Una delle più classiche escursioni da fare a inizio estate è l’attraversamento delle gole del Salinello, località Ripe di Civitella del Tronto fino ai ruderi dell’antico castello del re Manfredi nella piazza d’armi, delimitata da cinque mozziconi di colonne di pietra che, al tramonto, paiono sinistri gendarmi ciondolanti.
È bellissimo guardare in fondo al cuneo, che si stringe tra i resti della rocca e le gole sottostanti, l “Hadriaticum Mare” già annotato nelle prime carte geografiche, sulla sesta Tabula di Tolomeo e menzionato da Eratostene.
Qui passavano le vie del sale, del grano, dell’olio, del vino e Dio solo sa quanti altri commerci preziosi di spezie e seta, ambra e oro.
Nelle boscose viscere di uno degli scenari più insoliti della dorsale appenninica, si cammina in mezzo a due vertiginose pareti, alte svariati metri, circondati da una straordinaria natura.
Tra gli angusti spazi che sembrano stringere fino a soffocarti, si aprono spiazzi erbosi tra alberi che lasciano a terra i loro semi, felci ai bordi del tumultuoso corso d’acqua, biancospini, ginestre e cicorie di montagna.
Questo luogo attrae irrimediabilmente con storie di maghi, mostri, negromanti e fattucchiere.
Gli eremi che costellano le pareti, le antiche e paurose leggende dettate da anacoreti non possono lasciare indifferenti.
È un contesto di culto della terra e dell’acqua, un percorso sacro che lascia strabiliati.
Chi vi si addentra si sente piccolo di fronte all’immensità.
Non è così per tutti, purtroppo.
Nella grotta di S. Angelo, dedicata al culto di San Michele, ho trovato, ultimamente, curiosi segni per terra e qualche ossa di animale sistemate in strane posizioni.
Diversi amici naturalisti, innamorati di questi luoghi, sostengono che qui si perpetrano riti satanici da molti anni.
Qualcuno vede sempre strani movimenti di gente dalla testa rapata.
In paese a Ripe di Civitella del Tronto, sia il parroco sia i politici hanno sempre minimizzato questa eventualità.
Salendo faticosamente in doppia corda nell’antro di Santa Maria a Scalena, forse il buco più denso di misticismo, sono rimasti basito nel vedere che qualche idiota è arrivato in questa posizione disagevole, solo per imbrattare i muri con bombolette spray, di svastiche, croci uncinate e bestemmie.
Dico, come si fa?
Si dovrebbe provare un profondo rispetto per questo luogo.
Non credo che, come dice la leggenda, qui sia passato San Francesco e abbia combattuto contro il diavolo alla ricerca di anime.
Né tantomeno penso sia vero che ci siano tesori abbandonati sorvegliati da giganti tenebrosi, ma l’aria che si respira sembra intensa di anime.
Questa sensazione si vive per tutto il percorso che dalla cascata de “lu Caccame” in un intreccio di felci, minuscoli bonsai naturali, muschi e rovi, porta fino alle pietre di Castel Manfrino.
Per anni gente ha scavato nel miraggio di trovare preziosi ma nessuno ha estratto niente a parte cocci antichi e ossa umane.
Qui sono i sogni a brillare come oro.
Di resti umani ce n’erano e non tutti pare fossero molto antichi.
Secondo alcuni vecchi interpellati, un giorno un tizio si è imbattuto in un cranio con un po’ di pelle ancora attaccata come in macelleria. In paese non danno credito a questa storia.
L’uomo, che secondo alcuni suoi conoscenti non distinguerebbe una testa umana da una di volpe, spaventato avrebbe preso la scatola cranica, buttandola nel precipizio delle gole.
La verità forse è che in mancanza di tesori, si cerca di trovare un po’ del marcio che è dentro di noi per buttarlo via.
sabato 29 giugno 2013
Da Frattoli alla sorgente Pane e Cacio di Sella Laga: a picco sul lago di Campotosto
Dislivello 650 metri; tempo di salita 2 ore circa: discesa 1 ora circa; itinerario parzialmente segnato con bolli bianco rossi.
È un lungo percorso a saliscendi con vista sul Gorzano e le Cento Fonti.
In parte è in cresta con magnifici scorci sul lago.
Siate prudenti e munitevi di altimetro e cartina
Dai 1119 di Frattoli si arriva alla sorgente e alla Sella Laga a 1976 metri.
Dal paese in auto, si segue la sterrata che sale a svolte per i pendii soprastanti l’abitato.
Oltrepassata una croce si entra nel bosco di faggi, (1450 metri).
Lasciata a destra una carrareccia secondaria, si raggiungono i 1650 metri, a meno di cinque chilometri dal paese.
Ora si sale a piedi fino a 1724 metri dove s’incontrano cartelli in legno.
Si continua sulla strada dissestata e in leggera discesa.
In breve si raggiunge un fontanile e uno stazzo di pastori a 1673 metri.
C’è una bella vista sul monte Gorzano e la valle delle Cento Fonti.
Finita la sterrata, si piega a sinistra, confortati dai segnavia bianco rossi.
Per prati si sale seguendo il crinale della Macchiarella.
Lo si lascia presto per un evidente sentiero che traversa il ruscello del Fosso di Malbove.
Con vari saliscendi si raggiungono i 1900 metri di una cresta che scende a Colle Senarica.
Ora si procede in discesa, entrando nel bosco.
Si aggira un ultimi crinale, entrando nel bel Fosso della Laghetta.
Traversato il torrente si abbandonano i segnali, proseguendo paralleli al corso d’acqua.
Toccato un ometto, si raggiunge la sorgente Pane e Cacio e Sella Laga, affacciata sulla conca aquilana del Lago di Campotosto.
Per gli esperti, l’aerea e panoramica cresta può portare, in circa un’ ora e mezza, al Monte di Mezzo, spartiacque tra Laga e Gran Sasso.
Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
Tutti gli articoli sono condivisi su Facebook nella bacheca di Sergio Scacchia e nella pagina "Il Mio Ararat" e su Google Plus.
Gli articoli sono inoltre pubblicati da Vincenzo Cicconi della PacotVideo , tra l'altro gestore di questo blog, su:
(blog della Città di Teramo - blog di Pensieri Teramani)
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È un lungo percorso a saliscendi con vista sul Gorzano e le Cento Fonti.
In parte è in cresta con magnifici scorci sul lago.
Siate prudenti e munitevi di altimetro e cartina
Dai 1119 di Frattoli si arriva alla sorgente e alla Sella Laga a 1976 metri.
Dal paese in auto, si segue la sterrata che sale a svolte per i pendii soprastanti l’abitato.
Oltrepassata una croce si entra nel bosco di faggi, (1450 metri).
Lasciata a destra una carrareccia secondaria, si raggiungono i 1650 metri, a meno di cinque chilometri dal paese.
Ora si sale a piedi fino a 1724 metri dove s’incontrano cartelli in legno.
Si continua sulla strada dissestata e in leggera discesa.
In breve si raggiunge un fontanile e uno stazzo di pastori a 1673 metri.
C’è una bella vista sul monte Gorzano e la valle delle Cento Fonti.
Finita la sterrata, si piega a sinistra, confortati dai segnavia bianco rossi.
Per prati si sale seguendo il crinale della Macchiarella.
Lo si lascia presto per un evidente sentiero che traversa il ruscello del Fosso di Malbove.
Con vari saliscendi si raggiungono i 1900 metri di una cresta che scende a Colle Senarica.
Ora si procede in discesa, entrando nel bosco.
Si aggira un ultimi crinale, entrando nel bel Fosso della Laghetta.
Traversato il torrente si abbandonano i segnali, proseguendo paralleli al corso d’acqua.
Toccato un ometto, si raggiunge la sorgente Pane e Cacio e Sella Laga, affacciata sulla conca aquilana del Lago di Campotosto.
