direzione Corfinio da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello/ proseguire lungo la SS 372 direzione Vairano Scalo/ poi SS 85/ SS 158 direzione Colli al Volturno/ seguire indicazioni per Castel di Sangro/ Roccaraso/ Sulmona/ direzione A 25/ Corfinio
Info: Municipio tel. 0864-728100
domenica 1 maggio 2016
Sul Crinale degli Acquaviva... Un percorso turistico da percorrere in bici ma anche in auto!
Dall'Area marina protetta del Cerrano al Parco nazionale Gran Sasso-Monti della Laga,
passando per l’Oasi dei calanchi di Atri e la Riserva naturale di Castel Cerreto.
Una distesa di pini d'aleppo, torti e nodosi. Rugosi come la figura canuta di un anziano intento al footing.
Gli uccelli, tra il verde fitto, sparano trilli sensazionali.
È un gran bel vedere, è un gran bel sentire.
Le biciclette sfrecciano sulla pista ciclabile che, dalla vicina frazione di Scerne porta alla torre di Cerrano, piccola appendice di quello che un giorno sarà, si spera, il “Corridoio Verde Adriatico” per due ruote, che arriverà fino a Vasto, nella bellissima area marina di Punta Aderci.
Se non ci fossero più in là i binari della ferrovia, l’albergo stile liberty, le ville e le case intonacate del rosa viola delle buganvillee del quartiere Corfù, potremmo definirla una natura selvaggia.
Se volete un’Irlanda di casa nostra.
Sono a Pineto, sul mare Adriatico del teramano. Guardo le acque color cobalto: sembrano solo un accessorio che dona all'insieme un’attrazione fatale e non mi accorgo che di là si sussegue, inosservato, il mondo.
Sarà per tutto questo che i turisti qui sono “stanziali”, tornano per innumerevoli estati.
Un concorso nazionale promosso dal Fondo Italiano per l’Ambiente dal nome emblematico: “I luoghi del cuore” ha decretato che, fra le zone verdi più votate d’Italia, un posto di rilievo sia occupato da questa meravigliosa pineta.
Orazio qui ci viene da una vita e mezza. Ancor prima che diventasse una riserva naturale marina presidiata da poliziotti a cavallo e attraversata da un nugolo di due ruote e da podisti sfreccianti.
Si dice felice che tutti finalmente abbiano scoperto questo che per lui è il posto più bello d’Italia.
Non so se è veramente il più bello ma ricco di suggestioni, questo sì. Natura e storia creano un binomio fantastico.
Io e lui abbiamo tanti ricordi magici di frequentazioni, con il Club Alpino Italiano, delle nostre meravigliose montagne.
“L’oasi - racconta- nella sua parte storica fu impiantato nel 1920 dal commendatore Luigi Corrado Filiani su terreni demaniali avuti in concessione nel territorio di Villa Filiani, frazione del comune di Mutignano. Fu allora che Villa Filiani cambiò il suo nome in Pineto, in onore alla celebre poesia di D'Annunzio, La pioggia nella pineta. Che storia, non credi”?
Mentre percorriamo a piedi questo sito incantevole Orazio, censisce, scherzosamente, tutte le piante.
“Le ho contate – ride divertito-, sono duemilaquattrocentodieci piante secolari, anche se la famosa nevicata del gennaio di alcuni anni fa ne ha distrutte parecchie”.
Di colpo torna serio e mi chiede se il parco del Cerrano ha qualcosa da invidiare al parco dei Trabocchi della costa teatina di cui tutti parlano.
Le colline regalano, nel frattempo, scorci incredibili tra campi e mare.
Davanti a noi ora si erge l’imponente torre.
Il sordo brusio del mare, i profumi della resina del bosco, la solitudine, sono sensazioni impagabili.
I pini mostrano, quasi orgogliosi, forme contorte dal vento.
La torre è uno tra i più imponenti fortilizi costieri rimasti in regione. Oggi ospita il Laboratorio di Biologia Marina della Provincia di Teramo.
