Cerca nel blog

martedì 27 gennaio 2015

Cellino Attanasio: Nel feudo degli Acquaviva

Viaggio nella bellezza della normalità di Cellino Attanasio, tra arte, storia e cornici naturali

 Grazie a Eleonora Luciani per le sue foto

La barbetta da fauno dell’uomo di mezza età si sporge dal belvedere su un finimondo di colline simili a un mare reso pazzo da improvvisi cambi di vento.

La distesa di gobbe gialle di stoppie e verde di prati era difficile da rendere più bella.


Eppure dal medioevo l’uomo c’è riuscito, rivestendo il cocuzzolo dell’altura più pronunciata con il borgo incastellato di Cellino Attanasio, arrampicato proprio in cima al colle.

Qui l’armonia delle testimonianze artistiche e monumentali sono immerse nel silenzio della campagna.
Eppure, quando il vento soffia dalla costa rosetana, senti il respiro della terra.
Nell'aria frizzante dell’autunno, le narici percepiscono quasi come voce, l’umore asprigno delle viti che emana dalla bella campagna cellinese.
Questa è la culla ideale per vini, oli, frutta e ortaggi che contribuiscono a sviluppare una cucina tradizionale sapida, gustosa e varia.
Il tizio silenzioso sembra guardare giù verso una delle tante distese dove si muovono lentamente punti bianchi di pecore accompagnate dallo scampanio dei cani pastore.
Il mare vero c’è, quello Adriatico è poco più giù.
Da questa sommità si gode uno spettacolo.
Le colline ammantano Cellino delle tinte di stagione sapientemente dosate da un grande Creatore: gialle in estate, scure in autunno dopo l’aratura, bianche d’inverno per la neve e verdissime in primavera.

Il paese spicca come diadema.
Lo potete immaginare dalle belle foto di Eleonora Luciani, una ragazza che ama la fotografia e il suo paese profondamente anche se dice: “Da noi non succede mai nulla ….”.
Qui diventa lampante come la conservazione di una bella Italia dipenda dalla volontà precisa dei suoi abitanti.

Anche al viaggiatore più distratto non può sfuggire la suggestione di quest’antico villaggio.
Le colline dai rigogliosi pergolati di viti contribuiscono non poco a completare l’immagine della cinta turrita.
La possente torre è l’avamposto di un mondo, dove ogni pietra racconta storie antiche.
Il manufatto cilindrico in laterizio, dai merli guelfi purtroppo non originali che si rincorrono uno dopo l’altro, domina il paesaggio.
Alcuni monconi di mura di una seconda torre sono ciò che resta della fantastica cortina muraria innalzata dopo che l’antico feudo degli Acquaviva fu piegato nel tardo quattrocento, cadendo sotto i colpi di maglio di un assedio senza precedenti.
Matteo di Capua, al servizio degli Aragonesi, combatté contro il duca di Atri, Giosia Acquaviva che aveva osato sfidare i potenti, rifugiandosi, disperato, nel borgo.
Da poco questo notevole esempio di architettura militare medievale è stato oggetto d’interventi per scongiurare problemi di staticità.
Qui ci si sente trasportati in un’altra epoca dove tutto era più semplice, genuino.
Cellino Attanasio, infatti, è discreta, Si arrocca con le sue case sin dall'XI secolo, anche se i numerosi rinvenimenti archeologici raccontano di vite ben più lontane.

La visita al paese potrebbe durare una manciata di minuti date le ridotte dimensioni, però se si opta per una lunga sosta, si viene ripagati eccome!

Si gode dei netti cambiamenti di luce nelle varie ore del giorno, si percorrono vicoli che a ogni angolo aprono scorci su facciate ornate di fiori, donne che cuciono o chiacchierano fuori l’uscio di casa, bimbi che giocano.

Guardando attentamente negli angoli più reconditi si scoprono portoni in pietra locale, alcuni con piccole sculture d’immagini sacre a proteggere la famiglia che vi abita.
Un tempo, agli ingressi, si scolpivano figure apotropaiche e grottesche maschere destinate ad allontanare spiriti maligni.
Lungo i meandri dell’abitato diventa impossibile per il visitatore non amare profondamente quell'incredibile unione di quotidianità e senso comune del bello semplice.
Un luogo pigro, tranquillo ma nello stesso tempo, energico e vivo, un palco di antiche emozioni.
Siamo lontani mille anni luce dal groviglio strombazzante che si scioglie tra le vie di un centro che non contiene vicoli di un paradiso turistico.
È la tranquillità, il valore aggiunto.
In fondo al viale d’ingresso al paese, dedicato a Luigi di Savoia, giace, in attesa di stupire, il monumento più rappresentativo, la chiesa madre dedicata a Santa Maria la Nova.