Per gli esperti, l’aerea e panoramica cresta può portare, in circa un’ ora e mezza, al Monte di Mezzo, spartiacque tra Laga e Gran Sasso.
Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
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giovedì 27 giugno 2013
Le “grotte dei Sarracini” ad Atri.
Grazie Lucio De Marcellis!
Tutti conoscono Atri e i suoi gioielli.
Pochi sanno che questa città d’arte ha una parte ipogea che nasconde fontane antichissime, grotte scavate ai margini del paese e un ingegnoso sistema idraulico sotterraneo.
Adriano De Ascentiis, direttore dell’Oasi WWF dei Calanchi comunica che, da diversi mesi, c’è la possibilità di partecipare a interessanti escursioni organizzate gratuitamente dal personale dell’area protetta.
Il centro abitato, c’informa il direttore, è localizzato su tre piccoli colli denominati Maralto, di Mezzo e Muralto, a un’altezza di 445 m s.l.m. e poggia quasi esclusivamente su conglomerati di tetto che, causa la loro notevole permeabilità, sono facilmente attraversati dall’acqua.
Tale caratteristica ha indotto le genti che occupavano in epoca preromana il territorio atriano a escogitare stratagemmi che sfruttassero tale prerogativa.
Sono stati realizzati nel sottosuolo dei principali colli, cunicoli sotterranei destinati alla captazione e al convogliamento delle acque percolanti sorgive in zone di approvvigionamento che oggi corrispondono alle antiche fontane atriane.
Tali strutture, probabilmente di derivazione persiana, consistono in ingegnosi sistemi idraulici sotterranei che, sfruttando la natura geologica del terreno e l’inclinazione dei cunicoli, permettono il deflusso delle acque in punti di raccolta, le fontane appunto.
Sistemi simili sono stati rinvenuti in altre aree del bacino mediterraneo, possiamo, infatti, ricordare i “qanat” in Siria e in Giordania, i “karez” in Afganistan e Pakistan, i “foggara” in Nordafrica, i “khittara” in Marocco, le “gàllerias” in Spagna.
Non mancano esempi nella nostra penisola, a Fermo, a Chieti, Palermo e a Matera.
L’enorme e ramificata rete di cunicoli, cisterne, pozzi e fontane, presente sotto il centro storico di Atri, faceva parte di un unico grandioso sistema idrico di epoca preromana.
Uno degli ipogei più belli, presente poco fuori le mura cittadine, è quello delle “Grotte dei Sarracini” e delle “Macinelle”.
Qui, partecipando alle escursioni guidate gratuite dell’Oasi, si possono osservare frammenti d’intonaco di epoca romana, sul quale si trovano incisioni e decorazioni policrome.
I cordoli idraulici, alla base delle colonne, l’intonaco per l’impermeabilizzazione delle pareti, i segni di chiuse, lasciano presupporre che si trattasse di cisterne o piscine utilizzate per costipare acqua al fine di rilasciarla con scopi ancor poco definiti, poi utilizzate come luoghi di culto e/o di prigionia.
Resti di sedili e nicchie scavate nella roccia lasciano immaginare la possibilità che questi enormi stanzoni fossero adornati con statue per il culto.
Molto probabilmente, il sistema serviva a rifornire fontane o fabbriche un tempo presenti nelle vicinanze.
Tutti conoscono Atri e i suoi gioielli.
Pochi sanno che questa città d’arte ha una parte ipogea che nasconde fontane antichissime, grotte scavate ai margini del paese e un ingegnoso sistema idraulico sotterraneo.
Adriano De Ascentiis, direttore dell’Oasi WWF dei Calanchi comunica che, da diversi mesi, c’è la possibilità di partecipare a interessanti escursioni organizzate gratuitamente dal personale dell’area protetta.
Il centro abitato, c’informa il direttore, è localizzato su tre piccoli colli denominati Maralto, di Mezzo e Muralto, a un’altezza di 445 m s.l.m. e poggia quasi esclusivamente su conglomerati di tetto che, causa la loro notevole permeabilità, sono facilmente attraversati dall’acqua.
Tale caratteristica ha indotto le genti che occupavano in epoca preromana il territorio atriano a escogitare stratagemmi che sfruttassero tale prerogativa.
Sono stati realizzati nel sottosuolo dei principali colli, cunicoli sotterranei destinati alla captazione e al convogliamento delle acque percolanti sorgive in zone di approvvigionamento che oggi corrispondono alle antiche fontane atriane.
Tali strutture, probabilmente di derivazione persiana, consistono in ingegnosi sistemi idraulici sotterranei che, sfruttando la natura geologica del terreno e l’inclinazione dei cunicoli, permettono il deflusso delle acque in punti di raccolta, le fontane appunto.
Sistemi simili sono stati rinvenuti in altre aree del bacino mediterraneo, possiamo, infatti, ricordare i “qanat” in Siria e in Giordania, i “karez” in Afganistan e Pakistan, i “foggara” in Nordafrica, i “khittara” in Marocco, le “gàllerias” in Spagna.
Non mancano esempi nella nostra penisola, a Fermo, a Chieti, Palermo e a Matera.
L’enorme e ramificata rete di cunicoli, cisterne, pozzi e fontane, presente sotto il centro storico di Atri, faceva parte di un unico grandioso sistema idrico di epoca preromana.
Uno degli ipogei più belli, presente poco fuori le mura cittadine, è quello delle “Grotte dei Sarracini” e delle “Macinelle”.
Qui, partecipando alle escursioni guidate gratuite dell’Oasi, si possono osservare frammenti d’intonaco di epoca romana, sul quale si trovano incisioni e decorazioni policrome.
I cordoli idraulici, alla base delle colonne, l’intonaco per l’impermeabilizzazione delle pareti, i segni di chiuse, lasciano presupporre che si trattasse di cisterne o piscine utilizzate per costipare acqua al fine di rilasciarla con scopi ancor poco definiti, poi utilizzate come luoghi di culto e/o di prigionia.
Resti di sedili e nicchie scavate nella roccia lasciano immaginare la possibilità che questi enormi stanzoni fossero adornati con statue per il culto.
Molto probabilmente, il sistema serviva a rifornire fontane o fabbriche un tempo presenti nelle vicinanze.
mercoledì 26 giugno 2013
Il polo museale di San Domenico a Teramo: occasione persa
Non tutti i teramani sanno che il convento di San Domenico a Teramo è stato, fino alla scomparsa di quest’ordine religioso in città, l’unico insediamento domenicano superstite nell’area abruzzese che comprendeva, secoli fa, centri spirituali della Campania, del Lazio e delle Marche.
Il visitatore attento sa che, nonostante aleggi nella chiesa una deliberata intenzione di sopprimere ogni elemento decorativo per conferire un aspetto spoglio ed austero, il tempio teramano appare comunque solenne e aristocratico.
L’appassionato di architettura sacra riconosce nell’aspetto puro ed essenziale, nella perfezione formale dell’insieme, uno dei maggiori esempi della cultura ecclesiale nel medioevo abruzzese.
Basta uno sguardo accurato, sia alla chiesa che al chiostro, per rimanere incantati. La visita in questo che è tra i più antichi edifici della città potrebbe riportare indietro, come in una prodigiosa macchina del tempo, al secolo XII.
Il convento ha conservato infatti gran dell'aspetto originario d’insediamento mendicante medioevale tra i più interessanti dell’Italia centrale.
La sua navata ad aula unica con tetto in legno, il chiostro con gli affreschi della vita di San Domenico, i manufatti lapidei, le sculture in terracotta policroma, il suggestivo interno buio e austero intervallato dalle lievi cromie delle opere pittoriche della zona absidale, donano il senso della storia, fuso con quello dell’umanità e della fede, per narrare in modo unico la grandezza di Dio.
La scomparsa dei domenicani a Teramo ha creato un vuoto incolmabile morale e culturale a Teramo.