Il manufatto, risalente al XVI secolo, insiste sul luogo dove, nel medioevo si trovava una delle tante posizioni di avvistamento come le torri di Martinsicuro, Alba Adriatica e Giulianova.
Qui sorgeva il porto Cerrano- Matrinus del periodo romano (I e II secolo d.C.).
Questi giganti sul mare si rivelarono una grande invenzione nel respingere il nemico e avvertire, con spari e altri mezzi rudimentali, le popolazioni dell'interno.
“Era qui l’antico punto di sosta, dove i pecorai si fermavano per far riposare i greggi lungo il tratturo teramano”.
L’amico mi parla del sentiero che da Crognaleto, nel cuore dei monti della Laga, i pastori percorrevano nella transumanza, attraversando Montorio al Vomano, Leognano, Basciano, Cermignano, Scorrano, Roseto degli Abruzzi, in quella che è ricordata dagli scrittori rosetani, Arnaldo Giunco e Luigi Braccili, come la “civiltà del dolore e della speranza”.
Che bello ripensare ai pescatori che s’incantavano a vedere il bianco delle pecore e i pastori a veder le barche. Che storia, ripensare agli scambi “culturali”di pesce e formaggio.
Da questi gemellaggi nascevano piatti gustosi come, ad esempio, i maccheroni alla chitarra al sugo di seppie ripiene di pecorino.
Mentre saluto Orazio, sfrego le mani contro la corteccia di un pino altissimo per portare via con me l’odore della resina. Una coppietta ride divertita. Per loro ecologia si sposa solo con effusione.
Questo è solo l'inizio di un percorso che permette di pedalare o di salire in auto, su di un crinale panoramico e ventilato con vista sul mare.
Il rumore della città con la sua esuberanza diventa subito un ricordo e si finisce in campagna, dove il silenzio pare caderti addosso, con tutto il tempo da dedicare a se stessi. Il traffico è quasi nullo.
È la proposta della settimana per vivere in maniera diversa il nostro territorio.
I membri del Coordinamento ciclabili teramane hanno battezzato questo percorso il Crinale degli Acquaviva, dal nome della potente famiglia che governò a lungo i borghi di mezzo Abruzzo teramano.
Da Pineto si punta verso Mutignano, un piccolo borgo d'arte a circa sei chilometri.
Il panorama sull'Adriatico e sui casali è fantastico.
Il borgo si caratterizza per i murales sulle facciate delle case aventi per tema scene di vita rurale.
Interessante la lapide con i nomi delle vittime delle bombe inglesi che, dalle colline di Atri sparavano contro i tedeschi posti a valle dell’abitato.
Alcune granate colpirono nove cittadini. Era il 24 marzo 1944.
Si pedala ora in discesa, riprendendo la S.P. 28 che sale nella città ducale.
S’incontra la Via di Fonte Canale con un caratteristico lavatoio e numerosi archi gotici e vasche.
Tutti conoscono Atri e i suoi gioielli, ma pochi sanno che questa città d’arte ha una parte ipogea che nasconde fontane antichissime, grotte scavate ai margini del paese e un ingegnoso sistema idraulico sotterraneo.
Il centro abitato è localizzato su tre piccoli colli denominati Maralto, di Mezzo e Muralto, a un’altezza di 445 metri e poggia quasi esclusivamente su conglomerati di tetto che, causa la loro notevole permeabilità, sono facilmente attraversati dall'acqua.
Tale caratteristica ha indotto le genti che occupavano in epoca preromana il territorio atriano a escogitare stratagemmi che sfruttassero tale prerogativa. Sono stati realizzati nel sottosuolo dei principali colli, cunicoli sotterranei destinati alla captazione e al convogliamento delle acque percolanti sorgive in zone di approvvigionamento che oggi corrispondono alle antiche fontane atriane.
