martedì 16 aprile 2013

Castelli, la terra laboriosa!

La donna gira la chiave nella toppa.

La porta si apre e una lama di luce polverosa irrompe nella piccola chiesa romita.

E’ come se tutti i colori di un mondo remoto irrompessero dal soffitto maiolicato per rimbalzare nei nostri occhi.

L’anziana abitante rimane sull’uscio a controllare in un atteggiamento protettivo, ma nei suoi occhi brilla lo stesso orgoglio di una padrona di casa che mostri le meraviglie del proprio salotto.

Ecco la “cappella Sistina” d’Abruzzo, dapprima minuscola “cona” collocata sul sentiero a uso e consumo delle preghiere di carbonai, contadini, pastori, oggi chiesa campestre che al suo interno contiene un soffitto maiolicato, realizzato dagli artigiani in un delirio artistico- devozionale collettivo, con i suoi 780 mattoni votivi del 1600 che rendono il tempio, dedicato a San Donato, un monumento nazionale e un’enclave artistica di gran pregio.

Tra i vari soggetti riprodotti sui mattoni votivi del soffitto, santi, animali, personaggi, scene di caccia, motivi geometrici e floreali, preghiere e motti, spicca un omaggio all’abate del tempo che soprassedeva sull’imponente abbazia di San Salvatore.

Il complesso monastico, sorto intorno al X secolo, accoglieva religiosi di osservanza cassinese e rivestì per molto tempo notevole importanza nella Valle Siciliana.

I resti di un pulpito in pietra con fregi e una statua lignea della Madonna Incoronata con bimbo in grembo, rara opera del XII secolo, sono oggi custoditi nella chiesa madre di San Giovanni Battista.

Tornando in paese, attraverso le viuzze castellane che durano si e no cento passi, inerpicandomi tra labirintici tracciati medievali ricchi di botteghe artigiane dove gli artisti della terra, marito e moglie, si alternano per proporre i loro manufatti.

Case attaccate l’una all’altra, vicoli dove ogni portale, alcuni in bugnato rinascimentale, si affaccia sull’interno di una bottega di ceramica.

Anche i giapponesi sono venuti fin qui per vedere all'opera i numerosi laboratori e per concludere affari.


Castelli sembra appeso alle guglie del Monte Camicia, quasi agonizzante tra le profonde incisioni dell’orrido “Eiger” d’Abruzzo che precipita in una verticale terribile, nel famoso “fondo della salsa”.

Il cielo celeste come i colori pastello delle matite usate dai bambini, più in là il monte Prena e l’Infornace, il Picco del Diavolo, masse grigie di rudi pietre, a chiudere l’orizzonte tra i dirupi e le fresche acque del torrente Leomogna.
Montagne severe per un paese fiero della propria identità.

Il borgo della ceramica non ha mai perso, nei secoli, la sua anima, - mi dice il sindaco - anche adesso che la globalizzazione preme e i cinesi sono pronti a copiare tutto”.

Già, i simpatici musetti gialli devono arrendersi!
Le terrecotte di Castelli sono uniche e irriproducibili.

Mai questo paese, nella sua storia millenaria, ha voluto essere semplicemente un borgo montano appollaiato sul dirupo a rodersi di fame e basta.

Quando, ai primi del Novecento, la grande fuga verso il sogno dell'America e, nel dopoguerra verso Francia e Belgio, ha spopolato i paesi del Gran Sasso e i centri medievali si sono svuotati, l'erba e l'ortica hanno invaso le case all'interno delle cinte murarie e tutti i segni dell'antica agiatezza dei signori della lana, i portali, le pietre scolpite, sono stati velati dal muschio.

Castelli ha invece seguito il suo destino.

Il contesto naturalistico è diventato un mirabile esempio di sfruttamento nobile del territorio unendo fabbriche, cultura e turismo.

Questo è da sempre il paese delle ceramiche” mi dice con orgoglio l’artista Maurizio Carbone che propone nel centro del paese i suoi manufatti.

Racconta che i castellani hanno sfruttato a dovere le vene di argilla, gli immensi boschi di faggio per i fuochi, le acque limpide e abbondanti, la suggestione ispiratrice di un paesaggio spettacolare, avviando un processo culturale collettivo che dagli Etruschi ai Romani, dal Medioevo al Rinascimento fino ai giorni nostri, ha prodotto tesori d’arte che si fatica a censire, molti ancora nascosti nelle chiese ma anche nelle case e nelle fatiscenti botteghe di famiglia, che occupano un fondaco, una parte di abitazione delle minuscole borgate del paese.

Custode del tempo è l’Istituto Statale d’Arte Grue che raccoglie l’identità di questo popolo.
Una scuola che è sintesi propositiva e testimoniale di un’attività che coinvolge l’intero paese.

Un istituto che intesse contatti e rapporti col mondo della ceramica d’arte internazionale, che nel suo interno presenta una raccolta di Ceramica d’Arte contemporanea, un Presepe monumentale di notevole suggestione e testimonianze barocche delle inarrivabili maioliche dei Grue, Gentile, Cappelletti.

È di sera che Castelli oltre che di arte parla di poesia, quando i monti intorno si colorano di un caldo color ocra chiaro e avverti la sensazione di essere in un posto speciale, ultimo baluardo romantico di un’epoca che non c’è più, soffocata da uniformità senza gusto e da impietose colate di cemento.

Un antico emporio d’Oriente dove, secoli fa, si barattavano manufatti ceramici per le ricche dimore di signori venuti, dai “quattro angoli della terra”.

Il signor Carbone allunga il braccio e col dito m’indica, in lontananza, i ruderi del castello, ancora visibili nella collina boscosa davanti al borgo.

Il maniero fu donato da Carlo V agli Alarcon Mendoza distintisi in battaglia per la difesa dell’antica città di presidio e del feudo politico di Tossicia nel cuore della Valle Siciliana”.

Un grande tesoro spagnolo sarebbe custodito nelle viscere della montagna; autentiche riserve d’oro da investire in guerre, nascoste da secoli in tunnel segreti sotto il borgo antico.
Nessuno è riuscito a provare l’esistenza di questi anfratti dorati ma gli anziani castellani giurano che questo lungo cunicolo conduceva addirittura ai Prati di Tivo.

Prima di concludere la mia passeggiata a Castelli, entro nella parrocchiale ad ammirare la splendida pala d’altare maiolicata di Francesco Grue dedicata alla Madonna di Loreto e ai Santi.

Eccellente ceramista laureato in teologia, rampollo di un’illustre famiglia di maiolicari quando, nei primi del settecento, ci fu una vera e propria sollevazione di popolo contro il feudatario locale, don Ferrante Alarcòn y Mendoza che, a corto di liquidi aveva pensato bene di imporre una gabella sulle ceramiche, Francesco Antonio Grue capitanò la rivolta seguito da tutta la popolazione.

Dopo alterne vicende, i rivoltosi raggiunsero un accordo con lo spagnolo, ma molti ribelli finirono in prigione.

Il Grue fu tradotto nelle segrete di Napoli.
Da carcerato ne uscì direttore responsabile del prestigioso Museo di Capodimonte.
Molti si dicono convinti che il grande artista fu benvoluto da S. Antonio Abate, da sempre, oltre agli animali, protettore dei ceramisti!

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