Al pari dei francescani, i religiosi di San Domenico sin dal 1300, nel corso di una secolare permanenza in città, hanno donato tante iniziative, dalla creazione di gruppi Scout, al Terz’Ordine, fino ad arrivare alla formazione di fraternità di preghiere e corali liturgiche e polifoniche.
I domenicani con il loro zelo e con l’aiuto di Dio, hanno guadagnato l’affetto dei teramani.
Nel corso dei secoli il convento è stato caratterizzato da un insieme di attività; è stato luogo di culto e di studio, associazione socio-assistenziale religiosa, convitto, azienda agricola, giardino officinale, farmacia, sito di attività proto-finanziarie e bancarie, luogo di sepoltura, zona commerciale con la famosa fiera dedicata al santo.
In questa elencazione non può non essere ricordata la funzione religiosa, sociale e culturale svolta dalla “Cattedra Cateriniana” alla fine del secolo scorso, di cui resta una testimonianza in diverse migliaia di opere e di pubblicazioni, realizzate in questo cenobio, sull’Ordine Domenicano nell’ Italia centrale.
Negli anni ’30 e negli anni ’50 e ’70 del XX secolo, il convento fu interessato da lavori di restauro che ebbero il merito di portare al recupero dei dipinti murali quattrocenteschi collocati nell’abside e nelle pareti più vicine, dei dipinti murali del secolo XVIII del chiostro e dell’antico portale affiancato da due bifore medievali di accesso alla sala capitolare detta della “Cappella del Rosario”.
I lavori degli anni ’30, eseguiti e finanziati dallo storico teramano Francesco Savini, furono oggetto di forti critiche durante l’esecuzione e, ancora oggi, vengono citati dalla letteratura scientifica come un caso negativo.
Identica sorte per quelli effettuati negli anni ’50 e ’70, anch’essi di dubbio gusto.
Tra i restauri bisogna menzionare quelli dell’abside nei primi anni del 2000 che furono sostenuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Teramo.
San Domenico aveva tutti i crismi per diventare un centro di documentazione teologica e culturale, un museo che avrebbe narrato anche le vicende storiche e devozionali di Teramo.
Ancora oggi il sito è comunque un importante luogo di preghiera, grazie all’importante lavoro spirituale dei frati dell’Immacolata.
Il visitatore attento sa che, nonostante aleggi nella chiesa una deliberata intenzione di sopprimere ogni elemento decorativo per conferire un aspetto spoglio ed austero, il tempio teramano appare comunque solenne e aristocratico.
L’appassionato di architettura sacra riconosce nell’aspetto puro ed essenziale, nella perfezione formale dell’insieme, uno dei maggiori esempi della cultura ecclesiale nel medioevo abruzzese.
Basta uno sguardo accurato, sia alla chiesa che al chiostro, per rimanere incantati. La visita in questo che è tra i più antichi edifici della città potrebbe riportare indietro, come in una prodigiosa macchina del tempo, al secolo XII.
Il convento ha conservato infatti gran dell'aspetto originario d’insediamento mendicante medioevale tra i più interessanti dell’Italia centrale.
La sua navata ad aula unica con tetto in legno, il chiostro con gli affreschi della vita di San Domenico, i manufatti lapidei, le sculture in terracotta policroma, il suggestivo interno buio e austero intervallato dalle lievi cromie delle opere pittoriche della zona absidale, donano il senso della storia, fuso con quello dell’umanità e della fede, per narrare in modo unico la grandezza di Dio.
La scomparsa dei domenicani a Teramo ha creato un vuoto incolmabile morale e culturale a Teramo.
Al pari dei francescani, i religiosi di San Domenico sin dal 1300, nel corso di una secolare permanenza in città, hanno donato tante iniziative, dalla creazione di gruppi Scout, al Terz’Ordine, fino ad arrivare alla formazione di fraternità di preghiere e corali liturgiche e polifoniche.
I domenicani con il loro zelo e con l’aiuto di Dio, hanno guadagnato l’affetto dei teramani.
Nel corso dei secoli il convento è stato caratterizzato da un insieme di attività; è stato luogo di culto e di studio, associazione socio-assistenziale religiosa, convitto, azienda agricola, giardino officinale, farmacia, sito di attività proto-finanziarie e bancarie, luogo di sepoltura, zona commerciale con la famosa fiera dedicata al santo.
In questa elencazione non può non essere ricordata la funzione religiosa, sociale e culturale svolta dalla “Cattedra Cateriniana” alla fine del secolo scorso, di cui resta una testimonianza in diverse migliaia di opere e di pubblicazioni, realizzate in questo cenobio, sull’Ordine Domenicano nell’ Italia centrale.
Negli anni ’30 e negli anni ’50 e ’70 del XX secolo, il convento fu interessato da lavori di restauro che ebbero il merito di portare al recupero dei dipinti murali quattrocenteschi collocati nell’abside e nelle pareti più vicine, dei dipinti murali del secolo XVIII del chiostro e dell’antico portale affiancato da due bifore medievali di accesso alla sala capitolare detta della “Cappella del Rosario”.
I lavori degli anni ’30, eseguiti e finanziati dallo storico teramano Francesco Savini, furono oggetto di forti critiche durante l’esecuzione e, ancora oggi, vengono citati dalla letteratura scientifica come un caso negativo.
Identica sorte per quelli effettuati negli anni ’50 e ’70, anch’essi di dubbio gusto.
Tra i restauri bisogna menzionare quelli dell’abside nei primi anni del 2000 che furono sostenuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Teramo.
San Domenico aveva tutti i crismi per diventare un centro di documentazione teologica e culturale, un museo che avrebbe narrato anche le vicende storiche e devozionali di Teramo.
Ancora oggi il sito è comunque un importante luogo di preghiera, grazie all’importante lavoro spirituale dei frati dell’Immacolata.
martedì 25 giugno 2013
Sui silenziosi sentieri del piccolo Tibet d'Abruzzo
“La roccia è una fasciatura, la garza che medica dallo stress della vita!” (Mauro Corona)
Volete assistere ad uno spettacolo della natura?
Trovatevi all’’alba di un nuovo giorno d’estate nella piana di Campo Imperatore, il piccolo Tibet d’Abruzzo.
Tutte le cose risulteranno come nuove, ne scorgerete la bellezza in ogni anfratto esplorato dai vostri occhi.
La luce d’inizio giorno è indescrivibile, un diadema di colori.
Pare di essere avvolti da tulle che velano tutto di emozione.
Le montagne che cingono il paesaggio lunare della piana, appaiono come pacifici dinosauri incredibilmente immobili.
Il silenzio tra i meandri brulli che, alla vista, si insinuano per chilometri, fa pensare a Dio che quando opera, lo fa sommessamente senza sbandierare il suo arrivo.
Secondo una tenerissima leggenda tibetana, le montagne sarebbero frammenti di stelle cadute dal cielo e le pianure enormi, si formerebbero dai granelli immacolati della loro scia.
Un giorno, dicono i saggi, tutto potrebbe tornare da dov’è venuto.
Occorrerebbe forse fissare le pendici con i chiodi per impedire che volino via.
Guardare a questo infinito paesaggio è come entrare nel primordiale.
Ti obbliga a ripensare alla tua esistenza.
Quando si ha bisogno di sognare ad occhi aperti, basta arrivare qui in questa sorta di capolinea della geografia emozionale.
Puoi vederci grandi deserti asiatici, sconfinate praterie californiane o semplicemente un pianoro di aridi pascoli, ma credetemi, qui non si giunge per caso.
Si è chiamati per essere come davanti a sé stessi.
È come aprire una via tra cielo e terra.
Potrete immaginare di avere le stesse visioni di Francesco d’Assisi che pregava solitario nel film “Fratello Sole, sorella Luna” o “Trinità” il buon Terence Hill, cowboy dal cappello calato sulla faccia, trascinato con il suo povero giaciglio di legno dal fidato cavallo.
Campo Imperatore è un enorme set cinematografico in cui passeggiano il pastore Serafino, impersonato da Celentano, il gruppo di monaci del “Nome della rosa”, pronti a combattere il Maligno.