Tali strutture, probabilmente di derivazione persiana, consistono in ingegnosi sistemi idraulici sotterranei che, sfruttando la natura geologica del terreno e l’inclinazione dei cunicoli, permettono il deflusso delle acque in punti di raccolta, le fontane appunto.
Sistemi simili sono stati rinvenuti in altre aree del bacino mediterraneo, possiamo, infatti, ricordare i “qanat” in Siria e in Giordania, i “karez” in Afganistan e Pakistan, i “foggara” in Nordafrica, i “khittara” in Marocco, le “gàllerias” in Spagna.
Non mancano esempi nella nostra penisola, a Fermo, a Chieti, Palermo e a Matera.
L’enorme e ramificata rete di cunicoli, cisterne, pozzi e fontane, presente sotto il centro storico di Atri, faceva parte di un unico grandioso sistema idrico di epoca preromana.
Uno degli ipogei più belli, presente poco fuori le mura cittadine, è quello delle “Grotte dei Sarracini” e delle “Macinelle”.
Si entra ora in Atri attraverso l’antica porta San Domenico (secolo XVI). Da notare l’interessante facciata di San Giovanni Battista (secolo XIV).
Una viuzza ad angolo catapulta nella Piazza Duchi d’Acquaviva, con il caratteristico palazzo.
È possibile scoprire il centro Oasi dei calanchi, dove la vista spazia dall'Adriatico alla Majella e al Gran Sasso.
Non tutti sanno che i calanchi possono essere visitati salendo a cavallo e percorrendo una splendida ippovia, tra insoliti scenari.
Contro il cielo, le sagome dei dirupi di creste nude destano meraviglia.
L’itinerario si snoda tra voli di piccoli rapaci, canne che frusciano al vento e dolci pianori invitanti denudati da secoli di pascolo. Probabilmente una giornata da incorniciare in cui l’uomo si ricongiunge alla natura.
Come uno scenario immutato da secoli, le bolge da inferno dantesco disegnano la genesi dei paesaggi argillosi, avvinghiandosi alla vegetazione a fondo valle e convivendo a fatica con il lavoro e gli interessi dell’uomo.
Ai lati, sovente, si aprono ampi burroni con ripidi versanti spogli che di colpo si colorano grazie a piante di carciofi selvatici, ginestre, biancospini e rose canine. I calanchi, aspri e maestosi, appaiono in tutta la loro potenza, impercorribili e indomabili.
La sensazione di libertà che il cavallo sa dare, ben si concilia con queste colline dolci, rigate da campi di erba medica, che d’improvviso paiono comprimere il senso dello spazio, rivelando paesaggi disegnati dal rasoio brutale dell’uomo.
La Riserva naturale regionale dei calanchi di Atri si è dotata di una straordinaria e naturale arteria di collegamento del territorio, una ciclo ippovia di poco meno di trenta chilometri, che dà la possibilità di vivere in assoluta tranquillità le meraviglie di un territorio dove la potenza trionfante della natura è parte essenziale della grandezza del creato e, dove le impronte digitali di Dio sono disseminate ovunque.
Per continuare il percorso degli Acquaviva, si pedala verso il borgo incastellato di Cellino Attanasio, tra storia, arte, enogastronomia. Qui l’armonia delle testimonianze artistiche s’immerge nel silenzio della campagna.
Dal belvedere del paese, la vista spazia su un finimondo di colline simili a un mare reso pazzo da improvvisi cambi di vento.
La possente torre con le sue pietre racconta storie antiche.
Il manufatto cilindrico in laterizio, dai merli guelfi non originali, domina il paesaggio.
Alcuni monconi di mura di una seconda torre sono ciò che resta della fantastica cortina muraria innalzata dopo che l’antico feudo degli Acquaviva fu piegato nel quattrocento, cadendo sotto i colpi di un assedio senza precedenti.
Matteo di Capua, al servizio degli Aragonesi, combatté contro il duca di Atri, Giosia Acquaviva che aveva osato sfidare i potenti, rifugiandosi, disperato, nel borgo.