Risalente al trecento, la parrocchiale fu profondamente modificata nell'ottocento, a causa del disastroso crollo delle volte.
Da guardare con ammirazione c’è il portale quattrocentesco di Matteo Capro, napoletano innamorato dei nostri luoghi tanto da lasciare altre opere pregevoli in paesi di
montagna.
All'interno del tempio, che un tempo era a tre navate e oggi ne conta una in meno, c’è un tesoro diffuso: un cero pasquale datato 1383, con un serpeggiante tralcio di vite tra foglie e pigne, statue di buona fattura, un coro ligneo, un tabernacolo in pietra del tardo quattrocento, un ricco altare barocco.

Un luogo di rigoroso impianto ecclesiastico, elegante e bello.
E poi, nel cuore delle case, superata la piazza dedicata al naturalista Rubini, è doveroso raggiungere lo slargo di S. Antonio, dove si affaccia la chiesa dedicata al santo di Assisi, Francesco, inglobata singolarmente alla struttura di un altro torrione forse più antico dell’attuale cinta.

Mi viene incontro un signore, mentre mi appresto a salire in auto per andare via.
L’uomo con l’elegante cappello, come appartenesse a un altro tempo, mi saluta con rispetto, togliendo il copricapo dalla testa.
È il simbolo di un’Italia dimenticata, il segno di una tradizione fatta di educazione e rispetto che solo il cuore di un’antica provincia può conservare.

venerdì 16 gennaio 2015

" Da pericule, male e lambe, Sant'Andonie ce ne scampe

Per le foto si ringraziano Annunziata Taraschi e Eriko Lorinczi. Grazie all’associazione “Li Sandandonijre”

Guardate i video:
www.youtube.com/watch?v=XwoTugfbSzc
www.youtube.com/watch?v=hLI2PO3il-Y

Da quasi vent’anni la ricorrenza della festa di S.Antonio Abate, anima l’antico borgo di Cermignano, nella valle del Fino. Anche quest’anno tra canti e “cillitt”, gli uccelletti, il dolce tipico con il cuore di marmellata, si consuma un rito ancestrale di profonda devozione.

A Teramo, cani, gatti, uccellini e criceti animeranno la zona antistante l'ex manicomio per ricevere la tradizionale benedizione in occasione della festa di sabato. Prima, ore 11,00, nella chiesa di Sant'Antonio, tanti teramani, accompagnati dai loro amici animali, assisteranno alla messa .


Arrivano alla chetichella.
Prima uno, vestito alla contadina con cappellaccio nero in testa. Qualche minuto, dopo la lunga barba nera, lo sguardo vivo di un altro con tanto di tamburelli.
Mi guarda come se avesse di fronte l’ultimo degli ignoranti, poi informa che si tratta de “li ciuciombrë” altro che tamburelli!

Sfilano davanti ai miei occhi una teoria di attrezzi indecifrabili che dovrebbero cacciar fuori melodie.

Gianfranco Spitilli, conosciuto teramano custode di antiche tradizioni, vestito con l’immancabile saio francescano del santo anacoreta, mi descrive cosa sfila davanti ai miei occhi:
“lu tracaje”, strumento a percussione particolarmente arcaico, presente nelle più lontane culture, la cui origine è strettamente legata alla funzione sonora, un tempo usato come spaventapasseri;
“la checoccë”, zucca essiccata;
l”u ttivule’ttavule”, strumento ritmico ottenuto da una tavola per lavare i panni, sfregata con un pezzo di legno;
“lu battafochë”, tamburo a frizione, formato da una canna di fiume innestata su di una pelle tesa con sotto a fare da cassa di risonanza, una piccola botte.
Infine, come da copione, l’immancabile “ddu bbottë” a due bassi, lo strumento più caratteristico di questa nostra parte dell’Abruzzo.
L’organetto è in ottima compagnia tra chitarre, fisarmonica e campanaccio, elemento insostituibile dei canti di questua di S.Antonio.

Gianfranco mi parla di questo gruppo un po’ particolare: “Li Sandandonijre”. 
Suonano da oltre un quindicennio nei contesti più differenti- mi dice con entusiasmo- festival del folklore, feste di paese, serenate e matrimoni, manifestazioni culturali, rassegne, convegni, sagre.
La formazione musicale va da un minimo di 2 a un massimo di 14 elementi, a seconda delle necessità, dei contesti e delle disponibilità, presentando un repertorio vasto e in continua evoluzione, soprattutto grazie alla frequentazione dei tanti suonatori tradizionali presenti nella zona di Penna S. Andrea”.

