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venerdì 28 marzo 2014

In uno “Svarietto di terra” tra le vecchie scalette e l’Annunziata

Che grande idea fu animare uno “Svarietto” di terra e accogliervi il meglio della cultura teramana.
Carlo Marconi è stato un personaggio anticonformista che ha illuminato di cultura, dal 1976 al 1996 le serate della città di Teramo.
Il noto scrittore Giammario Sgattoni lo definiva:
“… sempre elegante, i suoi cappelli di feltro chic… e il sorriso davvero esemplare”.

Carlo colorava le vetrine del centro storico con le sue locandine che preparava insieme ad amici fidati come Peppino Scarselli, Alberto Chiarini, Genì Fantacone e poi affiggeva di soppiatto per richiamare il popolo ad una serata di poesia, scultura, musica.

Nasceva così la custodia dei valori popolari:
un “Sant’Antonio” con canti di questua tra bruschette, salsicce e vino, uno “sdijuno” dopo i digiuni quaresimali con la messa celebrata dallo storico Don Giulio Di Francesco, un “San Giovanni” col comparato a fiori dove, portando una rosa, una margherita, si acquisiva un compare a vita.

Un “San Luca” protettore dei pittori dove si riuniva il meglio di questa nobile arte, un “San Martino” tra allegre chiacchierate con Fernando Aurini, Alfonso Sardella, Vincenzo Cimini e bicchieri di vino novello, un “San Berardo” un “Focaracce”.

Tutte scuse per riunire davanti al suo vecchio focolare gli amici e fare cultura in maniera insolita.

Sandro Melarangelo, storico e pittore definiva questa idea
“… una grande valorizzazione del patrimonio locale in un modo che solo i mecenati rinascimentali sapevano fare, unendo ospitalità e sapere … un luogo piccolo dove svariarsi senza seriosità pur facendo cultura”.

Erano i tempi di Guido Montauti, Giustino Melchiorre, Guido Martella e di tanti altri grandi nomi di teramani che ci hanno lasciato.

Era frequente nelle serate dello “Svarietto” incontrarsi col grande Ivan Graziani, con la Grazia Scuccimarra, assistere ad un saggio di danza delle dolcissime Liliana Merlo e Mariella Converti, ascoltare il sax di Nino Dale, osservare le opere di Norma Carrelli, Alberto Chiarini, Sandro Melarangelo, godere del Coro Verdi, dello Zaccaria, ma anche di un umile suonatore di “Ddu Botte”.

La mitica Paola Borboni, capitata in quel giardino, si mise a declamare versi e alla fine scoppiò in una fragorosa risata dicendo che pur avendo calcato i più grandi teatri italiani, mai si era sentita così ispirata.

Si prodigava il signor Carlo per riunire gli artisti e dare un servizio alla città, regalando un luogo dove poter coltivare il bello della vita.

Ricordo che quando trasmettevo musica e chiacchiere a Radio Centro Abruzzo, dopo il mio spazio, andava in onda l’appuntamento curato da un uomo di cultura che ammiro, il Professor Gabriele Di Cesare.
“Ipotesi”, era questo il nome del programma nel quale Gabriele invitava tutti i personaggi di questo mitico cenacolo dando poi appuntamento in via Nicola Palma 47, in una sorta di sodalizio dal quale la cultura teramana usciva vincente.

E la signora Rosa insieme al marito Carlo era lì ad attendere tutti, anche gli sconosciuti, offrendo un bocconotto, un panzerotto, una pizza rustica, del vino ma, soprattutto ospitalità d’altri tempi.

Ricordo alcune serate meravigliose, poche purtroppo, visto che la mia tenera età a quei tempi, mi impediva di capire la valenza di questi incontri dei quali oggi non farei a meno: i festeggiamenti per i 105 anni di
Domenico Centinaro nell’epifania del 1983, gli auguri per i 12 anni di attività della nostra radio nel maggio del ‘90 dove, tra gli splendidi naif di Shandra Moscardelli furono molti gli ascoltatori dell’emittente a farci visita.

Carlo e Rosa erano sempre lì con il buon umore che li contraddistingueva e mentre parlavano con gli astanti, buttavano occhiate agli amati fiori del giardino per vedere se avevano bisogno di qualcosa.

Innamorato della montagna, Carlo Marconi organizzò con gli amici dello Svarietto anche delle serate per rivitalizzare paesi abbandonati come Figliola di Crognaleto, Settecerri di Valle Castellana,
Altovia di Cortino e dall’alba al tramonto tra una poesia, una pittura, una foto e l’esibizione di un coro di montagna, si consumava degnamente la vita.

Tanti personaggi, alcuni ancora vivi, molti partiti per il lungo viaggio, ma scommetto che da lassù guardano sempre la “loro” Teramo.


Grazie ai cari parenti di Carlo Marconi e a tutti coloro i quali hanno messo a disposizione le foto d'epoca di questo articolo! 

mercoledì 26 marzo 2014

“Habitare secum”: dove il silenzio vince comunque il rumore.

Casale San Nicola un tempo era un villaggio delizioso, piantato magicamente proprio sotto la scenografica e gigantesca parete del Corno Grande, il mitico Gran Sasso, montagna regale degli Appenini con il suo precipizio di oltre 1400 metri.

L’ambiente, la testa della vallata Siciliana, tra le più verdi d’Abruzzo, era semplicemente grandioso, indimenticabile per chi percorresse i tanti sentieri ameni tra boschi e rocce aguzze.

Gli occhi che, per chilometri prima, si erano addolciti su profili di campagne, colline arcaiche e greggi, si riempivano di creste monumentali.

Poi, un giorno poco bello, gli uccelli smisero di cantare e il fiume Mavone parve fermare il gorgoglio delle acque.
Un attimo di silenzio e, all’improvviso di colpo si materializzarono, come un incubo in fase rem, grossi camion pieni di bitume, decine e decine di uomini in tuta e casco, ingegneri in giacca e cravatta armati di regoli e attrezzature infernali per rilevare le pendenze del terreno.

Rumori assordanti coprirono le antiche melodie dei boschi, i trilli gioiosi dei volatili e i fischi dei rapaci a caccia.