Pare quasi di vedere anche l’aliante in panne che sulla spianata, plana tra il gruppo di amici che festeggia con il noto amaro, il lieto fine di una brutta avventura e la piccola vettura contornata da migliaia di pecore.
Si cammina nel bel mezzo di una vera leggenda della cinematografia internazionale.
E non solo.
Secondo un amico letterato, Gabriele D’Annunzio guardando questa distesa brulla, ebbe l’ispirazione per scrivere la sceneggiatura di “Cabiria”, niente di meno che il primo kolossal del cinema muto, il cui successo nel 1914, fu avvenimento mondiale.
Bella la storia della piccola donna che durante l’ultima guerra punica nel terzo secolo a.C., venne rapita dai Fenici e venduta come schiava ai Cartaginesi.
Cabiria fu scelta dal sacerdote Kathalo, per essere sacrificata al dio Moloch, ma salvata dal romano Fulvio e dal suo liberto Maciste, poi immortalato, insieme a Sansone, come uomo più forte del mondo.
Sono alcune delle immagini fantastiche legate a questa immensa landa deserta dalla struggente bellezza dei declivi, dai dirupi su cui si stende il verde dei pascoli e l’azzurro del cielo.
Volete assistere ad uno spettacolo della natura?
Trovatevi all’’alba di un nuovo giorno d’estate nella piana di Campo Imperatore, il piccolo Tibet d’Abruzzo.
Tutte le cose risulteranno come nuove, ne scorgerete la bellezza in ogni anfratto esplorato dai vostri occhi.
La luce d’inizio giorno è indescrivibile, un diadema di colori.
Pare di essere avvolti da tulle che velano tutto di emozione.
Le montagne che cingono il paesaggio lunare della piana, appaiono come pacifici dinosauri incredibilmente immobili.
Il silenzio tra i meandri brulli che, alla vista, si insinuano per chilometri, fa pensare a Dio che quando opera, lo fa sommessamente senza sbandierare il suo arrivo.
Secondo una tenerissima leggenda tibetana, le montagne sarebbero frammenti di stelle cadute dal cielo e le pianure enormi, si formerebbero dai granelli immacolati della loro scia.
Un giorno, dicono i saggi, tutto potrebbe tornare da dov’è venuto.
Occorrerebbe forse fissare le pendici con i chiodi per impedire che volino via.
Guardare a questo infinito paesaggio è come entrare nel primordiale.
Ti obbliga a ripensare alla tua esistenza.
Quando si ha bisogno di sognare ad occhi aperti, basta arrivare qui in questa sorta di capolinea della geografia emozionale.
Puoi vederci grandi deserti asiatici, sconfinate praterie californiane o semplicemente un pianoro di aridi pascoli, ma credetemi, qui non si giunge per caso.
Si è chiamati per essere come davanti a sé stessi.
È come aprire una via tra cielo e terra.
Potrete immaginare di avere le stesse visioni di Francesco d’Assisi che pregava solitario nel film “Fratello Sole, sorella Luna” o “Trinità” il buon Terence Hill, cowboy dal cappello calato sulla faccia, trascinato con il suo povero giaciglio di legno dal fidato cavallo.
Campo Imperatore è un enorme set cinematografico in cui passeggiano il pastore Serafino, impersonato da Celentano, il gruppo di monaci del “Nome della rosa”, pronti a combattere il Maligno.
Pare quasi di vedere anche l’aliante in panne che sulla spianata, plana tra il gruppo di amici che festeggia con il noto amaro, il lieto fine di una brutta avventura e la piccola vettura contornata da migliaia di pecore.
Si cammina nel bel mezzo di una vera leggenda della cinematografia internazionale.
E non solo.
Secondo un amico letterato, Gabriele D’Annunzio guardando questa distesa brulla, ebbe l’ispirazione per scrivere la sceneggiatura di “Cabiria”, niente di meno che il primo kolossal del cinema muto, il cui successo nel 1914, fu avvenimento mondiale.
Bella la storia della piccola donna che durante l’ultima guerra punica nel terzo secolo a.C., venne rapita dai Fenici e venduta come schiava ai Cartaginesi.
Cabiria fu scelta dal sacerdote Kathalo, per essere sacrificata al dio Moloch, ma salvata dal romano Fulvio e dal suo liberto Maciste, poi immortalato, insieme a Sansone, come uomo più forte del mondo.
Sono alcune delle immagini fantastiche legate a questa immensa landa deserta dalla struggente bellezza dei declivi, dai dirupi su cui si stende il verde dei pascoli e l’azzurro del cielo.
lunedì 24 giugno 2013
Frattoli: l'evidenza del sacro
Dopo la scoperta di Cesacastina nel numero scorso, questa volta Concetta ci racconta storie del paese degli artisti e della devozione cristiana.
Crognaleto, quasi al confine tra Laga e Gran Sasso, vanta nel suo territorio alcuni dei più belli e antichi borghi di montagna; agglomerati di case poste su immensi falsopiano tra costoni prativi che scendono fino alla valle sottostante dove scorre il serpentone della Strada Maestra all’altezza di Aprati.
Avvolti e protetti, quasi abbracciati da una catena di monti che offre scenari indimenticabili, i paesi rappresentano la nostra memoria.
Le antiche mulattiere che attraversano gli abitati, un tempo erano la sosta obbligata dopo le fatiche dell'ascesa, per i pastori con il loro carico di greggi transumanti e per viandanti alla ricerca di improbabili commerci.
Vecchi caseggiati oggi ammodernati che, nonostante l’assalto e l’ingiuria del tempo, mantengono gran parte dell'originale architettura.
Non è improbabile in questi luoghi scoprire la bellezza dell’ingegno dell’uomo tra intrecci di scale in legno, tetti in coppi, selciati antistanti alle abitazioni e arcaiche forme di canali scolatoi che attraversano le contrade, vere e proprie opere d'arte povera ormai uniche.
Molti conoscono il piccolo paese di Frattoli perché ha dato i natali a una generazione incredibile di artisti scalpellini, la famiglia Zilli.
Il capostipite giunse dalle rive del lago di Campotosto, ebbe due figli, Emanuele che emigrò in America, e Amedeo, sorta di armadio tanto era alto e robusto che ebbe sette maschi e cinque femmine.
Questi uomini popolarono il paese di abili muratori e valenti scalpellini che realizzarono vere opere d’arte con la pietra locale, impreziosendo chiese e case.
Tipici sono i camini: ogni casa ne ha uno riccamente scolpito.
Su di essi spesso si legge il nome del capofamiglia, colui che ha commissionato l'opera e una data particolare, spesso quella di costruzione della casa.
Il paese di Frattoli è balcone privilegiato sul Gran Sasso, e su immensi castagneti secolari, in alcuni casi così fitti che al sottobosco arriva pochissima luce.
Nei dintorni ci sono percorsi costellati di vecchie carbonaie, antichi casali isolati.
Il centro del paese ha le abitazioni disposte ai lati della strada principale, in gran parte ristrutturate con un carattere moderno che ha di fatto limitato le tracce delle tipiche costruzioni cinquecentesche di montagna.
Resistono negli edifici più vetusti alcune epigrafi sugli architravi delle porte che testimoniano date e notizie su antiche famiglie locali.
A pettine, si dipanano viottoli che denotano bellezza e tranquillità dell'ambiente naturale e, in sintonia con esse, gli elementi architettonici tipici di una tradizione rurale e contadina.
Ma c’è una particolarità che vale il viaggio per arrivare fin quassù oltre alla bellezza del panorama: è che sembrano esserci più chiese che case.
In un libro dal titolo “ I legni sacri” edito in occasione di restauri, da Corrado Anelli, Alberto Melarangelo e Berardo Rabbuffo, con le note introduttive del critico d’arte Francesco Tentarelli, si riportano parole significative del Palma che si meravigliava della presenza cospicua di edifici sacri in un luogo di così modeste fatture.