Sant'Antonio Abate, il patriarca del monachesimo orientale, egiziano del III secolo, è venerato come non mai in tutto Abruzzo.

La figura del santo asceta richiama a infinite simbologie e fa da sfondo a tanti riti e usanze agresti.


Non potrebbe essere altrimenti per l’abate protettore degli animali, vista l’importanza nel mondo rurale rivestita dalle bestie da soma e da latte, dalle pecore al maiale, i beni più preziosi per le famiglie contadine.
Ancora oggi in piccoli paesi si assiste alla benedizione degli animali radunati davanti la chiesa e si accendono cataste di legno.
Il fuoco ricorda quando il vecchio eremita, secondo la tradizione, discese negli inferi tornandovi indietro col suo bastone ardente per donare al mondo il fuoco purificatore della pace. La fiamma simboleggia il passaggio dall'inverno alla prossima primavera.
Resistono ancora i canti burleschi e irriverenti dei questuanti rievocanti le tentazioni subite dal santo.
Oggi i cantori sembrano aver perso il potere di sorprendere.

L’associazione culturale de “Li Sandandonijre” cerca di non far morire questa bella tradizione.
Un tempo i cantori giravano orgogliosi per le campagne, portando sul dorso di un’asina, assicurata con due corde, un’urna di vetro nella quale era collocata l’effige del santo con la barba fluente e il suo maialino.
Oltre ai canti essi raccontavano i miracoli e le guarigioni del bestiame avvenute in luoghi vicini e altre cose prodigiose che sarebbero state ottenute in virtù di quella immagine sacra.

L’allegra combriccola portava con sé dei piccoli animali, porcellini, papere, o cani che, a loro dire, erano stati oggetto di guarigione prodigiosa.

E che dire dell’usanza, completamente scomparsa, di benedire in piazza davanti alla statua del santo, i cavalli usati dai medici condotti dei paesi vicini?

Questi quadrupedi rivestivano importanza vitale per tutti.
I “cerusici da scavalco” come erano definiti gli antenati dei moderni medici di famiglia, andavano a visitare i malati con il carretto trainato dai cavalli, sia sotto il caldo cocente del sole di agosto o la neve copiosa di gennaio, dall'alba al tramonto.
Con i riti del “S. Antonio” proliferavano anche i “guaritori” che, con il grasso di maiale, curavano l’ergotismo, malattia cutanea molto diffusa tra gli abitanti della campagna conosciuta, appunto, come “lu foche de Sant’Antonio”.

La tradizione, incredibile a dirsi, vive ancora nella società rurale delle nostre campagne, tra modi diversi di intendere l’esistenza contadina tra galline, papere e…parabole satellitari.

Ricordo una stupenda opera di una pittrice della Valle Siciliana nota a tutti, Anita Scipioni.

Nella sua tela in stile naif è raffigurato il “Canto del Sant’Antonio” con una fantasia e una facoltà narrativa meravigliosa.
Il paesaggio invernale tra neve e alberi spogli, si lega mirabilmente all'aggressività allegra e spensierata di un gruppo di sei persone, dove alcuni portano il sacchetto con i doni ricevuti, noci, fichi secchi, nocciole, qualche uova poche salsicce, altri suonano il campanello e il cantante con pantaloni accorciati e camicia sbottonata nonostante il freddo, quasi sbanda in preda all'alcool ingerito nelle varie “visite” fatte ai casolari.

Ecco, parte della nostra storia è tutta in quel dipinto!

lunedì 12 gennaio 2015

L'antica "Campulum"


L’incontro con Campli regala sempre un pizzico di eternità.
Ogni volta che ammiro in piazza Farnese l’antica edificio del Parlamento, tra i più antichi d’Abruzzo, il “gotico sognante” come lo definì Margarita d’Austria, capisco che nulla ha potuto il tempo e l’arroganza dell’uomo.

La nobildonna varcò, scortata da soldati e servitù, la Porta Angioina per entrare nel borgo e trovò questo palazzo ancor più bello con un’elegante torretta di avvistamento, arcate più profonde, un sontuoso cortile con il pozzo e il piano superiore che oggi non esiste più.
L’incanto del loggiato con gli archi a tutto sesto rapisce ancora, così come attrae l’interno della collegiata di Santa Maria in Platea e il suo campanile a modello delle opere di Antonio da Lodi che realizzò quello bellissimo del Duomo di Teramo.