Eppure la montagna dovrebbe essere lasciata nella sua pace eterna.
Il progresso non ammette deroghe.
Quando arriva l’uomo qualche volta fa del bene, molte altre fa del male.

Fatto è che, da allora, questo luogo delizioso a pochi chilometri da Isola del Gran Sasso e il frequentato santuario di San Gabriele, ha perso gran parte della pace che si godeva da secoli, pagando un grosso dazio al progresso.
Un mondo quasi scomparso tra crolli di pietre dal paretone soprastante, piloni giganteschi che si sono insinuati tra le case, soglie invase da sterpi e il dramma dell’esodo di molti verso luoghi più ospitali che trasuda da alcune abitazioni abbandonate.

A Casale San Nicola nessuno ha dimenticato!
Tutti ricordano ancora con emozione quando, in piena estate, anni fa, si staccò un costone di notevoli proporzioni dal Corno Grande a 2800 metri, alla base del quarto pilastro.

Come tutte le montagne anche il Gran Sasso è oggetto di un continuo processo di erosione.

Ma una spaccatura in movimento come quella non si era mai vista.
Una nube di detriti oscurò la valle, creando il panico tra gli automobilisti fin dentro l’autostrada, il cupo rumore che terrorizzò la gente del posto, qui lo ricordano tutti.

La frana segnò irrimediabilmente l’imponente massiccio del Gran Sasso creando una traccia indelebile che è visibile distintamente e stringe il cuore di chi ama il “gigante che dorme”
Ormai è sempre un’avventura percorrere qualsiasi sentiero che passi sotto il “paretone”.

Sopra la testa degli abitanti, auto di grosse cilindrate, tir e bus diretti da e per Roma attraverso Teramo e L’Aquila sfrecciano come razzi.
Il traffico scorre veloce e puzzolente per infilarsi o per uscir fuori dal grande tunnel di oltre dieci chilometri che collega velocemente le due province.

Gli idrocarburi rilasciati dai tubi di scappamento, che notoriamente volano bassi, scendono dai piloni sotto le abitazioni avvelenando lentamente i pochi abitanti che non hanno voluto rinunciare a vivere nel luogo dove sono nati.

Pensare che il borgo e i paesi vicini un tempo contavano un così gran numero di residenti al punto che qualcuno aveva anche proposto di spostare la sede comunale di Isola nella ridente Cerchiara, qualche chilometro a nord di Casale.

Si divisero i locali allora tra chi non voleva il trasferimento e chi, invece, lo auspicava fortemente.

Oggi una delle poche attività rimaste è un piccolo albergo alle porte della città che vive di turismo escursionistico per due, tre mesi l’anno.


Casale San Nicola, d’altronde, è sempre il punto ideale di partenza per le ascensioni dal versante orientale del Corno Grande e qui nel 1875, il presidente del Club Alpino Internazionale, tal Douglas William Freshfiend, in viaggio negli Appennini, disse: “Vorrei morir qui un giorno lontano”, magnificando il minuscolo borgo nella rivista dell’associazione.
Un immenso scenario di vita sospesa proprio come i piloni dell’autostrada.

Arrivare a Casale San Nicola:
Pochi minuti dall'uscita autostradale A24 Colledara-S.Gabriele, 
via Isola del Gran Sasso.


A volte, amici miei, tutto pare così vicino nello spazio e così lontano nel tempo.
A me è bastato, questo pomeriggio, fare un chilometro sopra il paese di Casale, per ritrovarmi comunque, in un autentico santuario della natura, ai piedi di una conca circondata da alte montagne che sembrano ciclopi di pietre.
Ho preso un permesso di due ore a lavoro.
Avevo un gran bisogno di pace.
Io dico sempre a chi non si regala mai una camminata in montagna, che così facendo perde il meglio della vita.
È qui, davanti alla grandiosità del creato e del suo Creatore, che ridimensioni tutto di te stesso, torni a prestare attenzione al quotidiano, riesci a cercare nell’immensità il piccolo, la semplicità della quotidianità che, nella vita di tutti i giorni, perdiamo inesorabilmente.

Più cresce la pendenza, più aumenta la lentezza che aiuta a pensare, a rilassarsi, a vivere alla ricerca, come ben racconta lo scrittore Erri De Luca, del segreto della bellezza movente di tutte le forti pulsioni dell’animo umano.
Credetemi, la possibilità di puntare all’infinito verso spazi senza ostacoli, non ha prezzo, come suggerisce la pubblicità di una nota carta di credito!

Il panorama è da urlo.
La valle col fiume Mavone è scomparsa dietro un paio di curve, le case dimenticate, nessuna anima viva se non due ardimentosi in sella a un poco stabile parapendio a sfidare tutte le leggi di gravità, in alto nel cielo blu sopra i burroni.

“Habitare secum”, soleva dire San Benedetto da Norcia, abitare con se stessi, con la propria solitudine, questo cerca l’uomo, questo cerco io.

Nel bosco che lambisce le pendici delle vette orientali del massiccio Gran Sasso, l’aria pare pulita, corroborante.



Le pietre della mulattiera incutono una sorta di rispetto reverenziale al solo pensiero di quante persone l’abbiano calpestate, nel corso dei secoli quando questa era l’unica via di collegamento con la pianura.
Gli occhi visitano, avidi, gli anfratti intorno alle vette.
Si distingue tutto in una giornata limpida come oggi.

Riesco anche a individuare il terrazzo di tappeto erboso dove secoli fa si ergeva il monastero che raccoglieva le preghiere di circa una trentina di frati.
Pare fosse un’ importante dipendenza della nota abbazia di Farfa, pochi chilometri da Rieti sulla via Sabina.
La presenza di questo luogo sacro, oltre dieci secoli fa, oggi è messa in discussione da alcuni studiosi.

Diversi anni fa, comunque, proprio nel cuore del terrazzamento sotto il Corno Grande, fu scoperto una specie di grosso buco dentro il quale giacevano molte ossa e teschi umani.
Si disse che si trattava di un “carnaio” , una botola sotto il pavimento della chiesa dove si usava seppellire i religiosi che nascevano al cielo.

Il complesso architettonico non doveva essere imponente ma sicuramente regalava fascino, data la felice posizione circondata da vette maestose e una natura sontuosa.

