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martedì 22 marzo 2016

Il tesoro nascosto tra i monti: Macchia da Sole e Macchia da Borea

(Liberamente tratto dal mio ultimo libro: Kalipè, il mio passo libero)

“Dando che si riceve; Perdonando che si è perdonati; Morendo, che si risuscita a Vita Eterna” (Da Preghiera semplice di San Francesco)

Da piccolo sognavo di fare l’archeologo.
Mio nonno era proprietario di qualche ettaro di terra, lì dove oggi sorge un elegante centro di accoglienza per anziani a Teramo. Mi divertivo, mentre lui zappava sotto il sole, a immaginarmi novello Indiana Jones che scavava senza posa fino al centro della terra per trovare tracce di secolari civiltà.
Le mie unghia, annerite dalle zolle umide, pensavo potessero bucare la terra senza apparente sforzo, alla ricerca di mille tesori custoditi nel buio delle viscere del mondo.
Mio nonno Salvatore ci metteva del suo raccontandomi che, in un paese fantastico sperduto tra i monti, di nome Macchia da Sole, chiamato così perché l’astro luminoso spesso lo colpisce solo marginalmente, lui da giovane aveva esplorato una grotta, trovando antichi sesterzi romani. Il mio vecchio forse scherzava oppure aveva in effetti scavato chilometri di fango per trovare il nulla, dato che è morto in disarmante povertà. La nonna Maddalena, che non mancava mai di contraddire il coniuge, mi diceva che i tesori si trovano in banca e beato chi ce l’ha. Sicuramente non ne aveva chi continuava a zappar terra e far di bicchieri la sera in osteria. Ma il buon Salvatore ripeteva a me e se stesso che un uomo non si misura dai soldi e i sogni sono la cosa più preziosa della vita.
Mi parve strano trovarmi a pochi passi da quel paese che da bimbo immaginavo pieno di vita e che era invece quasi deserto nelle sue poche abitazioni.
Parlo di uno di quegli abitati a ridosso di cime sconosciute ai più che raccontano, mirabilmente, un Italia minore tra tetti con soffitti in legno, cibi e piatti di tradizione, minuscole piazze d’incontri e piccole botteghe ormai quasi scomparse di scalpellini, intagliatori e ramai. Questo era il punto di ristoro dove i pastori sostavano nei trasferimenti. Qui un tempo anche le pietre belavano.
Terra di passaggio, l’Italia di mezzo, quella della perduta identità, ma anche quella che può render felici coloro che cercano, nei viaggi, il lato più poetico e romantico.

A Macchia da Borea, proprio di fronte, lì sul costone dove non batte mai il sole, ebbi la sensazione di entrare nella storia, di respirare l’umidità dei vecchi muri screziati dal tempo, di percepire gli odori delle greggi al pascolo, di cogliere il profumo di pioggia nel bosco. Con la fantasia qui li potresti vedere ancora gli uomini rudi che partono con le bestie, le donne vestite di nero, i vecchi sugli usci delle case a mangiar pane e formaggio con la zappa appoggiata sulla parete a fianco.
A Borea gli abitanti si contavano sulla punta delle dita. Un tempo si era convinti che da questa parte della valle, più fredda e inospitale perché battuta dai venti del nord, vi abitassero i meno fortunati. Secondo una vecchina da me interpellata, per secoli a Macchia da Sole hanno vissuto i cattivi e qui a Borea i più buoni. In realtà per tantissimi anni gli abitanti delle due frazioni si sono guardati in cagnesco.

