martedì 25 giugno 2013

Sui silenziosi sentieri del piccolo Tibet d'Abruzzo

“La roccia è una fasciatura, la garza che medica dallo stress della vita!” (Mauro Corona)

Volete assistere ad uno spettacolo della natura?

Trovatevi all’’alba di un nuovo giorno d’estate nella piana di Campo Imperatore, il piccolo Tibet d’Abruzzo.

Tutte le cose risulteranno come nuove, ne scorgerete la bellezza in ogni anfratto esplorato dai vostri occhi.

La luce d’inizio giorno è indescrivibile, un diadema di colori.
Pare di essere avvolti da tulle che velano tutto di emozione.
Le montagne che cingono il paesaggio lunare della piana, appaiono come pacifici dinosauri incredibilmente immobili.

Il silenzio tra i meandri brulli che, alla vista, si insinuano per chilometri, fa pensare a Dio che quando opera, lo fa sommessamente senza sbandierare il suo arrivo.

Secondo una tenerissima leggenda tibetana, le montagne sarebbero frammenti di stelle cadute dal cielo e le pianure enormi, si formerebbero dai granelli immacolati della loro scia.

Un giorno, dicono i saggi, tutto potrebbe tornare da dov’è venuto.

Occorrerebbe forse fissare le pendici con i chiodi per impedire che volino via.

Guardare a questo infinito paesaggio è come entrare nel primordiale.
Ti obbliga a ripensare alla tua esistenza.
Quando si ha bisogno di sognare ad occhi aperti, basta arrivare qui in questa sorta di capolinea della geografia emozionale.

Puoi vederci grandi deserti asiatici, sconfinate praterie californiane o semplicemente un pianoro di aridi pascoli, ma credetemi, qui non si giunge per caso.
Si è chiamati per essere come davanti a sé stessi.

È come aprire una via tra cielo e terra.
Potrete immaginare di avere le stesse visioni di Francesco d’Assisi che pregava solitario nel film “Fratello Sole, sorella Luna” o “Trinità” il buon Terence Hill, cowboy dal cappello calato sulla faccia, trascinato con il suo povero giaciglio di legno dal fidato cavallo.

Campo Imperatore è un enorme set cinematografico in cui passeggiano il pastore Serafino, impersonato da Celentano, il gruppo di monaci del “Nome della rosa”, pronti a combattere il Maligno.

Pare quasi di vedere anche l’aliante in panne che sulla spianata, plana tra il gruppo di amici che festeggia con il noto amaro, il lieto fine di una brutta avventura e la piccola vettura contornata da migliaia di pecore.
Si cammina nel bel mezzo di una vera leggenda della cinematografia internazionale.
E non solo.

Secondo un amico letterato, Gabriele D’Annunzio guardando questa distesa brulla, ebbe l’ispirazione per scrivere la sceneggiatura di “Cabiria”, niente di meno che il primo kolossal del cinema muto, il cui successo nel 1914, fu avvenimento mondiale.

Bella la storia della piccola donna che durante l’ultima guerra punica nel terzo secolo a.C., venne rapita dai Fenici e venduta come schiava ai Cartaginesi.
Cabiria fu scelta dal sacerdote Kathalo, per essere sacrificata al dio Moloch, ma salvata dal romano Fulvio e dal suo liberto Maciste, poi immortalato, insieme a Sansone, come uomo più forte del mondo.

Sono alcune delle immagini fantastiche legate a questa immensa landa deserta dalla struggente bellezza dei declivi, dai dirupi su cui si stende il verde dei pascoli e l’azzurro del cielo.

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