I frati, direbbe Mauro, il mio caro amico bolognese ateo professo, ne sanno una più del diavolo e i posti dove vivere se li scelgono accuratamente.
Per altri studiosi questo monastero sarebbe nato a causa della riforma eremitica di San Pier Damiani intorno al 1190, forse come pertinenza del monastero camaldolese di San Croce di Fonte Avellana.

Il luogo sacro sarebbe stato abbandonato nel 1300 dai monaci che si sarebbero stanziati nella
sottostante Fano a Corno, monastero di San Salvatore, a causa di dispute poco edificanti sui possessi.

Nella piana verde che sto attraversando, c’è anche un cavallo un pochino malmesso, che beatamente mangia erba.
In fondo alla radura c’è una vecchia stalla abbandonata con il fienile e quel che resta di una greppia per far mangiare dei maiali che sicuramente anni fa si sono trasformati in succulenti prosciutti, salsicce e salami caserecci.

Poco distante ci sono anche dei resti che intuisco sono di un pollaio con un’asse esterna che portava a una minuscola apertura dove a sera rientravano le galline.
Oggi questa costruzione è utilizzata come ripostiglio.
S’intravede l’interno con accanto alla porta cadente, un saccone di iuta.
Lo saggio con le mani, il mio limite è la curiosità!
È pieno di scricchiolanti foglie, credo siano di granturco e la stoffa del sacco è chiazzata di macchie d’umidità.
Più in là s’intravedono pecore gironzolanti in libertà. La mia Nikon immortala una delle sagome animali che per il gioco di prospettiva pare attaccata a un arco di roccia scura con macchie bianche di
neve.

Estasiato dalla corona di cime sopra la mia testa, mi trovo davanti la donna all’improvviso.
Porta con sé una grossa zappa e, per un attimo, un brivido scende lungo la schiena: “E se fosse folle al punto di darmela in testa? Sarà la proprietaria del posto?”.
Mi avvicino con cautela e lei, in dialetto stretto, già sta chiedendomi cosa stia cercando in quel posto isolato.

Ma domando e dico, ho una macchina fotografica, indosso tuta e scarponcini da trekking, cosa vorrebbe rispondessi?
Poi, subito dopo, capisco che era tutta una scusa per attaccar bottone.
La donna, un po’ avanti in età, ha bisogno di qualcuno a cui raccontare una mezza vita.

Scopro, nel successivo quarto d’ora che è vedova più o meno inconsolabile, che il marito l’ha lasciata da sola sul più bello, proprio mentre insieme vivevano di passeggiate montanare e di tranquillità da pensionati.
Sono come pugile tramortito da un poderoso uppercut!

Per chi come me vive nel continuo stress di gente che si accosta allo sportello di un ufficio finanziario per lamentarsi delle tasse esose, delle cartelle pazze, dello stato che non tutela i buoni contribuenti, l’uscita in montagna ha come scopo principale, oltre a godere della bellezza di una natura generosa, quella di vivere il momento magico del silenzio.

Tra mozziconi di frasi gettate qua e là, la donna inizia a raccontare una storia che diventa pian piano interessante.
Indica con il braccio e il dito teso un punto tra le cime lontane e ricorda che il suo povero marito, nelle lunghe camminate in cui la coinvolgeva a forza, l’aveva portata davanti a una grotta gigantesca raccontandole che lì, moltissimi anni prima, era vissuta una donna con i suoi tre figli in condizioni che definire disumane era poco.
Il suo uomo l’aveva abbandonata per fuggire con un’altra donna portandole via, con l’inganno, la proprietà della casa venduta a sua insaputa e quei poveri risparmi di una mezza vita.
Quando l’allora curato del paese si era deciso ad aiutare la misera, destinandole un paio di stanze della casetta annessa alla chiesa, lei rifiutò categoricamente di abbandonare la grotta.
Da lì ogni giorno scendeva in paese per chiedere elemosine di cibo e vestiario per se e i suoi figli.
Una storia che ha dell’incredibile! Sarà vera?

Non ho purtroppo il tempo di arrivare al rifugio Casale San Nicola.
È un percorso completo, bellissimo, dove l’imponenza del paretone del Corno Grande si fonde con le acque di un torrente, le mura di una bella chiesetta isolata dedicata proprio a San Nicola, l’ombra di un bosco secolare e prati estremamente panoramici.

Naturalmente si godono scorci indimenticabili sulla valle Siciliana e la catena orientale del Gran Sasso.
Avrei tanta voglia di rivedere questo rifugio che fu costruito tra gli anni 30 e 40 in una posizione incantevole ma ci arriverei che le ombre della notte già sono scese e non ho con me l’attrezzatura per dormire.

Nella casupola non ci sono bar e ristorante, naturalmente, non vi aspettate un rifugio stile Dolomiti.
Però è un luogo magico dove poter consumare i meritati panini, all’ombra della parete più elegante ed imponente dell’Appennino.
Certo, per intraprendere questa camminata di sette chilometri, è necessario un minimo di esperienza escursionistica, il percorso è sì abbastanza evidente ma i bivi che si incontrano sono numerosi.
La segnaletica scadente e confusionaria, non aiuta certo il profano a districarsi meglio nella fitta rete di sentieri.
C’è anche la possibilità per piedi forti di continuare e raggiungere la sella di Cima Alta, quella che i pigri raggiungono in macchina attraverso la strada carrabile che sale dal piazzale dei Prati di Tivo.


lunedì 24 marzo 2014

Il borgo dei serpenti

Grazie al caro amico Sergio Pancaldi fotografo a Roseto degli Abruzzi per le fantastiche foto!  

Se consultassimo un atlante, individuare il paese di Cocullo sarebbe laborioso, incastonato com’è al confine tra la Marsica e la Valle Peligna.

Però, chi prende la strada tortuosa e stretta che, in mezzo a mille curve, sovrasta le profonde gole del Sagittario, addentrandosi fra montagne selvose, rupi contorte a picco e pinnacoli danteschi, fino a giungere a questo borgo, tutto desta meraviglia.

