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martedì 23 dicembre 2014

Pietracamela, il paese che resiste!

Sulla panchina della piccola piazza di Pietracamela mi godo aria e panorama.
Nel silenzio sento gorgogliare il fiume.
All'improvviso mi sfreccia davanti una volpe. Attraversa la strada, si rifugia dietro una roccia della piccola cascata sul primo tornante per i Prati di Tivo.

Corre con una tale furia che le zampe si disarticolano creando una sorta di cartoon Disney.
Infine fugge definitivamente risalendo la piccola china con la coda dritta, vaporosa che pare il pennacchio di un antico principe.
Un sorriso che attenua la stretta al cuore.

È ridotta male l’antica “Petra” e “Cameria”, perla del teramano, nel cuore dell’antica via Cecilia, costruita molto prima di Cristo.
Il villaggio da fiaba di un tempo, con il suo tessuto urbano singolare, a intrecciare chiese, campanili a vele, fondaci ricavati dalla roccia e palazzotti vecchi come Noè, soffre ancora e terribilmente, i disastri del sisma del 2009.

La fiaba non ha avuto un lieto fine.
La magia si è trasformata in un maleficio.
Se il paese avesse un’anima urlerebbe all'infinito il suo dolore.

Sono ormai una manciata gli abitanti che osano continuare a sfidare gli elementi naturali.
Se ci si mettesse a contarli questi intrepidi non arriveresti a cinquanta.
Fin quando però dai comignoli vedremo uscire volute continue di fumo, il paese vivrà.
Quello è il segnale che qualche custode vigila e veglia.
Tutto si sta accanendo da anni contro questo splendido abitato.

Le viscere delle guglie dei Corni hanno traballato per la violenza di una faglia mortale; la pioggia ha fatto venire giù pietre e fango, coprendo parte dell’incantevole sentiero che porta ai Prati di Tivo.
Il paese di pietra muore e tutti recitano il “de profundis”.

Secondo i censimenti negli anni ’30 qui si era in circa duemila anime, negli anni ’90 si scese a duecento.
Oggi sono una manciata di volti.
La nascita di un bambino, da queste parti, sarebbe un evento storico. Lo sarebbero ancor più delle nozze.
Oggi, fuori stagione, si fatica a scambiar chiacchiere. Ci sono rimasti solo una teoria di solidi tronchi a emanare un balsamo di resina corroborante.
Questo è un paradiso in terra, immerso nella quiete dei boschi di faggio, tra le possenti rocce del Gran Sasso.

Per rivitalizzarlo tutti si inventano ricette.
Da anni si parla di trenini a cremagliera che salgono montagne attraverso sterrate da Forca di Valle da rendere fruibili, o tunnel foranti i monti. I progetti sono solo sogni!

Le poche persone rimaste, però, ne vanno fiere.
Gli uomini e le donne di montagna sono aggrappati alle loro realtà come licheni che si adattano a ogni circostanza.
A Natale, però, insieme al Bambino Gesù, rinasce anche questo piccolo borgo che si riempie di turisti e familiari in festa.

Luogo storico dell’Abruzzo Ultra durante il Regno di Napoli apparteneva nel secolo XII al feudo della Valle Siciliana di proprietà dei Conti di Pagliara.
In seguito passò ai Conti Orsini che furono padroni sotto Angioini e Aragonesi fino a che Carlo V nel 1526 lo consegnò al marchese Mendoza fino all'abolizione della feudalità.
Qui un tempo si lavoravano i metalli, si batteva il rame, si pettinava la lana.
I cardatori del paese erano famosi fino in Toscana e nell'Emilia.

Erano famosi anche i “sediai” che usavano materie prime locali, legno di faggio e paglia e i “casari” che, con sapienza, bollivano il latte della munta per porlo nelle “fuscielle”.
La crisi cominciò a mordere sin dalle ultime battute dell’ottocento.
La pastorizia transumante fu decimata dal progresso verso le zone di mare, da tasse e balzelli vergognosi e dalla progressiva messa in coltura delle distese pugliesi del Tavoliere.
Un esodo biblico portò i pretaroli verso gli States, l’Argentina, l’Australia. I più fortunati emigrarono nel Lazio.

A Pietracamela, sono tanti i gioielli: il piccolo portale di San Giovanni, il campanile a vela, la meridiana e l’orologio, la chiesa di San Rocco, la casa de “li Signuritte” con le bifore del 400, lo stemma civico cinquecentesco, la piazza Cola da Rienzo cui sembra che il paese abbia dato i natali, la parrocchiale di San Leucio, l’antico vescovo di Alessandria.

Ginetta, quasi novantenne, se ne sta seduta sulla panchina con il ghigno di chi si chiede cosa ci faccia da quelle parti.

Sul suo volto brillano due occhi astuti, dallo sguardo ancora acuminato come lama di stiletto.


I corvi, intanto, tra gli inestricabili intrecci di rami sotto la piazza, rompono il silenzio con i loro versi strazianti.
I cra cra sono l’uno in sintonia con gli altri.
La vecchina con la voce stridula, scacciando una mosca inopportuna dal viso, mi dice: “O Rufflè mè, - che significa ragazzo mio - qui ci sta cchiù corvi che ommini”.

Anche se qui venissero cento cataclismi, lei sarebbe sull'uscio della sua casa ad attenderli.
Perché è una “pretarola” e di quelle che se ne infischiano delle rilevazioni demografiche che indicano un paese che muore.

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