Esistono tuttora la chiesa madre di S. Giovanni Battista, la chiesa di S. Antonio, quella della Madonna del Carmine e la Madonna del Soccorso che oggi quasi non esiste più.
Anni fa c’era anche il tempio di Santa Margherita poi distrutto.
In più, una serie di edicole votive poste ai margini del centro abitato, di cui non si conservano che poche tracce.
Chiese adornate da altari barocchi intarsiati e dorati, soffitto a cassettoni in legno e le “conocchie”, particolari statue impagliate con solo il viso e le mani in gesso e rivestite da importanti abiti in broccato e stoffe preziose, più economiche e più leggere da portare in processione.
Credo che non sia sbagliato definire Frattoli, “il paese della pietà cristiana”.
La chiesa madre di San Giovanni Battista ha un portico del seicento in pietra che ha qualcosa di surreale.
All’interno il visitatore trova un ambiente armonioso in stile barocco, mitigato dalla tradizione locale, in una interessante commistione di stili.
Fanno bella mostra un pulpito in legno scolpito di pregevole fattura, un confessionale che, a ragione, si può definire capolavoro di ebanisteria artistica e una credenza in legno d’abete.
Il crocifisso ligneo dell’altare denota il gusto delle popolazioni dei monti della Laga, con quelle dorature e stucchi che spesso si incontrano nei paesi di Cesacastina, Cervaro, Tottea, Cortino.
Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
Tutti gli articoli sono condivisi su Facebook nella bacheca di Sergio Scacchia e nella pagina "Il Mio Ararat" e su Google Plus.
Gli articoli sono inoltre pubblicati da Vincenzo Cicconi della PacotVideo , tra l'altro gestore di questo blog, su:
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Crognaleto, quasi al confine tra Laga e Gran Sasso, vanta nel suo territorio alcuni dei più belli e antichi borghi di montagna; agglomerati di case poste su immensi falsopiano tra costoni prativi che scendono fino alla valle sottostante dove scorre il serpentone della Strada Maestra all’altezza di Aprati.
Avvolti e protetti, quasi abbracciati da una catena di monti che offre scenari indimenticabili, i paesi rappresentano la nostra memoria.
Le antiche mulattiere che attraversano gli abitati, un tempo erano la sosta obbligata dopo le fatiche dell'ascesa, per i pastori con il loro carico di greggi transumanti e per viandanti alla ricerca di improbabili commerci.
Vecchi caseggiati oggi ammodernati che, nonostante l’assalto e l’ingiuria del tempo, mantengono gran parte dell'originale architettura.
Non è improbabile in questi luoghi scoprire la bellezza dell’ingegno dell’uomo tra intrecci di scale in legno, tetti in coppi, selciati antistanti alle abitazioni e arcaiche forme di canali scolatoi che attraversano le contrade, vere e proprie opere d'arte povera ormai uniche.
Molti conoscono il piccolo paese di Frattoli perché ha dato i natali a una generazione incredibile di artisti scalpellini, la famiglia Zilli.
Il capostipite giunse dalle rive del lago di Campotosto, ebbe due figli, Emanuele che emigrò in America, e Amedeo, sorta di armadio tanto era alto e robusto che ebbe sette maschi e cinque femmine.
Questi uomini popolarono il paese di abili muratori e valenti scalpellini che realizzarono vere opere d’arte con la pietra locale, impreziosendo chiese e case.
Tipici sono i camini: ogni casa ne ha uno riccamente scolpito.
Su di essi spesso si legge il nome del capofamiglia, colui che ha commissionato l'opera e una data particolare, spesso quella di costruzione della casa.
Il paese di Frattoli è balcone privilegiato sul Gran Sasso, e su immensi castagneti secolari, in alcuni casi così fitti che al sottobosco arriva pochissima luce.
Nei dintorni ci sono percorsi costellati di vecchie carbonaie, antichi casali isolati.
Il centro del paese ha le abitazioni disposte ai lati della strada principale, in gran parte ristrutturate con un carattere moderno che ha di fatto limitato le tracce delle tipiche costruzioni cinquecentesche di montagna.
Resistono negli edifici più vetusti alcune epigrafi sugli architravi delle porte che testimoniano date e notizie su antiche famiglie locali.
A pettine, si dipanano viottoli che denotano bellezza e tranquillità dell'ambiente naturale e, in sintonia con esse, gli elementi architettonici tipici di una tradizione rurale e contadina.
Ma c’è una particolarità che vale il viaggio per arrivare fin quassù oltre alla bellezza del panorama: è che sembrano esserci più chiese che case.
In un libro dal titolo “ I legni sacri” edito in occasione di restauri, da Corrado Anelli, Alberto Melarangelo e Berardo Rabbuffo, con le note introduttive del critico d’arte Francesco Tentarelli, si riportano parole significative del Palma che si meravigliava della presenza cospicua di edifici sacri in un luogo di così modeste fatture.
Esistono tuttora la chiesa madre di S. Giovanni Battista, la chiesa di S. Antonio, quella della Madonna del Carmine e la Madonna del Soccorso che oggi quasi non esiste più.
Anni fa c’era anche il tempio di Santa Margherita poi distrutto.
In più, una serie di edicole votive poste ai margini del centro abitato, di cui non si conservano che poche tracce.
Chiese adornate da altari barocchi intarsiati e dorati, soffitto a cassettoni in legno e le “conocchie”, particolari statue impagliate con solo il viso e le mani in gesso e rivestite da importanti abiti in broccato e stoffe preziose, più economiche e più leggere da portare in processione.
Credo che non sia sbagliato definire Frattoli, “il paese della pietà cristiana”.
La chiesa madre di San Giovanni Battista ha un portico del seicento in pietra che ha qualcosa di surreale.
All’interno il visitatore trova un ambiente armonioso in stile barocco, mitigato dalla tradizione locale, in una interessante commistione di stili.
Fanno bella mostra un pulpito in legno scolpito di pregevole fattura, un confessionale che, a ragione, si può definire capolavoro di ebanisteria artistica e una credenza in legno d’abete.
Il crocifisso ligneo dell’altare denota il gusto delle popolazioni dei monti della Laga, con quelle dorature e stucchi che spesso si incontrano nei paesi di Cesacastina, Cervaro, Tottea, Cortino.
Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
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sabato 22 giugno 2013
Annibale e la Via Metella
Tra le due montagne del Gorzano e di Pizzo di Sevo, nei monti della Laga, si snoda il cosiddetto “valico di Annibale”, chiamato così in ricordo del probabile passaggio del famoso condottiero.
L'ipotesi storica nacque dal ritrovamento, di un miliario romano che riportava la distanza dalla capitale, ritrovato sotto la montagna di Cima Lepri.
La via antica della Salaria fu studiata nel 1830 dallo storico teramano Niccola Palma, e ricostruito analiticamente sul terreno da Alesi, Calibani e Palermi, nella Guida Escursionistica dei Monti della Laga (1990).
Quando, anni fa, m’inerpicai sul Pizzo di Sevo, incontrai un sessantenne molto ardimentoso che si divertiva ancora in montagna.
Conosceva il territorio e m’indicò dall’alto la via che, secondo lui, Annibale aveva praticato per arrivare fin qui.
Dalle Marche attraverso la Salaria, il percorso partiva dalla cima del Monte Comunitore, per il valico del Passo Chino, inerpicandosi lungo il costone che tocca la vetta della Macera e il Pizzutello, sotto Cima Lepri, in un tourbillon di incredibili ascese e discese.
Ciò che colpì la mia fantasia fu il “come” il condottiero avesse fatto arrampicare fin lì gli elefanti, tant’è che il mio interlocutore disse subito che molti animali e soldati perdettero la vita per il freddo e gli indicibili sacrifici.
Il maturo escursionista m’indicò il guado in cui il condottiero sarebbe passato per distendere le sue falangi armate nelle colline del Vibrata, un angusto passaggio a sud del Pizzo di Sevo.