Il Parco Nazionale è distante pochi chilometri, con Villalago, il lago di Scanno e Passo Godi, luoghi turistici, dove non mancano ristoranti e alberghi.

Cocullo rimane, nel suo splendido isolamento, come sospeso nel tempo, luogo dove storia e natura si abbracciano idealmente, dove il visitatore viene sorpreso dai colori forti dell’ambiente e dagli scorci spettacolari di un borgo ricco di secoli d’esistenza.
A chi lo visita, è rigorosamente chiesto un passo lento e la voglia di scoprire l’anima incantata del paese.

La prima volta che arrivai qua fu per caso.
C’era una pioggia giallina di scirocco e in cielo nuvoloni lunghi come sgombri.
Ero partito per visitare Anversa degli Abruzzi, il paese tanto caro al “Vate”.
Fu qui, infatti, che Gabriele D’Annunzio volle ambientare la sua famosa tragedia “La fiaccola sotto il moggio”.

Mi fermai invece un’intera giornata nel “paese dei serpenti”.
Sì perché Cocullo è conosciuto con questo nome, ovunque vai.

Qui ogni primo giovedì di maggio, infatti, si svolgono i grandi riti folcloristici in onore di San Domenico, monaco benedettino, nato a Foligno e giunto, alle soglie del Mille in Abruzzo, dove fondò chiese e compì numerosi miracoli.

E poiché il santo taumaturgo, oltre ad essere protettore delle tempeste, lo è anche per febbri e malattie causate da morsi di animali selvaggi e velenosi, ecco che i cocullesi si sono inventati da molti anni, una manifestazione e una processione, ormai conosciuta nel mondo, quella dei “serpari” figure incredibili.

“È frate del vento. Poco parla. Ha branca di nibbio, vista lunga.
Piccolo segno gli basta…”.
Così Gabriele D’Annunzio li descriveva magistralmente alla sua maniera.

Gli abitanti sanno sempre se la festa sarà indimenticabile.
Dicono: “Li ciaralle sono ispirati…le serpi agitate, oggi sarà gran festa”.
I cocullesi li chiamano proprio così, “ciaralli” questa sorta d’incantatori di rettili, eredi di quelli che un tempo erano ritenuti immuni dai morsi e dal veleno dei serpenti.

Nell’antica Roma erano i “marsus”, maghi capaci di ordinare agli animali striscianti di stare quieti.

Il cerimoniale di questa festa inedita è, da sempre, condito di atti propiziatori e superstiziosi che affondano le radici in un passato lontano del tipo, suonare la campanella all’interno della chiesa e tirando la cordicella con la bocca, rito che metterebbe il fedele al sicuro dal mal di denti, o ancora terra benedetta portata a casa e sparsa nei campi, che salverebbe i raccolti dagli animali nocivi, pani benedetti distribuiti da ragazze in costume che avrebbero virtù antirabbiche.

Con l’arrivo della primavera, gli abitanti del paese si recano nei campi per catturare i serpenti che saranno gli accompagnatori della statua del santo durante la processione.
Debitamente svuotati del veleno e innocui, fanno da terribili collane a visitatori desiderosi del brivido.

In ogni edizione, migliaia di pellegrini devoti, curiosi e turisti accorrono in questo minuscolo borgo per assistere allo spettacolo unico della statua adornata da serpenti che si aggrovigliano, in stile horror gotico, intorno all’immagine sacra.

Il santo, tra le bisce che passeggiano intorno al collo e al petto, in processione con il paramento scuro da monaco, il pastorale, l’ondulato mantello di legno scolpito e verniciato, il gesto e lo sguardo sospeso, sembra raccogliere il bisogno di protezione del popolo devoto.

È il simbolo del dominio di San Domenico sugli animali.
L’enorme partecipazione popolare dà fortemente valore a una festa singolare che aiuta a non far morire uno dei tanti paesi a rischio di estinzione a causa dell’emigrazione.

Cocullo, simbolo della più atavica cultura abruzzese, custodisce un interessante Centro di Documentazione sulle Tradizioni popolari che merita sicuramente una visita.


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 Articolo pubblicato anche sul sito "Il mio borgo in un click"

Come arrivare a Cocullo

 da Roma: percorrere la A24 e la diramazione A25 per Pescara fino all'uscita di Cocullo e quindi la strada statale ss479 fino al borgo.
 
da Pescara: percorrere la A25 direzione Roma fino all'uscita di Cocullo e quindi la strada statale ss479 fino al borgo.
 da L'Aquila: percorrere la A24 direzione Roma e poi la diramazione A25 per Pescara fino all'uscita di Cocullo e quindi la strada statale ss479 fino al borgo.
 da Napoli: prendere la A1 direzione Roma fino a Sora, da qui la ss xxx per la Forca d' Acero, passando poi per Opi e da lì la ss83 fino a Villetta Barrea, quindi la ss479 per Passo Godi, Scanno, Anversa degli Abruzzi e Cocullo.
 da Bari: prendere la A22 direzione Pescara e da lì la A25 direzione Roma fino all'uscita Cocullo e quindi la strada statale ss479 fino al borgo



domenica 23 marzo 2014

Riscopriamo la fantastica cripta, gioiello camplese di sacralità cristiana.

Tra gli antichi gioielli di sacralità cristiana presenti nella provincia di Teramo, merita attenzione la cripta della bella cattedrale di Santa Maria in Platea, nel borgo d’arte di Campli, pochi chilometri dal capoluogo teramano.

Il paese ha molte bellezze da offrire al visitatore, fra cui la singolare Scala Santa e i suoi ventotto gradini in legno da salire in ginocchio e il cinquecentesco Palazzo farnese ma credo che questa cripta e la cattedrale, da sole, meritino il viaggio.

Con la parte sotterranea della chiesa, parliamo di un ambiente bellissimo di una grande armonia architettonica e di una spiritualità fuori del comune.

La cripta sotterranea altro non era che l’antica chiesa che nel Duecento fu affiancata e poi sovrastata da un altro tempio a unica navata che fu restaurato e ampliato tra il Quattrocento e la metà del Cinquecento.


Fu ancora più avanti negli anni che venne anche realizzato il presbiterio e l’abside attuale della cattedrale, oggi ubicata proprio sopra la cripta.