Il mio trekking attraverso i monti Gemelli e la Laga nord passava per i ruderi dell’antico castello del re Manfredi.
Alzai tenda proprio in quella che era Piazza d’armi, delimitata da cinque mozziconi di colonne di pietra che, nelle lunghe ombre del tramonto paiono sinistri gendarmi ciondolanti.
Ripensai alla mia giornata esaltante.
Era stato bellissimo guardare, in fondo al cuneo, che si stringe tra i resti della rocca e le gole sottostanti, l “Hadriaticum Mare” già annotato nelle prime carte geografiche, sulla sesta Tabula di Tolomeo e menzionato da Eratostene. Qui passavano le vie del sale, del grano, dell’olio, del vino e Dio solo sa quanti altri commerci preziosi di spezie e seta, ambra e oro. Il nostro mare e le nostre montagne potrebbero raccontare le storie di migliaia di fortunati imperi. Nel Nuovo Testamento ai capitoli 27 e 28 si racconta di una distesa d’acqua molto più estesa dell’attuale Adriatico, che arrivava fino a Creta verso oriente e in Sicilia a occidente, toccando Tunisia e Malta. Lo Ionio era addirittura un golfo e Ancona era uno dei porti principali non meno importante di Alessandria e del Pireo. Anche lì c’era una montagna, il Conero marchigiano, in simbiosi con il mare.
Nel profondo delle gole del Salinello, tra le boscose viscere di uno degli scenari più insoliti della dorsale appenninica, avevo camminato in mezzo a due vertiginose pareti, alte svariati metri, circondato da una straordinaria natura. Di tanto in tanto, tra gli angusti spazi che sembravano stringere fino a soffocarti, si aprivano spiazzi erbosi tra alberi che lasciavano a terra i loro semi, felci ai bordi del tumultuoso corso d’acqua, biancospini, ginestre e cicoriette di montagna, quelle del sapore vagamente acidulo e triste.
La fantasia mi riportava a figure lontane che rimbalzavano da una parte all'altra del cuneo profondo segnato dal fiume, cavalcando un eco senza fine.
Era come se mi fossi trovato a percorrere un enorme corridoio che si addentrava all'interno di una roccia gigantesca.
Il luogo mi attraeva irrimediabilmente, mi lasciava sensazioni di smarrimento. Erano infinite le storie di maghi, mostri, negromanti e fattucchiere che si raccontavano di questo luogo. Gli eremi che costellano le pareti, le antiche e paurose leggende dettate da anacoreti e santi non lasciano mai indifferenti.
Qui, secondo una delle tante storie nate da tradizioni orali, era passato anche San Francesco, il mio Poverello d’Assisi. Dopo essere stato a far da paciere a Isola del Gran Sasso, per due nobili famiglie in guerra a causa di un matrimonio fallito tra due rampolli del casato, il serafico Padre stava attraversando gli Appennini, e pare che ebbe un incontro disastroso con Satana. Il principe del male lo attendeva nel fitto delle gole, lì dove c’era l’eremo di Santa Maria Scalena, desideroso di farlo precipitare tra gli anfratti di roccia per ucciderlo. Gli aveva portato via troppe anime con quella sua assurda santità! Neanche a dirlo, Francesco riuscì ad avere la meglio sul diavolo, grazie all'aiuto celeste. Della storia rimarrebbe una roccia, con sopra impressa la zampa adunca del satanasso mentre cercava di non precipitare negli inferi, attraverso lo stretto della gola del Salinello.
Leggende a parte, questo luogo è un contesto di culto della terra e dell’acqua, un percorso sacro che lascia strabiliati. Chi vi si addentra è come se scendesse nel cuore di Madre Terra, sconfiggendo la paura della morte. È il sentirsi piccoli di fronte all'immensità.
Ero entrato nella grotta di S. Angelo, dedicata al culto del santo amato dai Longobardi, San Michele, dove avevo trovato strani segni per terra e qualche ossa di animale sistemate in strane posizioni. Un naturalista, innamorato di questi luoghi sosteneva, tempo fa, che qui si perpetravano riti satanici da molti anni.
L’uomo avrebbe visto ripetutamente, strani movimenti di gente dalla testa rapata. In paese a Ripe di Civitella del Tronto, sia il parroco che i politici avevano sempre minimizzato questa che ormai rappresentava una realtà indubitabile.

Perso nei miei pensieri, iniziai a salire in doppia corda nell'antro di Santa Maria a Scalena, forse il buco più denso di misticismo. Fremevo pensando che questa cavità naturale aveva offerto nuda ospitalità a molti asceti. La grotta era a picco sulle impressionanti gole del Salinello.
Potete immaginare come sia rimasto nel vedere che qualche idiota era arrivato in questa posizione disagevole, solo per imbrattare i muri con bombolette spray, di svastiche, croci uncinate e bestemmie. Come si fa? Si dovrebbe provare un profondo rispetto per questo luogo.
Vidi la minuscola cisterna per la raccolta dell’acqua, il piccolo altare non era stato profanato per fortuna. Riuscivo quasi a scorgere dalla finestrella naturale nella roccia, il mucchio di rovi che copriva, sulla parete opposta, l’eremo di San Marco. Più avanti, pensai, sarebbe da visitare anche San Francesco alle Scalelle.

