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giovedì 21 febbraio 2013

Geografie dell'abbandono: Masseri!

Non avete idea di come sia sufficiente spostarsi di pochi chilometri a monte di Teramo per scoprire cose del passato belle da raccontare.
“Ghost cities”, così li chiamano quei paesi che vengono abbandonati a causa di eventi naturali, come colate laviche, alluvioni, terremoti o perché la principale o unica fonte di reddito e di lavoro scompare.

Chi non ha mai sentito parlare delle ghost town del far west americano o quelle dell'entro terra australiane, ricche di un particolare fascino?

Ebbene di questi luoghi magici ce ne sono a bizzeffe anche in Italia.

Alcune amministrazioni, insieme a privati si stanno attivando per salvarli o, addirittura, ridare loro nuova vita.

Le città fantasma nostrane sono sparse un po' in tutta la penisola, ma le regioni che ne contano di più sono quelle meridionali.
Qui da noi ce ne sono e non soltanto in montagna.
E’ il caso di Masseri, o di quel che rimane di un antico borgo sventurato sulle colline spartiacque di Teramo e Campli.

Le case di questo antico borgo, in parte squarciate dal terremoto del ’50, ebbero il colpo di grazia in una frana di pochi anni dopo, che decretò la fine del paese e dei suoi abitanti.

Sonia Celii Jotterand è una bella donna che oggi vive in Svizzera.
Le sue origini, le sue radici più intime sono nel ricordo di questo paese che non c’è più.

Sentite la storia d’amore che starebbe bene in uno dei libri di Liala.

Il nonno di lei andò a vivere in questo sperduto villaggio teramano, per amore.
La suocera, Giovanna Romantini, si era sposata lì vivendoci tutta la sua esistenza.
Il giovane nel ’40 fu fatto prigioniero in Libia, trattenuto in Inghilterra fino al 1946, e quando riuscì a tornare a casa conobbe il figlio, futuro padre di Sonia, che aveva già sei anni.

Allora, mi raccontò in e-mail la donna, erano solamente diciotto le famiglie, prete incluso.
C’erano i Bianconi, i Baldassarri, i bisnonni Paolizzi, i Pucci, i De Santis.
Molti si ricordavano per i loro soprannomi, perché tutti ne avevano.

I De Santis erano i benestanti della comunità. La piccola chiesa, la scuola, erano di loro proprietà, lascito antico della ricchissima famiglia Palma, da cui nacque il famoso storico teramano.

Quando giunsi ai ruderi di Masseri li trovai quasi mimetizzati tra impervi sentieri che morivano al cospetto di fitti querceti e scampanii di pecore a bucare il silenzio dell’abbandono.

Rimasi affascinato all’idea che le pietre mute avessero conosciuto tempi in cui si mangiava pane e lenticchia, polenta al sugo, qualche fico selvaggio in estate e le castagne in autunno.

Tempi duri quando, nei piccoli borghi e non solo del teramano, il prete era anche il medico e ti propinava, in caso di malattia, infusi di erbe e poi sacramenti.

Questi luoghi persi tra le sterpaglie sono paragonabili a formicai perduti.


Mentre ero intento a perlustrare i tetti in parte caduti, stando attento a non farmi crollare qualche pietra addosso, incontrai Mimì.
Non sapevo di certo chi fosse.
Lo vidi chino, che cercava le lumache uscite fuori dopo l’abbondante pioggia dei giorni prima.

Si aggirava tra un cortiletto e una stradina sghemba di quello che era il paese, mentre i raggi del sole s’ insinuavano tra i vicoli.
Sembrava muoversi come una lucertola a cui hanno mozzato la coda, ombra di un mondo che non c’è più.
Il suo botolo lo seguiva, fedele, a ruota.

Il fisico ancora asciutto, gli occhi di un nero ardente, cappello a visiera e bastone per deambulare con sicurezza.
Quel pezzo di legno, di lì a qualche minuto, roteò nervosamente al cielo.
D’improvviso, drammatica, era montata la rabbia dell’uomo.

“Sti disgraziati hanno lasciato che tutto venisse giù”!
Fu questa la risposta alla mia domanda sul perché ci fosse un simile abbandono.
Mimì alzò la voce di molti decibel, nonostante io fossi accanto a lui, pronto ad ascoltarlo.
La voce stridula non facilitava la comprensione.

Raccontò di aver vissuto la sua giovinezza in una casa colonica non lontana da dove i figli avevano costruito un bel villino per loro e il genitore superstite.

“Meglio che vivere in una pinciara - mi disse il vecchio - come è accaduto a mia madre e mio padre”.
Erano questi manufatti le famose case a un solo piano fatte di argilla mista a paglia.

Un solo piano, una sola stanza che serviva da cucina, camera da letto e un ripostiglio dove prendeva dimora spesso una piccola capretta o qualche coniglio.
Abitazioni molto più resistenti all’acqua piovana e ai terremoti di quelle costruite oggi da delinquenti in cerca di facili guadagni.

L’infanzia di Mimì si era svolta nella casa colonica a due piani dove, a terra, c’era la stalla con buoi e mangiatoia e, al primo alla fine di una piccola scalinata, una cucina con un camino enorme e due piccoli rinsacchi per camere da letto.

Il mio loquace interlocutore ricordava perfettamente che intorno al fuoco, seduto su di uno sgabello ascoltava le favole del nonno che popolavano il suo mondo di maghi, streghe, lupi mannari, orchi di ogni genere.

I personaggi fantastici che preferiva erano i vispi “mazzmarill”, che si muovevano pur rimanendo con i piedi incollati al terreno, contorcendosi e fissando i malcapitati con due occhi troppo grandi per il piccolo viso.

Mimì bambino, se l’immaginava vestiti come i personaggi delle leggende quattrocentesche, che si muovevano roteando assurdamente fianchi e manine, emettendo striduli urletti.

Ascoltando le sue parole, trovai, di colpo, incomprensibile il perché dell’abbandono di questi luoghi magici.

Non è facile arrendersi alla fuga degli uomini e al disfacimento di queste chiocciole di pietra che in mezzo a lastroni di arenaria a volte evocano i menhir di Stonehenge.
Quando lasciai il vecchio a continuare la ricerca delle lumache, fui preso da infinita nostalgia.

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