Da poco questo notevole esempio di architettura militare medievale è stato oggetto d’interventi per scongiurare problemi di staticità.
Lungo i meandri dell’abitato diventa impossibile per il visitatore non amare profondamente quella incredibile unione di quotidianità e senso comune del bello.
In fondo al viale d’ingresso, dedicato a Luigi di Savoia, c’è la chiesa madre di Santa Maria la Nova.
Risalente al trecento, la parrocchiale fu modificata nell'ottocento, a causa del crollo delle volte.
Da scoprire il portale quattrocentesco di Matteo Capro, napoletano innamorato dei nostri luoghi tanto da lasciare altre opere in paesi di montagna.
All'interno del tempio, che in origine era a tre navate e oggi ne conta una in meno, c’è un tesoro diffuso: un cero pasquale datato 1383, con un serpeggiante tralcio di vite tra foglie e pigne, un coro ligneo, un tabernacolo in pietra del tardo quattrocento, un ricco altare barocco. Nel cuore delle case, superata la piazza dedicata al naturalista Rubini, si raggiunge lo slargo di S. Antonio, dove si affaccia la chiesa dedicata al santo di Assisi, Francesco, inglobata singolarmente alla struttura di un altro torrione.
Chi vuole percorrere solo un tratto di questo meraviglioso itinerario, ogni tanto trova un bivio per il fondovalle del Vomano.
Continuando s'incontra Cermignano, sede di un antico castello. Dal suo belvedere si ammira il bacino del Piomba e una scultura commemorativa ai caduti della Patria, realizzata nel 1922 dal teramano Pasquale Morganti.
Si può scendere a Montegualtieri per una visita alla torre triangolare e al vecchio mulino di Maiorino Francia, lungo il Vomano, risalente al 1868.
Altra meta è Penna Sant'Andrea, il paese del Laccio d’amore.
Volendo proseguire sul crinale, si raggiunge la località Monte Giove dove furono trovati resti archeologici dell’Età del Ferro.
È possibile visitare la Riserva naturale di Castel Cerreto, proseguire per Colledoro e Isola del Gran Sasso o recarsi a Ronzano e la sua abbazia.
Buon viaggio!
passando per l’Oasi dei calanchi di Atri e la Riserva naturale di Castel Cerreto.
Una distesa di pini d'aleppo, torti e nodosi. Rugosi come la figura canuta di un anziano intento al footing.
Gli uccelli, tra il verde fitto, sparano trilli sensazionali.
È un gran bel vedere, è un gran bel sentire.
Le biciclette sfrecciano sulla pista ciclabile che, dalla vicina frazione di Scerne porta alla torre di Cerrano, piccola appendice di quello che un giorno sarà, si spera, il “Corridoio Verde Adriatico” per due ruote, che arriverà fino a Vasto, nella bellissima area marina di Punta Aderci.
Se non ci fossero più in là i binari della ferrovia, l’albergo stile liberty, le ville e le case intonacate del rosa viola delle buganvillee del quartiere Corfù, potremmo definirla una natura selvaggia.
Se volete un’Irlanda di casa nostra.
Sono a Pineto, sul mare Adriatico del teramano. Guardo le acque color cobalto: sembrano solo un accessorio che dona all'insieme un’attrazione fatale e non mi accorgo che di là si sussegue, inosservato, il mondo.
Sarà per tutto questo che i turisti qui sono “stanziali”, tornano per innumerevoli estati.
Un concorso nazionale promosso dal Fondo Italiano per l’Ambiente dal nome emblematico: “I luoghi del cuore” ha decretato che, fra le zone verdi più votate d’Italia, un posto di rilievo sia occupato da questa meravigliosa pineta.
Orazio qui ci viene da una vita e mezza. Ancor prima che diventasse una riserva naturale marina presidiata da poliziotti a cavallo e attraversata da un nugolo di due ruote e da podisti sfreccianti.