Dal momento in cui la chiesa si ampliò i camplesi, molto devoti all’Immacolata Concezione, dedicarono questo spazio sotterraneo al culto di Maria.

Nella piccola cappella attigua c’è proprio un dipinto che raffigura il popolo camplese, in adorazione, in ginocchio davanti alla Vergine portata in processione.
La scena accade anche oggi, ogni 8 dicembre festa dell’Immacolata, quando la statua è portata in ogni parte del paese, alle prime luci dell’alba.

I lavori di restauro che furono compiuti nei primi anni del duemila con estrema sapienza, hanno ridonato la bellezza antica agli archi e hanno ricreato l’ambiente originale che consta di cinque minuscole navate suddivise in quindici piccole campate.

Il recupero ha fatto riaffiorare dal passato, anche se in parte, i fantastici affreschi di scuola giottesca, realizzati nei primi anni del Trecento.

L’amico, esperto d’arte e di storia, Nicolino Farina di Campli, m’informò che i dipinti sarebbero attribuibili quasi certamente, a Nicola di Valle Castellana, straordinario artista dei monti della Laga, che pare fosse allievo del grande senese Lorenzetti.

Queste pitture sono interessanti, una in particolare raffigura il Cristo che risorge con la particolarità, rarissima, di avere ancora entrambi i piedi nella bara a significare il concreto passaggio per l’uomo, tra la morte del peccato e la vita della Redenzione.


Come arrivare a Campli

Da Nord e da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: direzione Ancona; da sud: direzione Pescara), uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Nicolò, svoltare sulla SP 17, attraversare Villa Falchini, Pagannoni Basso, svoltare poi sulla SP 262 per Campli.
Da Pescara
Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare in direzione dell'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Nicolò, svoltare sulla SP 17, attraversare Villa Falchini, Pagannoni Basso, prendere poi la SP 262 per Campli.
Da Chieti
Percorrere la SS 81, imboccare l'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Nicolò, svoltare sulla SP 17, attraversare Villa Falchini, Pagannoni Basso, prendere poi la SP 262 per Campli.

venerdì 21 marzo 2014

La solitudine della santa anacoreta!

 Ringrazio per i contributo fotografici i cari amici Massimiliano Fiorito e Alessandro de Ruvo!


L’eremitaggio di Santa Colomba è situato a mezza costa di un erta ripidissima del monte Infornace, nel complesso del Gran Sasso d’Italia, a cavallo di uno stretto schienale di montagna dal nome minaccioso, la “costa del Malepasso”.

E’ questo una sorta di sperone roccioso che divide il monte Brancastello dal Prena, la cosiddetta “mamma dell’acquedetto del Ruzzo da dove nasce l’acqua che arriva nelle nostre case.

Siamo a pochi tornanti dalla bella cittadina di Isola e qualche chilometro dal paese di Castelli con le sue famose ceramiche.

In questo luogo impervio si accede dopo una passeggiata gradevole di circa un ora per un sentiero facile nell’orientamento che si dipana in un bosco ceduo.
Secondo la tradizione, proprio in questo luogo nel XII secolo, la giovane Colomba, figlia dei Conti di Pagliara e sorella del futuro vescovo di Teramo Berardo, abbandonati gli agi della ricca famiglia si ritirò in preghiera e penitenza.

Fu lì che la morte la colse, amorevolmente assistita dal fratello.
Nel 1595 le sue spoglie furono traslate nella chiesa di Santa Lucia ma solo molti anni dopo, nel 1955 la statua raffigurante Santa Colomba, e le sacre spoglie, vennero trasferite nell'attuale cappella di Pretara.

Alcuni studiosi mettono comunque in dubbio l’appartenenza della santa alla nobile stirpe dei Pagliara e la sua fratellanza con San Berardo.
La giovane sarebbe stata sorella di Sant’Egidio e San Nicola.

Tutti però concordano nel definirla bella, simbolo di purezza e candore verginale, ritratta il più delle volte col fiore simbolo di pulizia interiore, il giglio.

Anche il nome Colomba sta a ricordare questo volatile candido, immagine dell’innocenza.


Forse fu proprio per questo desiderio di rimanere pura, che la giovane volle staccarsi prepotentemente dal mondo, per elevare la sua anima nella perfetta solitudine di questo magnifico posto.
Parliamo di un luogo dalla gran fama di mistero.
Sono numerose, infatti, le leggende legate all’ eremo che il primo di settembre si anima per una processione di pellegrini dediti al culto della santa bella e pura.

I vecchi della zona raccontano di tesori nascosti, superiori come ricchezza a quelli che sarebbero celati tra i Monti Gemelli e il Castel Manfrino.

Qualcuno ancora in vita, ad Isola, sembra abbia provato ad estrarre un forziere internato nella zona ad oriente della chiesetta.


Ma c’è chi giura che il malcapitato, quando fu sul punto di trovare qualcosa, d’improvviso sentì il badile cozzare contro resti di ossa umane e cranio compreso. Incredibilmente tali ossa, secondo il racconto, avrebbero cominciato a sbattere l’uno contro l’altra con gran frastuono, suscitando nello sventurato una tale orrida paura da fargli diventare di colpo tutti i capelli bianchi nonostante i suoi 35 anni. Inutile dire che qualche secondo dopo le sue gambe quasi toccavano la testa nella fuga.

Dentro l’eremo c’è un altare anonimo e lo stanzone è disadorno.
Eppure per chi conosce le storie incredibili di questo posto l’altare, in realtà, avrebbe un grande valore.

Il manufatto antico sarebbe miracoloso!
Sarebbe in grado di guarire coloro che v’introducono il capo attraverso un foro esterno.
Nel mettere il capo dentro questo buco, sarebbe possibile guarire da cefalgie, nevralgie, emicranie a grappoli e quant’altro.

Il noto scrittore Giovanni Pansa racconta tutto ciò nel suo stupendo “ Miti, leggende e superstizioni d’Abruzzo”.

Lungo la stradina in mezzo alla foresta che accompagna la lunga e faticosa ascesa al monte Prena e porta nel luogo dove la bella Colomba sembra passasse ore ed ore in contemplazione della natura e dei doni di Dio, alcuni giurano che sia possibile anche notare, distintamente, le impronte della mano e del pettine lasciate dalla giovane quando usava sciogliere i suoi lunghi e folti capelli.

