Il sole è appena nato ma già l’angusta via risuona del martello sulla pressa del mastro ciabattino.
Sulla vetrata del piccolo laboratorio, una bottega umida colma di calzature dove le scarpe da consunte riescono quasi nuove, c’è l’effige di San Crispino il patrono dei calzolai.
Un santo che aveva percorso così tanta strada per annunciare il Cristo, da morire quasi scalzo.
Rocco è l’ultimo di questi aggiusta scarpe che trinciano cuoio come nel secolo scorso.
E’ la vecchia guardia che sta scomparendo sotto i colpi impietosi del tempo.
Tira su rumorosamente col naso, ci passa sotto il dorso della mano per asciugare le gocce.
Si aggiusta, quasi si vergognasse di esser preso per trasandato, il suo grembiale nero, odoroso di colla e cera d’api, allarga le braccia e dice:
“E che vuoi che ti dica? La gente oggi, la calzatura che ha fame e apre la bocca, non l’aggiusta più. Nel negozio se la compra nuova a 20 euro! Certo, non scricchiolano come quelle di costoso artigianato. Nelle scarpe di oggi c è solo il collante”.
Pensare che a Tolentino nelle Marche, non così lontano, un tempo c’era l’università per apprendere l’arte del conciare le pelli, montare tomaie e preparare calzature a mano e oggi non c’è quasi più chi ripara i tacchi.
Mi guardo intorno e osservo gli utensili abbruniti dal tempo: raspe, spazzole, martelli.
“Ho provato a portar su un ragazzino, a insegnargli il mestiere. Gli ho detto, giovanotto se sbagli a piantar chiodi sulla suola, poi l’orlo viene storto e la tomaia non regge. E lui sapete che ha risposto? Vecchio mio, questo mestiere è per chi vuole morire di fame e non per me. E non l’ho visto più”.
Come dargli torto?
Ogni scarpa riparata rende si e no cinque euro e in Italia, nell’ultimo censimento sugli artigiani calzolai, gli esemplari in estinzione sono rimasti tremila circa.
Non più di cinque anni fa erano oltre 4500!
L’anziano artigiano, originario della valle dell’Aventino, conosce tante storie che è un piacere ascoltarlo.
Racconta di Alanno, borgo appeso su di una collina sopra la valle del fiume Pescara, luogo un tempo ricco di ville romane, battuto spesso dalla furia del vento proveniente dalle gole di Popoli attraverso Casauria.
Nel paese si venerava San Clemente cui è dedicata la bella abbazia vicina.
La statua, opera del ‘400 della bottega abruzzese di Guardiagrele, pare si voltasse ogni qualvolta era in arrivo una tempesta di vento, riuscendo a placarla con lo sguardo.
Il vecchio si è accorto dal mio sorriso sarcastico che non credo a questo tipo di devozione e rincara la dose.
Mi parla del Santissimo Crocefisso di Taranta Peligna che un contadino, nell’ottocento, trovò sotto terra mentre arava il suo campo.
Gesù, nella croce di legno, appare nello spasimo dell’agonia e non ancora morto, bocca semi aperta e respiro affannoso.
Il Cristo pare abbia protetto per molti anni le famiglie locali dalle disgrazie e calamità e qualcuno è andato sotto terra con la convinzione che il Santissimo sia anche sceso da quella croce per svolgere meglio il suo compito.
Il mio interlocutore crede infinitamente nei poteri taumaturgici della religione.
Mentre vado via, mi ammonisce sibillino:
“Guarda attentamente il Male e il Bene nell’abbazia, ora che vai a visitarla. Sappi che ancora oggi combattono furiosamente e non sempre a Manoppello trionfa il bene …”.
Santa Maria d’Arabona è trascurata dai grandi circuiti turistici- religiosi.
Eppure la badia è uno dei più importanti esempi tra le grandi chiese costruite dai Cistercensi, quando giunsero in Abruzzo alla fine del XII secolo, a quaranta anni circa dalla fondazione dei primi monasteri nel Regno di Sicilia.
Qui sono passate molte etnie d’oriente: albanesi, slavi, greci, arabi.
La situazione del monachesimo benedettino mostrava, allora, una fortissima presenza di patrimoni appartenenti a grandi insediamenti fuori regione, come Montecassino, S. Vincenzo al Volturno e S. Maria di Farfa, e una serie di siti autonomi.
Il principale di questi era quello di S. Clemente a Casauria.
Ma, credetemi, ce n’erano tantissimi: San Salvatore a Majella, San Liberatore, San Martino della Valle.
Tutti posti che rendevano bene la quotidianità dei monaci, ritmata dalla preghiera, dalla liturgia, dalla fraternità sobria, dalle giornate semplici fatte di umile lavoro e vicinanza spirituale alla popolazione dei villaggi intorno.
I monaci erano i rami, la gente gli uccelli che vi si posavano.
Nel 1191 era stata edificata Santa Maria di Casanova, nel 1209 furono innalzate proprio le mura di Arabona, diretta derivazione dell’opulenta abbazia di Casamari, raggiungibile attraverso l’autostrada Frosinone Sora.
Di questo importante esempio di architettura gotica cistercense, il complesso pescarese propone in parte la pianta.
Le stesse maestranze realizzarono poi la costruzione del piccolo monastero di Santo Spirito, a picco d’aquila sul paese di Ocre, oggi convento francescano.
Il nome dato alla badia di Manoppello scalo, che a quel tempo servì come tessuto connettivo religioso e sociale delle campagne circostanti, sembra fosse collegato al culto italico della dea Bona.
L’abbazia è rimasta incompiuta e in tempi recenti è stata realizzata una poco attraente parete in mattoni.
Quello che può motivare una visita sono i due elementi in pietra bianca, tabernacolo e cero pasquale che racchiudono in sé la storia della salvezza dell’uomo scolpita con incredibile maestria da un artista a me sconosciuto, beata ignoranza.
Il tabernacolo, retto da due esili colonnine, ricorda l’importanza della sapienza cui l’uomo deve tendere, custodendo gelosamente libri sacri e oggetti di culto a Dio.
Il candelabro ha invece in sé una moltitudine di significati allegorici.
Alla base si trovano quattro animali, tre dei quali ancora visibili.
I due cani e i due leoni rappresentano il peccato.
Il male, tra menzogna ed eresia, aggredisce l’uomo allontanandolo dalla salvezza.
Il cane si morde rabbiosamente una zampa a significare che il peccato lacera se stesso senza posa.
L’altro animale, con la testa all’indietro, simboleggia il peccato verso Dio che svuota la vita di ogni significato.
Le deformità delle figure animalesche ammoniscono sul deturpamento che il peccato opera in noi.
Nel capitello si riprende il tema della vite e dei tralci attaccati a essa.
Foglie e grappoli d’uva avvolgono a spirale il fusto della colonna che simboleggia la figura del Cristo cui il tralcio, cioè il discepolo deve rimanere ancorato per avere la vita eterna.
Chi andrà a vedere questa meraviglia, troverà nella parte culminante del cero, dodici piccole colonne a simboleggiare gli apostoli e la chiesa con la propria vocazione e missione.
Tra la base del candelabro e la parte alta, l’autore ha inserito una colonna centrale assolutamente nuda, liscia, una barriera invalicabile fra il cristiano nella grazia e il peccato originale.
Per raggiungere Santa Maria d'Arabona, ai piedi del versante settentrionale della Majella, percorrere l'autostrada A 25 direzione Pescara, uscita casello Alanno- Scafa. Da Pescara con la S.S. 5 Tiburtina Valeria .
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