Si dice felice che tutti finalmente abbiano scoperto questo che per lui è il posto più bello d’Italia.
Non so se è veramente il più bello ma ricco di suggestioni, questo sì. Natura e storia creano un binomio fantastico.
Io e lui abbiamo tanti ricordi magici di frequentazioni, con il Club Alpino Italiano, delle nostre meravigliose montagne.
“L’oasi - racconta- nella sua parte storica fu impiantato nel 1920 dal commendatore Luigi Corrado Filiani su terreni demaniali avuti in concessione nel territorio di Villa Filiani, frazione del comune di Mutignano. Fu allora che Villa Filiani cambiò il suo nome in Pineto, in onore alla celebre poesia di D'Annunzio, La pioggia nella pineta. Che storia, non credi”?
Mentre percorriamo a piedi questo sito incantevole Orazio, censisce, scherzosamente, tutte le piante.
“Le ho contate – ride divertito-, sono duemilaquattrocentodieci piante secolari, anche se la famosa nevicata del gennaio di alcuni anni fa ne ha distrutte parecchie”.
Di colpo torna serio e mi chiede se il parco del Cerrano ha qualcosa da invidiare al parco dei Trabocchi della costa teatina di cui tutti parlano.
Le colline regalano, nel frattempo, scorci incredibili tra campi e mare.
Davanti a noi ora si erge l’imponente torre.
Il sordo brusio del mare, i profumi della resina del bosco, la solitudine, sono sensazioni impagabili.
I pini mostrano, quasi orgogliosi, forme contorte dal vento.
La torre è uno tra i più imponenti fortilizi costieri rimasti in regione. Oggi ospita il Laboratorio di Biologia Marina della Provincia di Teramo.
Il manufatto, risalente al XVI secolo, insiste sul luogo dove, nel medioevo si trovava una delle tante posizioni di avvistamento come le torri di Martinsicuro, Alba Adriatica e Giulianova.
Qui sorgeva il porto Cerrano- Matrinus del periodo romano (I e II secolo d.C.).
Questi giganti sul mare si rivelarono una grande invenzione nel respingere il nemico e avvertire, con spari e altri mezzi rudimentali, le popolazioni dell'interno.
“Era qui l’antico punto di sosta, dove i pecorai si fermavano per far riposare i greggi lungo il tratturo teramano”.
L’amico mi parla del sentiero che da Crognaleto, nel cuore dei monti della Laga, i pastori percorrevano nella transumanza, attraversando Montorio al Vomano, Leognano, Basciano, Cermignano, Scorrano, Roseto degli Abruzzi, in quella che è ricordata dagli scrittori rosetani, Arnaldo Giunco e Luigi Braccili, come la “civiltà del dolore e della speranza”.
Che bello ripensare ai pescatori che s’incantavano a vedere il bianco delle pecore e i pastori a veder le barche. Che storia, ripensare agli scambi “culturali”di pesce e formaggio.
Da questi gemellaggi nascevano piatti gustosi come, ad esempio, i maccheroni alla chitarra al sugo di seppie ripiene di pecorino.
Mentre saluto Orazio, sfrego le mani contro la corteccia di un pino altissimo per portare via con me l’odore della resina. Una coppietta ride divertita. Per loro ecologia si sposa solo con effusione.
Questo è solo l'inizio di un percorso che permette di pedalare o di salire in auto, su di un crinale panoramico e ventilato con vista sul mare.
Il rumore della città con la sua esuberanza diventa subito un ricordo e si finisce in campagna, dove il silenzio pare caderti addosso, con tutto il tempo da dedicare a se stessi. Il traffico è quasi nullo.
È la proposta della settimana per vivere in maniera diversa il nostro territorio.
I membri del Coordinamento ciclabili teramane hanno battezzato questo percorso il Crinale degli Acquaviva, dal nome della potente famiglia che governò a lungo i borghi di mezzo Abruzzo teramano.