Secondo lui, la vera “Salaria” era proprio questa: antichissima arteria, caduta in disuso perché troppo selvaggia, scavalcante la dorsale della Laga fino alla costa adriatica.
Un territorio troppo aspro, tra monasteri incastonati nelle montagne, paesini arrampicati su speroni di roccia, castelli che punteggiano le alture.
In mezzo a grandi faggete e prati, dovette sostenersi una battaglia dove si fronteggiarono uno stratega abilissimo come Annibale e il console romano Quinto Fabio Massimo, che tutti conoscono come il “temporeggiatore”.
La battaglia secondo la leggenda (o realtà?) fu il prologo di quella ben più sanguinaria di Canne dove il capo dei Cartaginesi, con forze inferiori di numero (ca. 35.000 uomini), riportò sui Romani, presentatisi alla battaglia con un esercito forte di ca. 50.000 uomini, una strepitosa vittoria.
Molti storici hanno asserito che su questa via che proseguiva per il crinale del Ceppo, toccando Castel Manfrino, antico “castrum Romano”, attraverso le selvagge gole del Salinello, dovette avventurarsi l’eroe cartaginese.
Il quale decise di attraversare le pericolose falesie al di sotto di Macchia, pur di accelerare il suo arrivo verso l’Adriatico.
Il confine tra il Piceno e il Pretuzio era anche libero da truppe nemiche date le innumerevoli leggende di mostri mitologici che si inerpicavano sui contrafforti del Foltrone e del Girella alla ricerca di malcapitati viaggiatori.
Ma, evidentemente, Annibale e, più tardi, il grande Manfredi non avevano di queste paure.
La via Metella che collega direttamente la costa abruzzese di Giulianova, attraverso
S. Omero, alla Salaria, zona amatriciana, attraversando i Monti della Laga, è oggetto di un trekking ideato dal C.A.I. di Ascoli.
A cavallo tra il teramano e la provincia reatina, il primo giorno si percorrono le Gole del Salinello da Ripe, giungendo, attraverso Macchia da Sole, all'ostello di Leofara.
Il secondo giorno si raggiunge, per Imposte e Ciarelli, la località Ceppo, dove ci si può fermare all'Ostello.
Il terzo giorno si affrontano le pendici della Laga, scavalcando la catena sul famoso Guado di Annibale, scendendo in località Capricchia di Amatrice.
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L'ipotesi storica nacque dal ritrovamento, di un miliario romano che riportava la distanza dalla capitale, ritrovato sotto la montagna di Cima Lepri.
La via antica della Salaria fu studiata nel 1830 dallo storico teramano Niccola Palma, e ricostruito analiticamente sul terreno da Alesi, Calibani e Palermi, nella Guida Escursionistica dei Monti della Laga (1990).
Quando, anni fa, m’inerpicai sul Pizzo di Sevo, incontrai un sessantenne molto ardimentoso che si divertiva ancora in montagna.
Conosceva il territorio e m’indicò dall’alto la via che, secondo lui, Annibale aveva praticato per arrivare fin qui.
Dalle Marche attraverso la Salaria, il percorso partiva dalla cima del Monte Comunitore, per il valico del Passo Chino, inerpicandosi lungo il costone che tocca la vetta della Macera e il Pizzutello, sotto Cima Lepri, in un tourbillon di incredibili ascese e discese.
Ciò che colpì la mia fantasia fu il “come” il condottiero avesse fatto arrampicare fin lì gli elefanti, tant’è che il mio interlocutore disse subito che molti animali e soldati perdettero la vita per il freddo e gli indicibili sacrifici.
Il maturo escursionista m’indicò il guado in cui il condottiero sarebbe passato per distendere le sue falangi armate nelle colline del Vibrata, un angusto passaggio a sud del Pizzo di Sevo.
Secondo lui, la vera “Salaria” era proprio questa: antichissima arteria, caduta in disuso perché troppo selvaggia, scavalcante la dorsale della Laga fino alla costa adriatica.
Un territorio troppo aspro, tra monasteri incastonati nelle montagne, paesini arrampicati su speroni di roccia, castelli che punteggiano le alture.
In mezzo a grandi faggete e prati, dovette sostenersi una battaglia dove si fronteggiarono uno stratega abilissimo come Annibale e il console romano Quinto Fabio Massimo, che tutti conoscono come il “temporeggiatore”.
La battaglia secondo la leggenda (o realtà?) fu il prologo di quella ben più sanguinaria di Canne dove il capo dei Cartaginesi, con forze inferiori di numero (ca. 35.000 uomini), riportò sui Romani, presentatisi alla battaglia con un esercito forte di ca. 50.000 uomini, una strepitosa vittoria.
Molti storici hanno asserito che su questa via che proseguiva per il crinale del Ceppo, toccando Castel Manfrino, antico “castrum Romano”, attraverso le selvagge gole del Salinello, dovette avventurarsi l’eroe cartaginese.
Il quale decise di attraversare le pericolose falesie al di sotto di Macchia, pur di accelerare il suo arrivo verso l’Adriatico.
Il confine tra il Piceno e il Pretuzio era anche libero da truppe nemiche date le innumerevoli leggende di mostri mitologici che si inerpicavano sui contrafforti del Foltrone e del Girella alla ricerca di malcapitati viaggiatori.
Ma, evidentemente, Annibale e, più tardi, il grande Manfredi non avevano di queste paure.
La via Metella che collega direttamente la costa abruzzese di Giulianova, attraverso
S. Omero, alla Salaria, zona amatriciana, attraversando i Monti della Laga, è oggetto di un trekking ideato dal C.A.I. di Ascoli.
A cavallo tra il teramano e la provincia reatina, il primo giorno si percorrono le Gole del Salinello da Ripe, giungendo, attraverso Macchia da Sole, all'ostello di Leofara.
Il secondo giorno si raggiunge, per Imposte e Ciarelli, la località Ceppo, dove ci si può fermare all'Ostello.
Il terzo giorno si affrontano le pendici della Laga, scavalcando la catena sul famoso Guado di Annibale, scendendo in località Capricchia di Amatrice.
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martedì 18 giugno 2013
Traversata delle Gole del Salinello (1996-05-12)
La traversata delle Gole del Salinello ha rappresentato una delle più emozionali tra le escursioni del 1996.
Incassate tra i Monti Gemelli del Foltrone e della Montagna dei Fiori con la cima del Girella le gole sono un vero e proprio canyon dalle pareti strettissime a strapiombo modellate dal lento lavorio dell'acqua.
A rendere ancora più interessante la giornata la visita ad uno degli eremi presenti in zona: la Grotta di Sant'Angelo nel cui interno troviamo un altare con mensola in pietra del XIV° secolo dedicato all'Arcangelo Michele.
Ecco "Lu Caccame", la splendida cascata che ci accoglie con i suoi due salti di 35 metri di dislivello.
Le altissime pareti rocciose si avvicinano sempre più dando l'impressione di volerci cadere sopra fino al punto più stretto e suggestivo dove la distanza non è di più di tre metri con una altezza di circa duecento.
Sotto al Monte Girella l'escursione ci regala nuove emozioni .. stiamo per arrivare nei pressi dei ruderi di Castel Manfrino a 963 metri di altezza.
La fortificazione di Castel Manfrino eretta nel 13° secolo dagli Svevi ad opera di Manfrino fu ulteriormente rafforzata dagli Angioini ricoprendo un ruolo strategico nello scacchiere difensivo dell'epoca.
Riprese di Vincenzo Cicconi della Pacotvideo.
Il video ha una durata di circa 3,30 minuti ed è stato pubblicato su cinque canali di video sharing gestiti dalla PacotVideo:
(YouTube - DailyMotion di Virgilio - Vimeo - Blip.TV.
