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venerdì 10 maggio 2013

La valle del povero cristiano! Tra religione e natura.

“Se anche cantassi come gli angeli, ma non amassi il canto, non faresti altro che render sordi gli uomini alle voci del giorno e della notte”.
(Kalhil Gibran da Il Profeta)

I Vangeli spesso presentano Gesù ritirato in preghiera non in piazza, né all’angolo di una strada, ma in luoghi appartati, solitari, a volte in mezzo ad aspre montagne.

Questo dovrebbe farci riflettere su quanto sia necessario per ognuno di noi trovare il tempo ma anche il luogo adatto per dialogare con Dio.

Probabilmente ne erano convinti i tanti eremiti che sceglievano di isolarsi, per lunghi anni, in luoghi impervi e spopolati.
Pensavano i poverini che il mondo fosse un ostacolo sulla via della perfezione.
Mi pare fosse stato San Paolo di Tebe, morto nel 250 d.C., il primo anacoreta che la cristianità ricordi.

La valle del fiume Orfento, nel cuore del versante nord occidentale della Majella, è un infinito paesaggio dell’anima che invita a coltivare il giusto atteggiamento spirituale.
Un luogo che come pochi riesce a generare innumerevoli sentimenti, dall’entusiasmo, alla serenità, dall’armonia all’inquietudine.
È un posto dove ascolti solo il canto degli uccelli e il sommesso parlare delle acque incassate tra le rocce.

Dalla dorsale più elevata del massiccio che collega il Blockhaus con il monte Focalone, i Tre Portoni e la cima di Pescofalcone, c’è un solco gigantesco che scende in picchiata dai 2676 metri fino ai 600 del centro termale di Caramanico, tra fitte faggete e acqua scrosciante.
Ci troviamo davanti a un mondo popolato da lupi, cervi, orsi e aquile.
In mezzo a questo severo ambiente, tra rocce dalle forme curiose, si trovano i segni indelebili di una vita religiosa, intensa e ascetica.

Eremi a volte difficilmente accessibili, chiesine rupestri e sentieri un tempo percorsi da monaci e pellegrini, raccontano ancora di luoghi mistici, lì dove la religiosità popolare, dettata anche da figure imponenti come quella del piccolo frate, Pietro da Morrone, diventa valore aggiunto del turismo naturalistico.

L’eremo di Santo Spirito, situato in località Roccamorice, è sicuramente il più grande e famoso.

L’antico monastero rappresenta sicuramente quello che non si dovrebbe mai fare giacché ha subito, nel corso dei secoli, tante improvvide trasformazioni perdendo il profondo fascino che trasmette altri romitaggi.
In più ci si arriva in macchina e questo fa perdere un po’ di misticismo, ma il contesto in cui giace è qualcosa d’inspiegabile.
Non si può descrivere con la penna.
 Dovete arrivarci!

Nella valle poi è possibile raggiungere tuguri dall’enorme valore religioso e antropologico come quelli dedicati a San Giovanni, Sant’Onofrio e San Bartolomeo, situati su aspre pareti.
Luoghi rimasti del tutto intatti nei secoli.

Sono le memorie viventi degli antichi ripari di religiosi, pastori e carbonai, incastonati in spettacolari spaccature della roccia, linfa vitale di antiche leggende che raccontano di sette eremiti fratelli che si divisero gli anfratti più reconditi della valle.

Santo Spirito a Majella riesce comunque ancora a regalare le infinite sensazioni che colpirono il grande poeta Francesco Petrarca.

L’insigne toscano, nel suo trattato morale del “De vita solitaria”, definì pomposamente questo luogo, “la casa del Cristo”.
Dovette trovarsi a suo agio anche Celestino V, al secolo Pietro da Morrone, unico papa che, nella storia
millenaria degli eredi di San Pietro, ebbe il coraggio di abdicare.
L’infelice frate patì la condanna del sommo poeta Dante, che nel terzo canto dell’Inferno, impietosamente lo collocò tra i dannati, responsabile com’era del “grande rifiuto”.
Vi giunse nel 1246, rimanendovi per oltre quarantacinque anni.

Che personaggio per l’immaginario collettivo quello del papa eremita che morì povero e reietto nel castello di Fumone di Frosinone, imprigionato dal perfido successore, Bonifacio VIII.
Un quasi martirio il suo, volto a render chiaro a tutti noi che l’unica cosa importante è la vita eterna e non i beni e i poteri di questa misera terra.

Dovremmo leggere con attenzione l’opera del grande Ignazio Silone che ne “L’avventura di un povero cristiano”, tratteggiò sontuosamente l’esperienza di Celestino.

Nel 1300 il monastero fu abbandonato e solo nel 1586, grazie ad un religioso intraprendente, Pietro Cantucci da Manfredonia, la vita contemplativa tornò a fiorire.

Il monaco fece costruire una sorta di Scala Santa, scavando prodigiosamente la fiancata del monte sovrastante, che porta all’oratorio dedicato a Santa Maria Maddalena.
In seguito sorse anche l’attuale foresteria.

Per seguire le tracce di quest’antica vita religiosa, basta armarsi di scarpe buone e farsi vincere dal desiderio di conoscenza che mai dovrebbe mancare in ognuno di noi.

“L’ora più solare per me, quella che più mi prende il corpo, quella che più mi prende la mente, quella che più mi perdona, è quando tu mi parli”. (Alda Merini)

Per la valle dell'Orfento percorrere l'A25 Roma -Pescara, uscita Scafa. Poi S.S.487.

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