Da Pineto si punta verso Mutignano, un piccolo borgo d'arte a circa sei chilometri.
Il panorama sull'Adriatico e sui casali è fantastico.
Il borgo si caratterizza per i murales sulle facciate delle case aventi per tema scene di vita rurale.
Interessante la lapide con i nomi delle vittime delle bombe inglesi che, dalle colline di Atri sparavano contro i tedeschi posti a valle dell’abitato.
Alcune granate colpirono nove cittadini. Era il 24 marzo 1944.
Si pedala ora in discesa, riprendendo la S.P. 28 che sale nella città ducale.
S’incontra la Via di Fonte Canale con un caratteristico lavatoio e numerosi archi gotici e vasche.
Tutti conoscono Atri e i suoi gioielli, ma pochi sanno che questa città d’arte ha una parte ipogea che nasconde fontane antichissime, grotte scavate ai margini del paese e un ingegnoso sistema idraulico sotterraneo.
Il centro abitato è localizzato su tre piccoli colli denominati Maralto, di Mezzo e Muralto, a un’altezza di 445 metri e poggia quasi esclusivamente su conglomerati di tetto che, causa la loro notevole permeabilità, sono facilmente attraversati dall'acqua.
Tale caratteristica ha indotto le genti che occupavano in epoca preromana il territorio atriano a escogitare stratagemmi che sfruttassero tale prerogativa. Sono stati realizzati nel sottosuolo dei principali colli, cunicoli sotterranei destinati alla captazione e al convogliamento delle acque percolanti sorgive in zone di approvvigionamento che oggi corrispondono alle antiche fontane atriane.
Tali strutture, probabilmente di derivazione persiana, consistono in ingegnosi sistemi idraulici sotterranei che, sfruttando la natura geologica del terreno e l’inclinazione dei cunicoli, permettono il deflusso delle acque in punti di raccolta, le fontane appunto.
Sistemi simili sono stati rinvenuti in altre aree del bacino mediterraneo, possiamo, infatti, ricordare i “qanat” in Siria e in Giordania, i “karez” in Afganistan e Pakistan, i “foggara” in Nordafrica, i “khittara” in Marocco, le “gàllerias” in Spagna.
Non mancano esempi nella nostra penisola, a Fermo, a Chieti, Palermo e a Matera.
L’enorme e ramificata rete di cunicoli, cisterne, pozzi e fontane, presente sotto il centro storico di Atri, faceva parte di un unico grandioso sistema idrico di epoca preromana.
Uno degli ipogei più belli, presente poco fuori le mura cittadine, è quello delle “Grotte dei Sarracini” e delle “Macinelle”.
Si entra ora in Atri attraverso l’antica porta San Domenico (secolo XVI). Da notare l’interessante facciata di San Giovanni Battista (secolo XIV).
Una viuzza ad angolo catapulta nella Piazza Duchi d’Acquaviva, con il caratteristico palazzo.
È possibile scoprire il centro Oasi dei calanchi, dove la vista spazia dall'Adriatico alla Majella e al Gran Sasso.
Non tutti sanno che i calanchi possono essere visitati salendo a cavallo e percorrendo una splendida ippovia, tra insoliti scenari.
Contro il cielo, le sagome dei dirupi di creste nude destano meraviglia.
L’itinerario si snoda tra voli di piccoli rapaci, canne che frusciano al vento e dolci pianori invitanti denudati da secoli di pascolo. Probabilmente una giornata da incorniciare in cui l’uomo si ricongiunge alla natura.
Come uno scenario immutato da secoli, le bolge da inferno dantesco disegnano la genesi dei paesaggi argillosi, avvinghiandosi alla vegetazione a fondo valle e convivendo a fatica con il lavoro e gli interessi dell’uomo.
Ai lati, sovente, si aprono ampi burroni con ripidi versanti spogli che di colpo si colorano grazie a piante di carciofi selvatici, ginestre, biancospini e rose canine. I calanchi, aspri e maestosi, appaiono in tutta la loro potenza, impercorribili e indomabili.