Tornando all’altare miracoloso, è frequente in Abruzzo, dare a luoghi santi degli incredibili poteri taumaturgici.

Ogni anfratto, parete, pietra o nuda terra, viene utilizzato per strofinarsi col corpo e aspettare prodigiose guarigioni da ogni tipo di male.

E’ il caso a esempio, di San Domenico di Villalago vicino Barrea o di San Michele Arcangelo a Balsorano.

Secondo studiosi, tali pratiche divinatorie riporterebbero al concetto che la terra crea, distrugge, infine ricrea in un'altra dimensione.

L’eremo si mostra al visitatore provato dalla salita, già in lontananza su di una rupe a gradoni.

E’ proprio a lato di quella rupe che si trova un singolare affresco naturale a forma di pettine che si dice sia stato impresso proprio dal pettine lasciato per tanti anni incustodito dalla santa anacoreta, che lo usava per ravvivare la folta capigliatura.

Dietro la minuscola chiesetta di montagna, seminascosto dagli abeti, un masso di inaudite proporzioni porterebbe impressa la mano della fanciulla che ivi si poggiava per farsi forza nella salita all’erta china.

Naturalmente chi ha buone gambe si può cimentare nel continuare a salire verso il Cimone di Santa Colomba, raggiungibile risalendo il crinale alle spalle dell'eremo.
Siamo nel cuore della catena principale del Gran Sasso orientale.


Come arrivare ad Isola del Gran Sasso d'Italia:

Da Nord e da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: direzione Ancona; da sud: direzione Pescara), uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Gabriele/Colledara, prendere la SS 491 e proseguire in direzione Isola del Gran Sasso.
Da Roma
Prendere l'autostrada A 24 verso Teramo, uscire a San Gabriele/Colledara, seguire la direzione Montorio al Vomano, proseguire in direzione Isola del Gran Sasso percorrendo la SS 491.
Da Pescara
Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare sull'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Gabriele/Colledara, prendere la SS 491 e proseguire in direzione Isola del Gran Sasso.

giovedì 20 marzo 2014

Il Duomo di Teramo, baluardo di fede e arte!

Non tutti i teramani colgono pienamente le bellezze dell’assetto urbano che da Piazza Martiri della Libertà, a Teramo si estende intorno al Duomo.
La cattedrale che è in posizione baricentrica, rappresenta il fulcro delle principali vie cittadine.
Nel periodo imperiale di Roma la città aveva proprio qui il suo perimetro, tra piazza Martiri, via Torre Bruciata, la via del Cardo, oggi tra il Melatino e la chiesa di S. Antonio, del Baluardo e Noè Lucidi.

Il tragitto oggi che da Porta Reale attraversa il corso De Michetti e quello intitolato a Vincenzo Cerulli, grandi personaggi teramani, un tempo il Decumano da dove partiva l’arteria principale per Castrum Novum, l’attuale Giulianova, propone oggi al turista la vista della maestosità di questa cattedrale che ha il suo pezzo forte proprio nella facciata principale.

Costruito a “cento passi” dall’antica cattedrale, oggi S. Anna, sulle rovine di un tempio pagano dedicato a Giunone e Apollo, il Duomo vide la luce nel 1158.
Una struttura unica doveva legare il tempio con il grande complesso del teatro e anfiteatro, incorporati in quelle mura del cortile dove anni fa c’era un quotato Istituto di Scienze Religiose.

La prima costruzione fu realizzata utilizzando materiali delle abitazioni distrutte dai Normanni e pietre del teatro romano.

Era il 1078, i Normanni ci invasero alla caduta del Sacro Romano Impero e i barbari saccheggiavano ovunque.
Era proprio il tempo del vescovo Berardo da Pagliara che poi divenne il patrono della città.

Qualche anno dopo, nel 1152, Roberto di Loretello rase al suolo quasi tutto, compresa la chiesa madre di allora, Santa Maria Aprutiensis, attuale S.Anna. La città fu ricostruita a opera del vescovo Guido II.

Poi, correva il secolo XIV, periodo delle Signorie, il vescovo Nicolò degli Arcioni fece realizzare la facciata che, nel corso degli anni, si arricchì di una preziosa merlatura guelfa, simbolo inequivocabilmente del potere vescovile.

 Nel 1493 l’allora vescovo chiamò il Maestro Antonio da Lodi per il completamento del campanile che venne impreziosito da maioliche castellane.
Poco tempo dopo fu completata la grande campana aprutina fusa con maestria da Attone di Ruggero.

Dovremmo forse guardare con occhi diversi il nostro Duomo, soprattutto amare la nostra storia come identità e risorsa della città.
Far cadere lo sguardo ad esempio, sul portale, opera realizzata nel 1332 dall’insigne maestro romano Deodato di Cosma, appartenente al filone gotico abruzzese già presente ad Atri, Sulmona e Lanciano.

Se ci soffermassimo sui particolari scopriremmo gli stemmi della diocesi teramana, del vescovo Niccolò degli Arcioni, le sculture di Nicola da Guardiagrele, raffiguranti l’arcangelo Gabriele, l’Annunziata, il Redentore e il patrono San Berardo.

Spostandoci sul lato meridionale guarderemmo con attenzione la sporgenza semicircolare dell’abside della cappella dedicata al patrono, sotto la quale si trovano cippi e resti romani.

Tornando alla facciata principale e ammirando la scalinata, gli occhi non potrebbero non vedere gli austeri leoni che sorreggono le colonne sormontate da statue.
Il leone può essere, a ben ragione, ritenuto l’animale simbolo della città.

Sculture leonine si trovano a decorazione della fontana nella piazza dove si trova anche il palazzo comunale, a guardia del porticato dei Melatino, oggi sede Aci e del palazzo Savini.
Rappresentano la fierezza del popolo aprutino.

Vari vescovi si sono adoperati nei secoli per rendere monumentale il Duomo.
Il primo a essere ricordato non può non essere Guido II che fece erigere il monumento, poi Niccolò degli Arcioni che lo ampliò.
Le colonne interne, tutte diverse e il presbiterio notevolmente più in alto rispetto alla chiesa, denotano proprio le due strutture come erano secoli prima.