E' stato pubblicato su tre blog anch'essi gestiti da Vincenzo Cicconi della Pacotvideo:
- blog della Città di Teramo
- blog della PacotVideo
- blog di Pensieri Teramani
E' stato pubblicato sulle pagine Facebook:
1 - Produzione Video a Teramo (Abruzzo) - PacotVideo.it di Cicconi Vincenzo
2 - Il blog della città di Teramo e della sua Provincia
e sulle pagine di Google Plus
1 - PacotVideo di Cicconi Vincenzo
2 - La Città di Teramo e la sua Provincia
Infine la pubblicazione del video è stato comunicato attraverso Twitter
1 - PacotVideo di Cicconi Vincenzo
2 - Città di Teramo
*************************
lunedì 17 giugno 2013
L'escursione: la Valle degli Eremi
Tra la Montagna dei Fiori e quella di Campli, nell’angusta gola del fiume Salinello: natura, leggenda, storie di re, pastori ed eremiti.
Da Ripe di Civitella del Tronto, si prende una strada bianca dopo la chiesa di San Pietro, che conduce in poco più di un chilometro ad un piazzale.
Si lascia l’auto e si procede a piedi lungo la carrareccia.
In dieci minuti si è davanti alla grotta di S. Angelo.
Poco dopo l’eremo si scende lungo un ripido sentiero che raggiunge il greto del fiume. Una piccola e remunerativa deviazione a sinistra scende alla bella cascata de “Lu Caccame”.
Percorrendo la sinistra orografica della valle in venti minuti circa si è davanti a un’ampia ansa del fiume e al bivio per Santa Maria Scalena.
La pericolosità del pendio sconsiglia la visita, soprattutto a chi non è esperto di escursionismo e alpinismo.
Il sentiero si addentra nel cuore delle gole e si ha bisogno di scarpe in gore tex per alcuni guadi da effettuare nell’acqua.
Dove la valle si allarga, il piccolo sentiero devia a sinistra e attraversa un ramo del Salinello.
Qui è visibile il bivio per l’eremo di San Marco raggiungibile da esperti in dieci minuti nel bosco.
Poco dopo il bivio per San Marco, lungo il sentiero che risale la valle, troviamo sulla destra una debole traccia che sale ripida lungo un brecciaio, inoltrandosi nel bosco e raggiungendo, in venti minuti, le Torri di San Francesco e l’eremo omonimo che la leggenda vuole sia stato utilizzato dal santo di Assisi.
Risalendo alle Torri, si riprende il sentiero che dopo pochi minuti, si ricollega al tratto principale proveniente da Ripe.
Presto si scorgeranno i leggendari monconi di mura di quello che era il Castello del Re Manfredi di Svevia, in alto sul costone roccioso.
È assolutamente un luogo magico.
Se lo si vorrà raggiungere, occorrerà una buona mezz’ora e, alla fine, avrete camminato per circa due ore e mezza.
Il paese più vicino sarà Macchia da Sole, su di un antico percorso di pastori.
Dalla rocca, dista circa venti minuti.
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Da Ripe di Civitella del Tronto, si prende una strada bianca dopo la chiesa di San Pietro, che conduce in poco più di un chilometro ad un piazzale.
Si lascia l’auto e si procede a piedi lungo la carrareccia.
In dieci minuti si è davanti alla grotta di S. Angelo.
Poco dopo l’eremo si scende lungo un ripido sentiero che raggiunge il greto del fiume. Una piccola e remunerativa deviazione a sinistra scende alla bella cascata de “Lu Caccame”.
Percorrendo la sinistra orografica della valle in venti minuti circa si è davanti a un’ampia ansa del fiume e al bivio per Santa Maria Scalena.
La pericolosità del pendio sconsiglia la visita, soprattutto a chi non è esperto di escursionismo e alpinismo.
Il sentiero si addentra nel cuore delle gole e si ha bisogno di scarpe in gore tex per alcuni guadi da effettuare nell’acqua.
Dove la valle si allarga, il piccolo sentiero devia a sinistra e attraversa un ramo del Salinello.
Qui è visibile il bivio per l’eremo di San Marco raggiungibile da esperti in dieci minuti nel bosco.
Poco dopo il bivio per San Marco, lungo il sentiero che risale la valle, troviamo sulla destra una debole traccia che sale ripida lungo un brecciaio, inoltrandosi nel bosco e raggiungendo, in venti minuti, le Torri di San Francesco e l’eremo omonimo che la leggenda vuole sia stato utilizzato dal santo di Assisi.
Risalendo alle Torri, si riprende il sentiero che dopo pochi minuti, si ricollega al tratto principale proveniente da Ripe.
Presto si scorgeranno i leggendari monconi di mura di quello che era il Castello del Re Manfredi di Svevia, in alto sul costone roccioso.
È assolutamente un luogo magico.
Se lo si vorrà raggiungere, occorrerà una buona mezz’ora e, alla fine, avrete camminato per circa due ore e mezza.
Il paese più vicino sarà Macchia da Sole, su di un antico percorso di pastori.
Dalla rocca, dista circa venti minuti.
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sabato 15 giugno 2013
Campli e Civitella del Tronto: parla la storia
Un territorio straordinario dove arte, natura, storia e religione si uniscono alla più classica delle culture gastronomiche contadine per accontentare anche il viaggiatore slow.
I segni prepotenti dell’antico nelle piccole rue, si fondono con un ambiente sontuoso!
Il netturbino, corpulento, passa a bordo della sua Ape scoppiettante.
Quando il rumore svanisce, il silenzio ripiomba sulle pietre della facciata artistica di Santa Maria in Platea fino ai mattoni dorati del cinquecentesco palazzo dei Farnese che qui hanno fatto la storia.
Alle sei del mattino comprendi meglio i gioielli celati dal borgo antico di Campli.
L’aria è frizzante, il sole è una palla rossa sulle colline che circondano l’abitato.
I legni dorati del soffitto della parrocchiale con i suoi artistici dipinti, le eleganti ogive, la misteriosa cripta affrescata, nella luce delle prime ore del giorno, acquistano una bellezza senza tempo.
Lungo il corso seguo l’itinerario classico alla scoperta della “Casa del medico” con la sua corte antica, la millenaria chiesa annessa al convento di San Francesco.
Mi immergo nella spiritualità salendo in ginocchio i 28 gradini della Scala Santa, lucrando l’identica Indulgenza di quella di Roma e Gerusalemme.
Subito dopo il panino con porchetta, vanto gastronomico del borgo, parto per un percorso alternativo alla statale che, da Teramo porta ad Ascoli Piceno e, tra campi arati, mi fermo davanti ai resti dell’antico monastero di San Bernardino, da anni oggetto di restauro infinito.
Uno dei luoghi sacri più interessanti tra quelli fondati dall’Ordine Mendicante di San Francesco, a cavallo tra il buio del Medioevo e la luce del Rinascimento.
Lungo la piana di Campovalano, lì dove furono scoperti i resti di una necropoli antica dell’età del ferro, svetta il piccolo campanile della romanica chiesa di San Pietro.
Già incombe il profilo possente della cinquecentesca fortezza borbonica di Civitella del Tronto, tra le più grandi d’Europa, strenuo baluardo degli ideali del Regno di Napoli.
Abbarbicata come edera alle vecchie abitazioni in pietra, corre sopra le chiome degli alberi e si impone come vigile sentinella dei confini settentrionali del Regno delle Due Sicilie.
Oltre l’antica porta d’ingresso, dentro le intatte mura medioevali che corrono intorno al fortino, cingendo le abitazioni aggrumate l’una all’altra, sembra essere tornati al tempo in cui la vita era regolata dalla creatività degli uomini.
La fortezza solida, un po’cupa, è uno scenario che seduce.
Sulle mura s’arrampica la luce della storia nel riflesso degli antichi camminamenti sopra ingegnose cisterne per la raccolta delle acque piovane.
Civitella del Tronto è un viaggio esaltante nel tempo.
Lungo la strada fortificata, che costeggia i muraglioni esterni, sopra i tetti delle case in pietra, si scorgono le feritoie crociate.