La sensazione di libertà che il cavallo sa dare, ben si concilia con queste colline dolci, rigate da campi di erba medica, che d’improvviso paiono comprimere il senso dello spazio, rivelando paesaggi disegnati dal rasoio brutale dell’uomo.
La Riserva naturale regionale dei calanchi di Atri si è dotata di una straordinaria e naturale arteria di collegamento del territorio, una ciclo ippovia di poco meno di trenta chilometri, che dà la possibilità di vivere in assoluta tranquillità le meraviglie di un territorio dove la potenza trionfante della natura è parte essenziale della grandezza del creato e, dove le impronte digitali di Dio sono disseminate ovunque.
Per continuare il percorso degli Acquaviva, si pedala verso il borgo incastellato di Cellino Attanasio, tra storia, arte, enogastronomia. Qui l’armonia delle testimonianze artistiche s’immerge nel silenzio della campagna.
Dal belvedere del paese, la vista spazia su un finimondo di colline simili a un mare reso pazzo da improvvisi cambi di vento.
La possente torre con le sue pietre racconta storie antiche.
Il manufatto cilindrico in laterizio, dai merli guelfi non originali, domina il paesaggio.
Alcuni monconi di mura di una seconda torre sono ciò che resta della fantastica cortina muraria innalzata dopo che l’antico feudo degli Acquaviva fu piegato nel quattrocento, cadendo sotto i colpi di un assedio senza precedenti.
Matteo di Capua, al servizio degli Aragonesi, combatté contro il duca di Atri, Giosia Acquaviva che aveva osato sfidare i potenti, rifugiandosi, disperato, nel borgo.
Da poco questo notevole esempio di architettura militare medievale è stato oggetto d’interventi per scongiurare problemi di staticità.
Lungo i meandri dell’abitato diventa impossibile per il visitatore non amare profondamente quella incredibile unione di quotidianità e senso comune del bello.
In fondo al viale d’ingresso, dedicato a Luigi di Savoia, c’è la chiesa madre di Santa Maria la Nova.
Risalente al trecento, la parrocchiale fu modificata nell'ottocento, a causa del crollo delle volte.
Da scoprire il portale quattrocentesco di Matteo Capro, napoletano innamorato dei nostri luoghi tanto da lasciare altre opere in paesi di montagna.
All'interno del tempio, che in origine era a tre navate e oggi ne conta una in meno, c’è un tesoro diffuso: un cero pasquale datato 1383, con un serpeggiante tralcio di vite tra foglie e pigne, un coro ligneo, un tabernacolo in pietra del tardo quattrocento, un ricco altare barocco. Nel cuore delle case, superata la piazza dedicata al naturalista Rubini, si raggiunge lo slargo di S. Antonio, dove si affaccia la chiesa dedicata al santo di Assisi, Francesco, inglobata singolarmente alla struttura di un altro torrione.
Chi vuole percorrere solo un tratto di questo meraviglioso itinerario, ogni tanto trova un bivio per il fondovalle del Vomano.
Continuando s'incontra Cermignano, sede di un antico castello. Dal suo belvedere si ammira il bacino del Piomba e una scultura commemorativa ai caduti della Patria, realizzata nel 1922 dal teramano Pasquale Morganti.
Si può scendere a Montegualtieri per una visita alla torre triangolare e al vecchio mulino di Maiorino Francia, lungo il Vomano, risalente al 1868.
Altra meta è Penna Sant'Andrea, il paese del Laccio d’amore.
Volendo proseguire sul crinale, si raggiunge la località Monte Giove dove furono trovati resti archeologici dell’Età del Ferro.
È possibile visitare la Riserva naturale di Castel Cerreto, proseguire per Colledoro e Isola del Gran Sasso o recarsi a Ronzano e la sua abbazia.
Buon viaggio!
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