All’interno, ancora leoni, immancabili a guardia dell’ambone monumentale e della pregiata cattedra lignea, il cui trono episcopale con baldacchino sormontato dallo stemma dei vescovi aprutini conclude il perimetro della chiesa.

Si resta colpiti dal Paliotto argenteo custodito in teca sotto l’altare maggiore, opera del grande orafo Nicola da Guardiagrele.
Consta di 35 pannelli contenenti scene sacre della vita del Cristo.

A sinistra, imperdibile, la cappella di San Berardo con il Polittico, tavole lignee del ‘300 realizzate da Jacobello del Fiore, raffiguranti l’incoronazione della Vergine Maria.

Un altare barocco di pregevole fattura, custodisce l’urna con le reliquie del santo patrono.

Anche la sacrestia, che in tante chiese non ha valenza artistica, nel Duomo di Teramo riveste enorme importanza grazie anche a opere immortali di un polacco, pittore del ‘600 teramano, Sebastiano Majewski.

Correva l’anno 1622 o giù di lì quando il giovane polacco, che nel frattempo aveva firmato un ciclo pittorico con storie della vita della Madonna nel convento di Santa Maria delle Grazie a Ortona, venne chiamato a Teramo per il 500 esimo della morte di San Berardo, allorquando fu eretto un nuovo altare in onore del santo e a lui commissionarono sei tele che oggi lasciano stupefatti, chi in visita alla Basilica, si soffermi davanti all’altare in noce intagliato, in cui si ritraggono momenti della vita del patrono di Teramo.

In tarda età il grande pittore lasciò come regalo finale della sua incommensurabile arte, affreschi che ancora oggi ornano lo splendido chiostro dell’antico convento di Santa Maria di Propezzano nell’agro di Morro d’Oro, vero caposaldo del romanico aprutino, dove spicca per bellezza la scena della Visitazione dell’Angelo annunciante alla Vergine.

Uscendo colpisce di nuovo la vista il grande campanile di 50 metri con la sua parte terminale sormontata da un prisma ottagonale, realizzato da Antonio da Lodi, lo stesso che bissò il momento artistico, nella imperdibile Cattedrale di Atri

lunedì 10 marzo 2014

Il borgo dei motti ai piedi del Grande Sasso!

I resti del castello dei Conti di Pagliara, affacciati sulle scoscese forre che precipitano verso il borgo medievale di Isola del Gran Sasso, rivaleggiano in severità con la tozza corona di vette.

Gli occhi, meravigliati, salgono di quota verso splendide faggete.


Dopo una ventina di minuti di piacevole camminata, le pietre segnate dal tempo aprono agli occhi un luogo straordinario, arroccato su di uno sperone di roccia con vista mozzafiato sulla catena del gigante appenninico.
Si distinguono due torrioni piramidali, alcuni pezzi di mura della chiesina dedicata a Santa Maria.
Una singolare leggenda racconta di lunghi cunicoli sotterranei che collegherebbero il colle all’abitato di Isola, attraversando in profondità i dirupi circostanti.

Qui ovunque si può intraprendere corroboranti passeggiate.
Nella vicina Casale San Nicola, ad esempio, una bella mulattiera porta in circa 40 minuti al “pianoro dei frati” con una vista superba sul paretone del Corno Grande.
Qui, nel 1100, esisteva un insediamento monastico di oltre cinquanta religiosi.

Rimane solo una chiesina ristrutturata grazie all’intervento dell’Archeoclub.
Si aprono ovunque scenari di bellezza unica.
All’estremo, la grande parete levigata del monte Camicia si avvinghia alla biforcuta vetta della Forcella verso il Siella.
Il monte Prena dalla larga mole rigonfia si sussegue a semi cerchio col Brancastello e fino ai Due Corni, il Grande e il Piccolo e Cima Alta.

Il Montagnone si unisce in un abbraccio infinito al paese, con il largo pendio di Forca di Valle.

Può comunque apparire singolare che una località a soli 419 metri sul livello del mare ricordi il nome della vetta più alta degli Appennini ma questo accade perché il Gran Sasso incombe ovunque sull’antico borgo.
L’abitato è bello e raccolto con le sue viuzze, le piazzette monumentali con attorno alle mura, i due corsi d’acqua del Ruzzo e del Mavone a creare un ambiente idilliaco.
Una sorta di isola, appunto, come la tradizione vuole fosse definita nell’800, dallo scrittore Edward Lear che conobbe il luogo in uno dei viaggi immortalati nei suoi libri.

Le campagne a fondo valle donano colori vividi tra prati falciati e terrazzamenti sorretti da caratteristici muretti a secco, testimonianza di millenaria sapienza contadina.

C’è però una singolarità che caratterizza fortemente questo paesino del XII secolo: le straordinarie quanto singolari iscrizioni che adornano i piccoli portoni e le finestre antiche, piccoli motti secolari realizzati in latino, molti dei quali purtroppo sono andati irrimediabilmente perduti.

Sono antiche e sagge sentenze di tipo popolare che presuppone la conoscenza di questa lingua ormai scomparsa: “Amico fideli nulla esta comparatio”, nulla è più importante di un amico fedele;
“Amicum esse licet sed usque ad aras, oppure “Virtutis laus in actionibus consistit”.

Forse gli abitanti se dovessero scegliere uno di questi detti opterebbero per il “melius mori quam foedari”, meglio morire che essere disonorati.
Questo suggerisce la storia secolare del luogo.

Molte di queste scritte furono portate dal monastero di Fano A Corno, quando un terremoto, nei primi anni del settecento, rimaneggiò profondamente la struttura, abbandonata subito dopo dai camaldolesi.

Isola, antico paese della Valle Siciliana ha sempre vissuto sotto dominazioni prepotenti e terribili, dalla crudele famiglia dei Pagliara agli Orsini con il primogenito Napoleone, fino a Camillo Pardo che abdicò in favore degli Alarcon Mendoza ai tempi della dominazione spagnola nella valle.
Era il 1526 quando l’imperatore Carlo V, durante la ristrutturazione del Regno di Napoli, assegnò la valle allo spagnolo De Alarcon, una sorta di premio per aver combattuto valorosamente nelle battaglie di Parma e Piacenza.