Le mura sembrano ancora rimbombare dell’eco di epiche battaglie.
Dalla balaustra dello sperone, osservo il volo elegante di un nibbio chiudersi a triangolo nel bosco delle gole del Salinello.
Lungo la valle che sposa il territorio marchigiano, si nota l’imponente campanile dell’abbazia benedettina di Montesanto, antico confine dello stato pontificio.
Il paese è un museo a cielo aperto che fonde strutture d’epoca romana alle case alto medioevali dagli archi a sesto acuto, i fregi in cotto.
E’ indispensabile perdersi nel labirinto degli stretti vicoli.
Allungando il collo dentro scantinati, portoni o chiese, appaiono tesori inaspettati: colonne antiche, fontane, scalinate in pietra bianca.
Dalla terrazza di Piazza Pepe si gode un paesaggio superbo.
Un incrocio di valli, le montagne gemelle e il blu del mare Adriatico.
Il campanile del convento di Santa Maria dei Lumi, fuori il paese, batte l’ora media.
Fu proprio lì che la Vergine, a cui si attribuiscono molti miracoli, apparve tra miriadi di fiammelle danzanti.
Un paesaggio d’altri tempi.
Vigne, crinali, campi arati, strade, siepi. Lande verdi dove un tempo si registravano le scorribande dei briganti, lo stanco incedere dei pellegrini, lo speranzoso cammino dei commercianti del sale e delle lane.
Geografie minute che si legano alle vicende storiche di secoli.
Dopo un sontuoso piatto di “ceppe” al sugo di castrato e una porzione di “pollo alla franceschiella”, diventa forte il bisogno di un tuffo nella natura più selvaggia.
Nella vicina Ripe, la vita frenetica lascia posto a sensazioni desuete.
Il fiume Salinello, nella parte più selvaggia del suo corso dove si incunea spumeggiante in un canyon, sembra parlare.
Lo scorrere del fiume, qui ancora giovane e bizzoso, dà vita ad un ambiente straordinario ricco di giochi d’acqua che confluiscono nello spettacolare salto della cascata de “lu Caccame”.
E’ tra gli anfratti di quella spugna di roccia che è l’arenaria della Laga che il fiume, difficile da contenere, si prende le ultime soddisfazioni prima di precipitare in Val Vibrata, sfaldandosi in rivoli nel mare Adriatico.
All’interno di queste gole, s’incontrano eremi nell’arenaria bucata dal lavorio incessante delle piogge.
Oggi le grotte fanno di questo luogo un unicum di grande interesse antropologico con testimonianze dell’età del bronzo e del neolitico.
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I segni prepotenti dell’antico nelle piccole rue, si fondono con un ambiente sontuoso!
Il netturbino, corpulento, passa a bordo della sua Ape scoppiettante.
Quando il rumore svanisce, il silenzio ripiomba sulle pietre della facciata artistica di Santa Maria in Platea fino ai mattoni dorati del cinquecentesco palazzo dei Farnese che qui hanno fatto la storia.
Alle sei del mattino comprendi meglio i gioielli celati dal borgo antico di Campli.
L’aria è frizzante, il sole è una palla rossa sulle colline che circondano l’abitato.
I legni dorati del soffitto della parrocchiale con i suoi artistici dipinti, le eleganti ogive, la misteriosa cripta affrescata, nella luce delle prime ore del giorno, acquistano una bellezza senza tempo.
Lungo il corso seguo l’itinerario classico alla scoperta della “Casa del medico” con la sua corte antica, la millenaria chiesa annessa al convento di San Francesco.
Mi immergo nella spiritualità salendo in ginocchio i 28 gradini della Scala Santa, lucrando l’identica Indulgenza di quella di Roma e Gerusalemme.
Subito dopo il panino con porchetta, vanto gastronomico del borgo, parto per un percorso alternativo alla statale che, da Teramo porta ad Ascoli Piceno e, tra campi arati, mi fermo davanti ai resti dell’antico monastero di San Bernardino, da anni oggetto di restauro infinito.
Uno dei luoghi sacri più interessanti tra quelli fondati dall’Ordine Mendicante di San Francesco, a cavallo tra il buio del Medioevo e la luce del Rinascimento.
Lungo la piana di Campovalano, lì dove furono scoperti i resti di una necropoli antica dell’età del ferro, svetta il piccolo campanile della romanica chiesa di San Pietro.
Già incombe il profilo possente della cinquecentesca fortezza borbonica di Civitella del Tronto, tra le più grandi d’Europa, strenuo baluardo degli ideali del Regno di Napoli.
Abbarbicata come edera alle vecchie abitazioni in pietra, corre sopra le chiome degli alberi e si impone come vigile sentinella dei confini settentrionali del Regno delle Due Sicilie.
Oltre l’antica porta d’ingresso, dentro le intatte mura medioevali che corrono intorno al fortino, cingendo le abitazioni aggrumate l’una all’altra, sembra essere tornati al tempo in cui la vita era regolata dalla creatività degli uomini.
La fortezza solida, un po’cupa, è uno scenario che seduce.
Sulle mura s’arrampica la luce della storia nel riflesso degli antichi camminamenti sopra ingegnose cisterne per la raccolta delle acque piovane.
Civitella del Tronto è un viaggio esaltante nel tempo.
Lungo la strada fortificata, che costeggia i muraglioni esterni, sopra i tetti delle case in pietra, si scorgono le feritoie crociate.
Le mura sembrano ancora rimbombare dell’eco di epiche battaglie.
Dalla balaustra dello sperone, osservo il volo elegante di un nibbio chiudersi a triangolo nel bosco delle gole del Salinello.
Lungo la valle che sposa il territorio marchigiano, si nota l’imponente campanile dell’abbazia benedettina di Montesanto, antico confine dello stato pontificio.
Il paese è un museo a cielo aperto che fonde strutture d’epoca romana alle case alto medioevali dagli archi a sesto acuto, i fregi in cotto.
E’ indispensabile perdersi nel labirinto degli stretti vicoli.
Allungando il collo dentro scantinati, portoni o chiese, appaiono tesori inaspettati: colonne antiche, fontane, scalinate in pietra bianca.
Dalla terrazza di Piazza Pepe si gode un paesaggio superbo.
Un incrocio di valli, le montagne gemelle e il blu del mare Adriatico.
Il campanile del convento di Santa Maria dei Lumi, fuori il paese, batte l’ora media.
Fu proprio lì che la Vergine, a cui si attribuiscono molti miracoli, apparve tra miriadi di fiammelle danzanti.
Un paesaggio d’altri tempi.
Vigne, crinali, campi arati, strade, siepi. Lande verdi dove un tempo si registravano le scorribande dei briganti, lo stanco incedere dei pellegrini, lo speranzoso cammino dei commercianti del sale e delle lane.
Geografie minute che si legano alle vicende storiche di secoli.
Dopo un sontuoso piatto di “ceppe” al sugo di castrato e una porzione di “pollo alla franceschiella”, diventa forte il bisogno di un tuffo nella natura più selvaggia.
Nella vicina Ripe, la vita frenetica lascia posto a sensazioni desuete.
Il fiume Salinello, nella parte più selvaggia del suo corso dove si incunea spumeggiante in un canyon, sembra parlare.
Lo scorrere del fiume, qui ancora giovane e bizzoso, dà vita ad un ambiente straordinario ricco di giochi d’acqua che confluiscono nello spettacolare salto della cascata de “lu Caccame”.
E’ tra gli anfratti di quella spugna di roccia che è l’arenaria della Laga che il fiume, difficile da contenere, si prende le ultime soddisfazioni prima di precipitare in Val Vibrata, sfaldandosi in rivoli nel mare Adriatico.
All’interno di queste gole, s’incontrano eremi nell’arenaria bucata dal lavorio incessante delle piogge.
Oggi le grotte fanno di questo luogo un unicum di grande interesse antropologico con testimonianze dell’età del bronzo e del neolitico.
Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".
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