Tratto dal libro "Silenzi di Pietra" con le fantastiche foto scattate in giro per la Laga dall'amico Alessandro de Ruvo, fotografo naturalista e componente del C.A.I. di Teramo.
Ho fatto una scoperta, scriveva Carlo Carretto autore di saggi religiosi, sulla strada del vivere le cose; la scoperta consiste nell’entrare nel gioco della creazione, come nella più semplice e meravigliosa strada per incontrare il Creatore.
Verde di boschi e fresca di acque scroscianti, queste montagne appartate, a lungo ignorate da escursionisti e naturalisti, serbano stupende sorprese sia nel versante amatriciano, che in quello teramano.
E’ impossibile raccontare le emozioni in questo orizzonte indefinito tra realtà e fantasia, dove occhi e pensieri si confondono e riescono a percepire sfumature altrimenti invisibili.
Qui nel bosco bisogna lasciare tutto, dal cellulare all’ipod, elettrodomestici, letto o cose del genere.
Bisogna vivere nella gioia di raccogliere legna e vedere la fiamma viva tra due sassi semplici.
Mi sento felice come un bambino quando posso vedere getti d’acqua inebrianti: da questo versante laziale, l’Organza, le Barche, il salto di Cima Lepri, dall’altra parte lo scrosciare dell’acqua della Morricana, tra gradoni rocciosi di arenaria, nel fiabesco contorno del bosco della Martese.
La cascata delle Barche, raggiunta faticosamente dalla località Capricchia, apre il cuore per la sua bellezza selvaggia.
L’ultimo salto di questo fosso chiamato della Solagna, prima di tuffarsi allegramente nell’imbuto di Selva Grande, cade a strapiombo per quaranta metri e in primavera si propone come una bella gita familiare.
In località Sacro Cuore, antico convento di Capricchia, piccolo presepe di case del reatino, parte un interminabile saliscendi faticoso in mezzo ad una gola stretta dove lo sguardo non riesce mai ad avere l’agio della distanza. In lontananza, lo scrosciare delle acque è musica per le mie orecchie.
Sotto i piedi, uno smisurato tappeto di foglie morte, accompagnano i passi con la loro musica fatta di cric e di croc.
I faggi sembrano formare una volta fitta e compatta sopra la testa.
Qua e là mostrano la loro cima frondosa, austeri abeti bianchi.
Sono piccoli ma, nell’altro versante, quello della località turistica teramana del “Ceppo”, gli alberi raggiungono nella foresta della Martese, la ragguardevole altezza di trenta metri.
E poi cerri, aceri, carpini, frassini, olmi e rari tassi con le loro deliziose bacche rosse.
Ricordo che alcuni ragazzi in gita, anni prima, mentre li accompagnavamo noi del CAI di Teramo, stavano per farne una scorpacciata, senza minimamente immaginare quanto fossero tossici.
D’inverno, quando il freddo blocca gli scheletriti alberi della foresta in una morsa di gelo, le sagome alte e slanciate degli abeti bianchi svettano solitarie.
Questi alberi amano crescere in boschi cedui, insediandosi in selve piene di cerri o, impenetrabili faggete, slanciandosi diritti verso il cielo e superando in altezza gli altri elementi della foresta.
Appaiono inconfondibili nel loro colore verde scuro intenso, unica nota cromatica vitale nella monotona e grigia tonalità di una foresta dormiente.
Ma, nelle altre stagioni, questi colossi sono signori incontrastati della bellezza del bosco.
Lo stupendo albero è considerato da secoli, il simbolo dell’immortalità.
E’ il vigore della vita che supera e sconfigge la morte dell’inverno sui Monti della Laga.
I più bei esemplari si trovano, oltre che nella foresta della Martese, anche a ridosso di Cortino, lungo la valle della Corte e nella gola del fiume Vomano nella provincia teramana.
L’unica abetina nel Gran Sasso è nel territorio di Tossicia, in quella che era anticamente la Riserva di caccia dei feudatari nella vallata.
A dire il vero, un ciuffo di questi alberi fu preservato per molti anni anche a Piano Maggiore, nel cuore dei monti Gemelli, Furono i frati del convento di San Sisto, su di un colle vicino soprastante il piccolo bacino lacustre del lago di Sbraccia a piantare questi patriarchi dal tronco dritto.
Oggi in quel luogo non ne esistono più!
Sono scomparsi all’inizio del 19esimo secolo.
E pensare che anticamente gli abeti in particolare godevano di rispetto ferreo e cure amorevoli.
Alcuni statuti comunali prevedevano forti sanzioni e anche l’arresto per chi deturpasse questi giganti della natura.
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