Mi ricordai di una dolce eremita, la fanciulla Santa Colomba, contessa di Pagliara nata nel 1100 e vissuta solo un pugno di anni. Era sorella di Berardo, santo e patrono della mia Teramo. Avevo visitato anche quel suo eremo, abbarbicato sullo sperone di una roccia, verso la vetta del monte Infornace nel Gran Sasso, sopra Isola, con una vista impressionante sulla vallata del Vomano. Anche lì avevo meditato come due ricchi avevano abbandonato, con coraggio, gli agi per abbracciare la dimensione della preghiera e far tacere il rumore del mondo. Berardo, poi, aveva anche trascorso una parte dei suoi giorni nel meraviglioso complesso di Santa Maria in Venere, affacciato sul golfo di Fossacesia, nel chietino, zona costa dei Trabocchi. Non mancava anche allora la leggenda. Tra i fatti miracolosi della santa c’era la famosa impronta della mano impressa su di una roccia lungo il sentiero impervio e quella del suo pettine incisa su di una roccia.
Non ho mai creduto a queste storie amene e neanche pensavo lontanamente che qui nel profondo del Salinello, fosse passato San Francesco per combattere contro il diavolo che da queste parti, secondo la tradizione popolare, vagava spesso alla ricerca di anime. Né tanto meno pensavo fosse vero che si possano trovare carrozze d’oro o tesori abbandonati da chissà quali sovrani e sorvegliati da giganti tenebrosi, ma l’aria che si respirava sembrava intensa di anime.
Intorno a me c’erano pareti di roccia inaccessibile, dove nidificavano le aquile. Mi sentivo parte della natura. Capivo come potesse sentirsi così il mio serafico Padre Francesco.
Questa sensazione era chiara per tutto il sinuoso percorso che dalla fantastica cascata de “lu Caccame” tra curve e rettilinei in un intreccio di felci, minuscoli bonsai naturali, muschi e rovi, mi portò fino alle pietre senza tempo di Castel Manfrino.
Per anni tanti illusi hanno scavato nel miraggio di trovare preziosi ma nessuno ha scovato niente, a parte qualche coccio antico e ossa umane. Qui sono solo i sogni a brillare come oro.
Di resti umani ce n’erano e non tutti, credo, fossero molto antichi.
Secondo alcuni vecchi da me ascoltati, un giorno un tizio si era imbattuto in un cranio con un po’ di pelle ancora attaccata come in macelleria ma in paese non hanno minimamente dato credito a questa storia. L’uomo, secondo alcuni suoi conoscenti non distinguerebbe una testa di uomo da una di volpe! Qualcuno ha favoleggiato, comunque, di omicidi o cos'altro. L’uomo spaventato avrebbe preso la scatola cranica, buttandola nel precipizio delle gole.
La verità, amici miei, è che se non si trova il tesoro, si cerca di trovare un po’ del marcio che è dentro di noi per buttarlo via.

Eppure la vita è un vero privilegio. Chi può abbattere le altezze delle montagne? Chi può pretendere di fermare il cammino delle stelle. Lasciare che le cose vivano, ecco la fonte della Perfetta Letizia, del mio Francesco! Rispettare le cose piccole, tanto le grandi sanno farsi rispettare da sole!

“Com'era bello, splendido, glorioso nella sua innocenza, nella semplicità del parlare, nella purezza di cuore, nell'amore di Dio, nella carità verso i fratelli, nella prontezza dell’obbedienza, nella dolcezza dei modi, nell'aspetto angelico”. (Celano Vita Prima di San Francesco, 83)


Per arrivare nel Distretto "Due Regni" del Parco Nazionale Monti della Laga e Gran Sasso:
Autostrada A14 Bo Ta, uscita Val Vibrata, seguire indicazioni per Campli, Campovalano, Macchia da Sole e Leofara.

Per chi viene da Roma: A 24 fino a Teramo, poi S.S.81 per Ascoli Piceno. Campovalano e svolta per Macchia da Sole e Leofara.

Oltre a visitare gli affascinanti resti del Castello di Manfredi, nei dintorni di Leofara, oltre ai boschi di castagno, vi sono alcuni paesi abbandonati raggiungibili a piedi: è il caso dell'affascinante Laturo, Settecerri (ristrutturato in parte ma non abitato d'inverno), Valle Pezzata, in parte ristrutturato. Vi sono poi i borghi di Vallenquina, Macchia da Sole e Macchia da Borea raggiungibili in automobile.
Si mangiano tagliatelle ai porcini nel piccolo albergo di Macchia da Sole.

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