Allora il paese di Isola era ben diverso.
Si accedeva al suo ingresso attraverso delle porte che delimitavano il castello, le più importanti delle quali erano il “Torrione” e la “Cannavina”.

Questa comunque è terra di santi, amici miei: Gabriele dell’Addolorata con il santuario tra i più visitati d’Italia, è a pochi metri; la dolce Colomba, sorella di San Berardo ha vissuto nelle foreste che circondano l’abitato; Frà Nicola visse qui un eremitaggio di anni, amato da tutti i paesani in una grotta oggi chiamata Frattagrande; infine diversi religiosi hanno vissuto per anni in modo ascetico in grotte di fortuna sotto la montagna.

Fate un esercizio utile per il fisico e per la mente: girate senza meta nel paese godendo dei panorami e dell’antichità che trasuda dalle stradine interrotte qua e là da piazzette silenti.
Un vero labirinto di vicoli intersecanti tra loro, coronati da qualche vetusto palazzotto gentilizio, chiesine in pietra a conservare segni di un suggestivo passato.
Scoprirete anche qualche finestra finemente disegnata con cornici, bifore, stemmi, opere d’arte dal
continuo sovrapporsi di stili che richiamano tanti piccoli abitati intorno.

Obbligo è visitare la chiesa madre dedicata a San Massimo, con il bel portale di Matteo da Napoli, del 1420.

All’interno, la navata di sinistra, offre il bel colpo d’occhio della cappella di San Iacopo, col piccolo battistero rinascimentale in pietra bianca, ornato di fregi animaleschi e testoline di putti adoranti.
Nella sacrestia un inaspettato gioiello, un ostensorio quattrocentesco impreziosito da un pannello in maiolica di Castelli raffigurante la Madonna con Bimbo fra San Berardo e Santa Colomba, che dicono sia stato rinvenuto nell’eremo della donna, sorella del patrono di Teramo, che si visita camminando nei boschi circostanti.

Prima di andar via, mi reco davanti alla graziosa Cona di San Sebastiano, fuori le mura.

La trovo di nuovo chiusa e le chiavi non reperibili.
Anche questa volta non sono riuscito a fotografare gli affreschi del grande Andrea De Litio, uomo del Rinascimento!


Arrivare a Isola:

Itinerario più veloce e meno interessante:
A24 Teramo Roma, uscita San Gabriele Isola. Poi due chilometri per il paese.
Itinerario piacevole e ricco di luoghi ameni e interessanti:
S.S.150 Roseto- Montorio al Vomano. Oltrepassata Val Vomano e Zampitti Salara, verso Montorio, svoltare al bivio a sinistra e seguire indicazioni Isola, Santuario San Gabriele.
Dal mare di Roseto sono 48 chilometri, da Giulianova 53, dalle Marche di Porto d’Ascoli circa 70 chilometri.

Per mangiare ci sono molti locali dignitosi a buon prezzo e ottima qualità sia in paese, che nei piccoli borghi intorno come a San Pietro, circa 800 metri sul livello del mare.

venerdì 7 marzo 2014

Teramo: Una città, un territorio ultra millenario!

Parlando di Teramo e del suo territorio, c’è bisogno di riflettere sulle sue origini e sul suo essere una città vecchia di diversi millenni.
Se dovessi presentare la mia città a ipotetici visitatori rimarcherei comunque il fatto che la sua nascita risale a 350 mila anni fa, nella cosiddetta età paleolitica o della pietra grezza.

Abbiamo reperti che lo testimoniano dal centro città e fino alle montagne gemelle, nel cuneo delle gole del Salinello con le grotte di S. Angelo e Salomone.
Anche la successiva età del neolitico o della pietra levigata è ben rappresentata nella Val Vibrata, attraverso il sito archeologico di Ripoli dove  è stato scoperto quello che era un piccolo villaggio di agricoltori con una necropoli interessante.
Per non parlare dell’età del bronzo e del ferro di cui raccontano gli scavi effettuati alle porte di Teramo e a Tortoreto Alto.

Come dimenticare poi la grande necropoli di Campovalano, presso Campli con le sue duemila e passa tombe e i corredi funerari, le armi, le suppellettili riaffiorata dopo millenni?

Dalle pietre disseminate nella nostra provincia trasuda l’intera civiltà dell’uomo.

Tutti raccontano di un luogo che è stato creato dai Romani nel 790 e, ancor prima, dai popoli italici, segnatamente i Pretuzi così che l’antica Interamnia tra i due fiumi, è anche chiamata Petrut.
Pochi sottolineano il passaggio di quasi tutti gli Italici, gli agricoltori Sabini e Siculi, dei Fenici e ancor più, degli Etruschi di cui una piccola goccia di Dna passa nelle origini cittadine di un abitato dove la storia dell’umanità è forse un po’ snobbata.

Gli antichi Tirreni che non provenivano affatto dall’Anatolia occidentale come affermava Erodoto, e come molti storici credono, ma vantavano origini italiche, nel III secolo o giù di lì, pare si fossero messi in cammino da Tarquinia.

Scoprirono nel territorio teramano un luogo ameno e fertile poco lontano da un mare, l’Adriatico, certamente più a misura d’uomo e percorribile, insomma una terra di vacanza in cui poter trascorrere magari tranquilli attimi di riposo.
Gli Etruschi erano grandi lavoratori, agricoltori e allevatori e certamente hanno trovato nella nostra terra un habitat ideale anche per commerci tra oriente e occidente.

Archeologi e storici, d’altronde, studiano da decenni l’origine di questo popolo e il mistero infinito del loro tramonto affiancando oggi anche la scienza della genetica che permette di leggere nei dettagli il genoma degli uomini di oggi come di quelli antichi.
Certamente gli Etruschi, contrariamente ai Fenici hanno lasciato poco o niente di eredità dissoltasi forse con le migrazioni degli ultimi cinque secoli ma la loro presenza a Teramo non si può definire leggenda.

Prossimamente parleremo della Teramo medievale!