Serafino Razzi era un domenicano che ben incarnava la condizione dell’uomo “in cammino”, del pellegrino orante proteso verso Dio. Nel 1575 intraprese un viaggio in Abruzzo, e arrivò anche nel borgo farnese.
Il confine fra la “provincia pretuziana” e la “marca Fermana”, lo stato e il Regno Pontificio, dovette lasciare in lui un segno.

Profondamente colpito dalla nobiltà che permeava quel piccolo e apparentemente insignificante paesino, esclamò in una sua lettera:
“O Campulum Pretuziano … capolavoro a cielo aperto”!

Campli era il paese delle torri.
Oggi ne rimangono poco meno della metà:
quella dei Melatino in frazione Nocella, quella del campanile della cattedrale di Santa Maria in Platea, quella fortificata della Porta Angioina, del XIV secolo.

Lo studioso Pacifico Massimi, vissuto nel XV secolo, scrisse, in un testo latino, tradotto, diversi anni fa, dal compianto professor Faranda:
”Sino a quando esisteranno le ripe di Campli, Castelnuovo e Nocella, io ne sarò sempre amante. Mai sarò immemore di ciò che ho ricevuto né mi peserebbe ricambiarlo con il dono di mille vite”.

È storia che il famoso cantore cieco d’Andria, Luigi Grotto, pose Campli, per importanza, ben sopra le rovine della favolosa Castro.
Le viuzze e le mura narrano ovunque di antichi splendori.
Da tremila anni questo territorio è crocevia di popoli e culture.

I fondatori di Campli furono dei fuoriusciti di Campiglio, sulla collina sopra la valle, che gettarono le fondamenta di Capo Campli nel quartiere omonimo.
Questi prese il nome de “ Il Ricetto” forse per la presenza di un nucleo stabile di ebrei.
Qualcuno invece asserisce che Campli derivi da intra – campi e afferma che fu fondata dai proprietari di un castello vicino. Origini discusse, tra cui l’ipotesi di un tenimento umbro che parla di un “municipium inter campi”.
Quel che è certo è che il minuscolo borgo della provincia di Teramo trasuda, in ogni sua pietra, arte e cultura ultra millenaria.

Fin dalla preistoria ci sono stati insediamenti propri, come testimoniano resti risalenti all'età del bronzo, di un villaggio di allevatori e agricoltori del XIV, XIII secolo a.C. venuti alla luce in località Coccioli e i ritrovamenti nella Necropoli di Campovalano con tombe risalenti dall’ XI al II secolo a.C.

Nella zona al margine nord ovest della necropoli, sotto l’altare della chiesa romanica di San Pietro in Campovalano, fu poi rinvenuto un frammento di epigrafe, in lettere capitali con dedica a Giulio Cesare, resti con tutta probabilità di un piedistallo di statua innalzata per disposizione della ex “Lex Rufrena” del 44 a.C. in onore a Cesare divinizzato.
Nella stessa area si registrò la presenza di una necropoli romana, da cui provengono frammenti del ”sarcofago di Aurelio Andronico”, ricco commerciante di marmi del III- IV sec. A.C.

Nella frazione Battaglia ai piedi delle due montagne gemelle, fu riportato alla luce un ripostiglio contenente una quarantina di monete d’argento databili dal 323 al II secolo prima del Cristo.
In epoca romana Campli era attraversata nei suoi vicoli da uomini illustri; la storia ricorda la presenza di Lenate, dottissimo schiavo di Pompeo e Tazio Lucio Rufo che, pur essendo di umili natali, pervenne ai più alti gradi della milizia romana, diventando il pupillo di Augusto.

L’abitato sembra un souvenir da impacchettare, un piccolo prezioso oggetto da custodire, nonostante la distruzione di porte antiche come quelle di Capo Castello o di Viola, di porticati tardo romanico e di uno dei portali più belli in assoluto, quello in pietra arenaria di Ioannella della cattedrale di Santa Maria in Platea.
Lo storico teramano Palma lamentò la scomparsa di questo manufatto intagliato e scolpito “con raro gusto di un esteta”.
Oggi è quantomeno discutibile il colore con cui è stata restaurata la facciata di questo capolavoro.

Se vi recate a Campli non abbiate fretta.
Godetevi i cortili interni e le case antiche come quella storica del Medico con il cortile e il suggestivo pozzo.
Salite in ginocchio i ventotto gradini in legno di quercia di una delle tre Scale Sante esistenti nel mondo cattolico per lucrare indulgenza.

Cercate, infine, la chiesa dedicata alla Madonna della Misericordia, uno dei primi ospedali d’Abruzzo o quella intitolata a San Francesco, nel cuore del paese, simile all'omonima di Teramo, oggi S. Antonio, gioielli degli Ordini Mendicanti di un tempo.